lunedì 30 agosto 2021

martedì 24 agosto 2021

FREE GUY - EROE PER GIOCO

sabato 21 agosto 2021

BECKETT

mercoledì 18 agosto 2021

Invisibili: Tilt

 Tilt

di, Kasra Farahani

con. Joseph Cross, Jessy Hodges, Elijah Collins, Billy Khoury, Christian Calloway, Kyle Koromaldi

USA 2017 

durata, 100’





I’ve been thinking for days

about the means and the ways

— Filastrocca —



Dal momento che, da inguaribili dissipatori, siamo abituati a largheggiare, non ci scompone più di tanto annoverare il complottismo sì tra le masturbazioni travagliate - a dire tanto laboriose quanto insoddisfacenti - tenendo però presente, a mo’ di spasmo non del tutto velleitario, uno dei suoi ingredienti nobili (non foss’altro perché foriero di implicazioni ulteriori, talvolta in grado di mettere in luce aspetti ambigui della quotidianità altrimenti sottovalutati o destinati alla dispersione), nel caso di questo “Tilt” di Farahani ricondotto agli albori delle sue sfaccettate epifanie, a dire l’ossessione qualche passo prima che l’intero processo si adagi nel vicolo cieco della paranoia. Condizione che, via via e plausibilmente, si impossessa del in fondo mite Joseph T. Burns/Cross - detto Joe - appartato filmaker dei sobborghi losangelini il quale, come spesso accade, dopo un documentario passato persino per qualche festival [avente come tema la curiosa parabola percorsa dal gioco del flipper/(pinball, in orig.) negli USA a cavallo degli anni Quaranta (pare che una corte fosse giunta a riconoscere per il popolare passatempo, salvo essere poi smentita grazie a una spettacolare dimostrazione pratica, una natura assimilabile a quella del gioco d’azzardo)], stenta a completare l’opera seconda, stavolta centrata sulla tesi per cui il capitalismo - solo metonimicamente - americano, a partire dalla sua cosiddetta Golden Age, corrispondente al periodo successivo alla conclusione del secondo conflitto mondiale, si sia sempre più caratterizzato per una ineguale redistribuzione della ricchezza al cui confronto i correttivi proposti allo scopo di contenerne gli eccessi hanno finito per rivelarsi, più che altro, artifici retorici, strumenti di una propaganda allo stesso tempo pervasiva e ingannevole. Apprensivo e scettico rispetto alla forma che il mondo ha assunto intorno a lui e di cui, invero sconcertato, contempla l’imperturbabile assurdità di talune sue casuali manifestazioni (un fastidioso fetore si spande per casa fino a portare alla luce, nell’intercapedine tra il pavimento e il terreno, il cadavere di un topo in avanzato stato di decomposizione; le piante del suo piccolo giardino, nonostante le assidue cure, hanno l’aria di rifiutarsi di crescere; si ritrova addebitato un servizio telefonico dall’onere del quale non riesce a districarsi, et.), quanto caparbio e assorbito dalla elaborazione delle proprie, assai critiche, contro-deduzioni, quella che per Joe avrebbe dovuto essere, in fondo, niente altro che un’altra tappa sul tragitto di una carriera ancora tutta da costruire, uno slittamento cognitivo dopo l’altro prende ad assumere i connotati di una vera e propria missione intellettuale atta al riconoscimento unanime di quella leggendaria verità-di-fondo ogni volta negletta o fraintesa dalla sedicente realtà (leggi: strumentalizzata dal cosiddetto sistema) e di cui egli si sente, al tempo, depositario e araldo.



Ciò non bastasse a radicare lo smarrimento e a seminare i grani di una angosciosa instabilità nell’intrinseco puntilismo di un evento esistenziale isolato, di per sé consegnato all’anonima irrilevanza della ordinarietà contemporanea, si deve aggiungere, da un lato, la figura di Janet/Hodges, giovane compagna, infermiera in dolce attesa, ragazza premurosa ma non esente da quell’estro tipicamente femminile con naturalezza incline a coniugare capacità di ascolto e scaltro pragmatismo in un ibrido tanto compassionevole quanto ambiguo; dall’altro, il ricorrente riaffacciarsi alla memoria del nome di un tal Chusuke Hasegawa, tizio che Joe non riesce a collocare con esattezza tra i ricordi ma che per qualche ragione non gli suona estraneo e le cui tracce prova a ricostruire in Rete, scoprendone infine il decesso in circostanze misteriose - e nei panni autentici, secondo varie agenzie di stampa, di un turista giapponese - sul suolo hawaiano tempo prima meta, per lui e Janet, di una breve vacanza. Sotto la facciata dell’equilibrio e della perseveranza, sempre meno convinto della in apparenza placida plausibilità di ciò che costituisce l’impasto dei giorni, Joe, anche per via della impasse creativa in cui versa il nuovo lavoro (ancora allo stadio di coacervo di immagini - spezzoni di spettacoli, film, notiziari, pubblicità sottratti all’oblio dalla memoria storica degli anni ’50 - in cui la allusiva intenzionalità retrospettiva porta a confondere più che a chiarificare, a volte irrita più che persuadere), che dovrebbe sia imporlo all’attenzione di un pubblico più vasto che riscattarlo dallo strisciante sentimento di paziente degnazione riservatogli da parenti e amici, prende quindi ad avventurarsi in lunghe passeggiate notturne durante le quali trova il modo di acquistare allucinogeni, spaventare un povero cristo impegnato in una sessione di bricolage fuori orario, insolentire una ragazza sul piazzale di un mini-market, farsi pestare da tre tiratardi, fissare con insistenza equivoca la sagoma di un senzatetto addormentato sul selciato.



La frustrazione subdola, pedestre, finto svagata, che si mescola come una riga di melma al corso già torbido delle nostre vite dal canto loro ridisegnate dalle correnti di un tardo modernismo tanto impetuoso nelle sue rappresentazioni, quanto, oramai, quasi astratto, metafisico nella attendibilità logica dei suoi presupposti, non di rado briga allo scopo di indirizzarne l’inerzia verso una abulia rassegnata o - vedi il presente caso - presso i territori desolati di una sorta di inquietudine feroce dagli accessi imprevedibili. Farahani, registrando il percorso in discesa dell’ennesimo uomo qualunque di fronte alla vacua accessibilità delle cose, alla loro forzata allegria o per contro alla loro enfatica drammatizzazione (qui è l’avvento dell’era Trump, subìto da Joe con ribrezzo e metabolizzato dai suoi conoscenti in un alternarsi di indifferenza annoiata e sarcastico distacco), alla stracca scipitezza con cui oggi, di base, si prestano alla menzogna e alle divagazioni aleatorie come se niente fosse, come se, tutto sommato, a nessuno importasse davvero più di nulla, insinua, - in modo lineare quand'anche arguto (il daily grind di Joe si snoda secondo i ritmi e le occorrenze di un meccanismo invisibile ma inderogabile a cui, ecco il paradosso nutriente dell’ossessione ricordato all’inizio, solo il progressivo sbriciolarsi delle consuetudini offre quantomeno la possibilità di un punto di vista laterale, benché anticipatore del disastro), al limite di una soavità intellettuale che non esclude la consapevolezza di una resipiscenza tardiva, con ogni probabilità immeritata e sempre più sorella gemella dell’impotenza - l’avvenuto distacco dell’elemento umano dalle proiezioni che egli stesso ha modellato su ciò che lo circonda al fine di circoscrivere profittevolmente i limiti del proprio agire. Del resto - e occorre ribadirlo soprattutto perché è Joe in persona che attorno a esso inanella una serie di sempre più sconsolati ragionamenti - il Capitalismo, nella sua essenza, è sul serio un’allucinazione - chissà: forse anche una patologia del linguaggio, oltreché un deragliamento della psiche - visto che il suo unico scopo, la sua ragion d’essere, tetragona e insindacabile, ossia il conseguimento a qualunque costo della infinite volte citata crescita (e del relativo profitto) a fronte di un contesto limitato quale quello in cui ci è dato vivere, sta lì a dimostrarlo. Modi e maniere per uscirne, quindi, non contemplando un sovvertimento radicale, sembrano in tal senso rientrare ancora in un armamentario desueto o inefficace, per non dire disperato e fuorviante, in specie se si riflette sul fatto che gran parte di quegli strumenti la abbiamo, senza nemmeno troppe afflizioni, barattata con (l’idea) del denaro, con gli oggetti e l’intrattenimento.

TFK

martedì 10 agosto 2021

FIRST COW


di Kelly Reichardt
con John Magaro, Orion Lee, Toby Jones, Ewan Bremmer
USA, 2020
genere, drammatico
durata, 121




Chiamato a legittimare la propria investitura, era chiaro prima di altri a Carlo Chatrian che la partita si sarebbe giocata soprattutto sulle scelte dei film selezionati per il concorso ufficiale, quello dal quale uscirà il vincitore della 70 edizione del Festival di Berlino.

In questo senso, la scelta di Kelly Reichardt e del suo First Cow è di quelle destinate a fare letteratura, tanta è la distanza da quelle fatte a suo tempo da Cannes e Venezia per quanto riguarda le produzioni americane. Rispetto a Del Toro e Todd Philipps, solo per fare i nomi di due degli esponenti più rappresentativi del nuovo corso imposto da Barbera, la Reichardt è autrice di segno opposto, a cominciare dalla determinazione con cui rinuncia alla spettacolarizzazione del proprio lavoro.

Abituata a lavorare con budget microscopici e in maniera indipendente, l’autrice di Meek’s Cutoff e Night Moves fa di necessità virtù, allestendo un cinema povero di mezzi ma ricco di contenuti.

Dunque, è sbagliato pensare al lavoro della Reichardt in termini riduttivi, perché quelli della regista americana a suo modo possono essere considerati dei veri e propri kolossal, se è vero che ad andare in scena è l’anima degli esseri umani riprodotta all’ennesima potenza dall’attenzione fenomenologica e dal minimalismo narrativo con cui la cineasta statunitense si rivolge alla vite dei suoi personaggi.

Pertanto, è il fatto di fare “pietra d’angolo” di ciò che di solito rimane fuori campo a fare la differenza: in First Cow, infatti, più che la storia, come sempre minimale e qui incentrata sulle avventure di due picari decisi a costruire la propria fortuna (e non solo quella) rubando il latte (dalla mucca del titolo) necessario a produrre gustosi dolcetti, a essere peculiare è la meticolosità dell’indagine volta a catturare i gesti e le espressioni, così come i corpi e i volti dei personaggi; soprattutto quelli del taciturno ma solidale pasticcere Cookie Figowitz, che attraversa il west in cerca di fortuna insieme a King Lu, immigrato cinese a cui si offre prima come benefattore e poi come amico.

Ed è proprio sul personaggio del vagabondo puro e sincero che First Cow costruisce la sua fortuna, consegnandoci il ritratto indimenticabile di un loser che la Reinhardt sembra ricalcare sull’immaginario del coevo  (visto che la storia del film si svolge nell’Oregon dei primi del ‘900) Charlie Chaplin, al quale Cookie (un grande John Magaro) “ruba” non solo il romitaggio e un’esistenza fatta di espedienti necessari a sopravvivere, ma anche una compassione capace di imporsi sulla crudeltà del mondo.

Una rimembranza, questa, sufficiente a ripagare il prezzo del biglietto, se non fosse che First Cow approfitta della sua collocazione temporale per realizzare un western anomalo, i cui stilemi e archetipi, propri del genere in questione, diventano lo specchio della società contemporanea, con indiani, afroamericani e cinesi pronti a replicare il melting pot culturale e le dinamiche del capitalismo in corso nella nostra società.

Se il paragone non è nuovo, a contare è il modo in cui la Reichardt riesce a formularlo, procedendo con entomologa precisione a isolare i personaggi all’interno del proprio ambiente per poi osservarli con una macchina da presa che funziona come una lente di ingrandimento, grazie anche alla scelta di girare in pellicola e con il formato 4:3, preferito a quello normale.

Riducendo i movimenti di macchina al minimo indispensabile e mettendosi in ascolto dei protagonisti senza perdere niente della loro vita minuta, l’autrice riempie il film di stasi e di silenzi altresì rivelatori del trascendentale rappresentato dal pensiero del film (e della regista), pronto a riflettere sul destino delle cose e degli uomini.

Con il suo film Kelly Richardt entra di diritto tra le candidate alla vittoria finale.
Carlo Cerofolini
(pubblicata su taxidrivers.it)


'Rehana Maryam Noor'

'Rehana Maryam Noor' 

Abdullah Mohammad Saad

con Kazi Sami Hassan, Afia Jahin Jaima, Azmeri Haque Badhon

genere, drammatico

Bangladesh, Singapore, Qatar 

durata, 107’



Presentato fuori concorso a Cannes 74 nella sezione Un Certain Regard. Capita sempre così, ovvero che nei grandi festival internazionali le sorprese non riguardano il concorso principale, di solito riservato ai nomi appartenenti al gotha internazionale (in quello di quest’anno i pronostici sono a favore di Nanni Moretti e di altre vecchie conoscenze), bensì le cosiddette sezioni collaterali, quelle che costituiscono il trampolino di lancio per giovani virgulti. E’  il caso di Abdullah Mohammad Saad, autore del Bangladesh, issatosi fin qui grazie a un primo film, "Live from Dhaka", carico di premi e di stima ottenuti in festival rigorosi come Rotterdam e Locarno. "Rehana" sembra essere figlio di quelle esperienze, non facendo nulla per apparire diverso da quello che è, ovvero un film in cerca di fortuna presso spettatori cinefili  aperti a storie provenienti da altre culture, di cui il film del regista si fa portavoce in maniera critica e conflittuale.


Prendendo il nome dalla determinata protagonista, "Rehana" racconta la vertigine emotiva di una giovane assistente universitaria, coinvolta in un vortice di avvenimenti che a un certo punto la mettono nella condizione di dover decidere del futuro delle persone che le sono più vicine, nel lavoro e nella propria famiglia. Convinta a non arrendersi alla posizione minoritaria occupata dalla donna nella società del suo paese, Rehana si ribella allo status quo trovandosi però davanti a questioni etiche che ne mettono in forse i principi della sua azione.



Come si capisce dalla trama "Rehana" ha tutto per figurare come un film di denuncia, di quelli che a queste latitudini sono destinati a conquistare la critica desiderosa - non a torto - di spendersi per una giusta causa come quella raccontata dal film. Sola contro tutti e in una condizione come quella femminile che ne mette in discussione per principio la giustezza del suo fare, Rehana appare fin da subito una figura eroica, disposta com’è a battersi contro una realtà più grande di lei. Personaggio fuori dal comune che il regista pedina all’interno nel suo ambiente, alimentando una tensione scatenata dalla contrapposizione tra le certezze della protagonista e la reticenza dei suoi interlocutori; quest'ultima presente anche tra le fila di coloro (la studentessa concupita dal professore, la figlioletta accusata di aver picchiato un compagno di scuola) di cui la donna prende le difese.


Ed è proprio il clima di incertezza in cui si muove la storia a fare la differenza, con i fatti non supportati da una visione oggettiva, ma presentati allo spettatore in maniera indiretta, attraverso il racconto dei presunti testimoni. Senza venire meno alla realtà dei fatti e ai motivi della sua istanza, "Rehana" con il passare dei minuti si scrolla di dosso l’etichetta del film politicamente corretto, arrivando a cambiare pelle in una maniera che dal punto di vista cinematografico ricorda il cinema di Asgard Farhadi (peraltro presente a Cannes nel concorso principale con "Un Heros"). Come quello, infatti, "Rehanna" ha la capacità di operare scarti psicologici impercettibili che nella loro totalità sono però in grado di diminuire la distanza tra le parti, avvicinandosi alla vita vera perché come in quella è difficile essere sempre al di sopra delle parti. Come capita a Rehana, di cui a un certo punto è difficile capire dove finisce il senso di giustizia e dove invece incomincia lo sfogo delle proprie ossessioni personali. In quest’ottica "Rehana" mette in secondo piano le sollecitazioni progressiste per diventare il lucido referto della condizione umana e delle sue contraddizioni. Così facendo il regista imprigiona i caratteri in una sorta di laboratorio comportamentale, simile a un limbo esistenziale in cui il confronto tra forze opposte e il pathos che ne deriva sono raggelati dalla geometrica linearità delle inquadrature, oggettivate dalla presenza di una fotografia monocromatica la cui patina sembra voler materializzare il velo di ipocrisia che impedisce a chi guarda di conoscere fino in fondo le persone e il loro animo. Ad Abdullah Mohammad Saad il plauso di essere riuscito a raccontare una figura femminile capace di dialogare con il cinema del dopo #METOO con una complessità che è il contrario della retorica insita in molta narrativa contemporanea. 

Carlo Cerofolini

(pubblicato su ondacinema.it)


Frammenti di visione: a proposito di 'Lamb'

 Lamb

di, Ross Partridge

con Ross Partridge, Oona Laurence, Tom Bower, Jess Weixler, Scott McNairy, Lindsay Pulsipher

- USA 2015 -

97’




Little Lamb who made thee?

Dost thou know who made thee

gave thee life, and bid thee feed

by the stream and o'er the mead

— W. Blake —


 



Quando due solitudini si dedicano al funambolismo sullo stesso filo blu, accade che l’equilibrio – già di per sé precario – diventi una faccenda quasi aleatoria, a meno che non ci si trovi di fronte al miracolo del bilanciamento reciproco.  Sembrerebbe questo il caso dei due protagonisti di “Lamb”: un uomo di mezz’età mandato in frantumi dal matrimonio fallito e dalla morte del padre, da una parte; una ragazzina – circa undici anni – fin troppo sveglia ma vittima della disattenzione di una normalissima famiglia disfunzionale, dall’altra.


In questo contesto l’incontro iper-casuale tra i due non è semplicemente il motore dell’azione dal punto di vista drammaturgico ma soprattutto una necessità naturale, ovvero l’ennesimo tentativo di non morire. Non è un caso che la conseguenza più o meno diretta di questa strana combinazione di esseri umani sia un viaggio con cui ci si lascia alle spalle le vite fagocitate dall’orrore urbano per dirigersi verso campi dorati e montagne rocciose. Anche se a onor del vero ci si poteva spremere di più per tirare fuori dal comparto visivo delle immagini se non più suggestive almeno più aderenti al profilo – ognuno a proprio modo – misterioso dei personaggi, dal punto di vista del rapporto schermo-voyeur l’opera mantiene un livello di ambiguità tale da creare in chi guarda l’idea di una possibile degenerazione del rapporto – mi si perdoni l’autoconcessione di utilizzare questo inciso per una battuta, ma qui è proprio il caso di dire che la pedofilia è negli occhi di chi guarda – mantenendo dunque uno stato d’angoscia sottile e duraturo lungo l’intera visione.


L’epilogo più normale possibile è dunque laconico e conferma, come se ce ne fosse ancora bisogno, che se non si può separare la tristezza dal cuore si può perlomeno lanciare il cuore nel vuoto.

Antonio Romagnoli