mercoledì 23 settembre 2015

UN MONDO SENZA PIETA'

 Un mondo senza pietà
di Eric Rochant.
con: Hippolite Girardot, Mireille Perrier, Yvan Attal
Francia, 1989 
genere, drammatico
durata, 85'




"Oisive jeunesse
A tout asservie
Par delicatesse
J'ai perdu ma vie".
- A.Rimbaud -


Nel tempo dell'obsolescenza programmata dei prodotti, una delle merci simboliche che mano mano ha visto più assottigliarsi il proprio intervallo d'impiego (ossia il percorso che lo separa dalla data di scadenza e, quindi, dalla massa indifferenziata dei rifiuti) e' - va a sapere se per disgrazia o per fortuna - quella del ribelle a vario titolo. Che - genericamente - ribellarsi sia diventato sempre più necessario o sempre più funzionale agli scopi opposti al suo manifestarsi, e', in altre parole, materia vasta e controversa che e' sensato destinare ad altre sedi. E' tuttavia un fatto che il Cinema riesca ancora, con una certa puntualità, a restituire modificazioni e sfumature proprio in relazione a questo aspetto antagonista del vivere, nei modi di un'immediatezza e una sintesi oggigiorno rare (un'annotazione per tutte e per restare vicino a noi: "Les combattants", di Cailley), a volte persino precluse - o magari in esse solo discontinue - ad altre forme d'espressione.

Esempio tra i possibili e' di certo anche la figura di Hyppo/Girardot nell'esordio di Eric Rochant, a nome, appunto, "Un mondo senza pietà". Già nel passo assertivo del titolo echeggiano gli atteggiamenti scostanti e il fare nervoso di un giovane (borghese) disincantato e cinico abbastanza per, da un lato, convivere, facendosi mantenere, assieme al fratello minore, liceale più dedito allo spaccio al dettaglio tra i coetanei che all'applicazione scolastica; dall'altro, darsi per pura inerzia alla remunerazione aleatoria del poker, inframmezzando tali attività alla contemplazione distante e sarcastica di un mondo - il nostro, a dire l'Occidente moderno, tecnologico, finanziario il quale, tra l'altro, proprio in ragione dei presupposti filosofici, politici, economici che lo fondano, non può non essere senza pietà - in piena e soddisfatta rincorsa verso la distruzione ("Se almeno potessimo prendercela con qualcuno. Se potessimo credere di servire a qualcosa. O di andare da qualche parte... Ma cosa c'hanno lasciato ? Un domani felice ? Il grande mercato europeo ? Non abbiamo niente"); alle frequentazioni con l'amico del cuore Halpern (un Yvan Attal posapiano e sardonico, anch'egli qui alla sua prima volta - e al suo primo Cesar -) e alla roulette sentimentale a base di ragazze incapaci di lasciare, a conti fatti, traccia duratura in una prassi scaltrita dalla ripetizione e da avvilenti conferme. Chiaro che le cose prenderanno una piega inedita al momento in cui il destino in apparenza segnato di un buono a nulla come tanti, come Hyppo, andrà ad intersecarsi a quello dell'altrettanto in apparenza mite Natalie/Perrier, minuta e riservata, di mestiere (precario) interprete, laboriosa e precisa esecutrice di una vita da esperire sul parimenti diffuso ma insidioso crinale che separa la sicurezza fittizia della regolarità dai giri a vuoto dell'insulsaggine dell'aurea mediocritas, in attesa di un'opportunità solo in parte esauribile da una prestigiosa borsa di studio oltreoceano.

Il pregio di un film piuttosto lineare nella messinscena ma reso sotterraneamente vibrante e autentico dallo scontrarsi di dialoghi diretti e non di rado insofferenti ad individuare un tormento esplicitato quasi proprio malgrado, tratto cioè fuori a forza da una nausea che vorrebbe solo non sapere più niente (alla sceneggiatura ha collaborato A.Desplechin, autore avvezzo a masticare il disagio interiore), come da silenzi duri o di trattenuta afflizione, risiede soprattutto - e allo stesso tempo - nella frizione (a dire, nel sorprendente effetto di naturalezza che da tale attrito scaturisce) tra un Sistema che per statuto non fa che promuovere ed esaltare l'individuo e l'impossibilità pratica di conciliare le esistenze dei singoli - i loro sogni, i loro smarrimenti, le loro presunzioni - con l'impianto solo in superficie rigoroso e finalizzato di una realtà sul serio slabbrata e ormai perlopiu' incomprensibile, tenuta assieme da una frenesia dissipatoria che Hyppo prova a gestire con la rinuncia e una calcolata apatia e Natalie, propositiva e fiduciosa, s'illude ancora di poter, bene o male, cavalcare, ma da cui entrambi, in maniere diverse, si sentono tenuti in ostaggio, oltreché, sottopelle, umiliati. In tal senso - nel corpo di una Parigi di corsa, seduttrice opaca e brutale nello splendore ingannevole dei suoi annosi boulevard - Hyppo, seguito passo passo dalla mdp di Rochant, nonché sostenuto dalla progressione decisa e inquieta della partitura-guida per piano di Gerard Torikian, si sposta su ciò che resta delle impronte di un immaginario cinematografico tipicamente francese come dovesse o fosse ancora possibile saldare la strafottenza lunare dei non-eroi godardiani al tipico gusto-del-negativo tardo moderno, inodore, insapore ma capace di pervadere e, all'occorrenza, recidere tutto, anche gli scampoli di un maledettismo magari spendibile sebbene, comunque, fuori tempo massimo, così come i vincoli ideali e romantici di un ipotetico Antoine Doinel scaraventato dalla meraviglia dell'incontro/rivelazione col mare all'iper-parossismo omicida del carnevale dei topi contemporaneo.

Armato nonostante tutto di un insopprimibile vitalismo, declinato per sottrazione nelle fogge di una difesa strenua di ciò che l'interiorità non vuole smettere di dettare e si rifiuta di spartire con un contesto umano, psicologico e morale sostanzialmente indifferente nella sua equanime crudeltà ("Cosa sei, una macchina ?", apostrofa stranita Natalie. "Una macchina per vivere", ribatte secco Hyppo), Hyppo finisce così per opporre alla sua stessa rassegnazione la forza nuda di una coerenza più sistematica e coriacea rispetto alla risolutezza programmatica e persuasa solo negl'intenti di Natalie, a ben vedere, in fondo, molto più conformista nell'aderire a modelli di comportamento che traggono la loro legittimità per gran parte dalla passiva reiterazione/condivisone su larga scala.
Addirittura il perdigiorno arriverà a mostrare - per non rinunciare ad uno slancio autentico, quantunque minato dalla patologica transitorietà di questi anni inumani - di essere svincolato pure dalla propria inconsistenza ("A volte bisogna fare delle concessioni", borbotta. E: "Dovrò sgobbare ancora"), sperimentando in prima persona, nel fallimento di ogni prospettiva ribellistica che non sia una lucida e intransigente auto-emarginazione, lo spazio residuale in cui in via esclusiva essa può produrre, col rischio mai del tutto eluso di uno sforzo a perdere, una trasformazione interiore vera e profonda, vale a dire l'innamoramento, esaltante e doloroso strappo non addomesticabile al tessuto di giorni altrimenti irrimediabilmente perduti, verso il quale, con nonchalance e una punta d'apprensione, mostrare sincera apertura secondo l'estro beffardo di una semplice constatazione: "Non ci resta che innamorarci come dei coglioni. E questa e' la cosa peggiore".
TFK

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