lunedì 28 dicembre 2020

TUTTI PER 1 - 1 PER TUTTI

domenica 27 dicembre 2020

SOUL

Soul

di Peter Docter, Kemp Powers

USA, 2020

genere, animazione

durata, 100'





"Il paradiso può attendere". L’affermazione mutuata dall'omonimo film del 1978 diretto da Warren Beatty potrebbe essere uno degli slogan con cui riassumere l’assunto che ci cela dietro l’ennesima meraviglia di Casa Pixar. “Soul”, questo il titolo del lungometraggio diretto da Peter Docter, ruota attorno al sogno dell’insegnante di scuola media Joe Gardner (cui nella versione originale presta voce Jamie Foxx), deciso a tutto pur di non mancare l’appuntamento della vita rappresentato dalla possibilità di mettere a frutto il proprio talento suonando nel quartetto Jazz più famoso della città. E qui risulta utile tornare per un attimo al titolo del film perché quello scelto dal regista è sì il riferimento all’anima musicale del film e a quella del suo personaggio principale, pianista dalla classe sopraffina, ma ancora lungi dall’essere compresa e riconosciuta, ma anche un'allusione alla materia fantasmatica di una storia in bilico tra cielo e terra, luogo dove l’anima di Gardner nel frattempo vorrebbe tornare dopo essersi staccata dal corpo a causa dell’incidente mortale di cui rimane vittima il protagonista.



Ambientato in parte a New York, in parte in una sorta di limbo chiamato You Seminar in cui le anime ancora imberbi ricevono l’imprinting emotivo destinato a caratterizzarne la vita materiale, “Soul” ricalca le gesta di un film come “Inside Out” per la fantasia con cui riesce a razionalizzare e rendere propedeutiche alla visione una delle componenti più ineffabili delle nostre credenze. Se infatti nel film del 2015 diretto dallo stesso Docter le ”matite” della Pixar esploravano la mente della piccola protagonista per metterne in scena l’origine e l’interazione di pensieri ed emozioni, questa volta a fare la parte del leone è la cosmogonia dell’altrove metafisico rappresentato dal luogo in cui ha inizio, o almeno dovrebbe averlo secondo gli autori del film, il nostro stesso essere. Un universo magico e cangiante che "Soul" immagina attraverso la stilizzazione di figure e paesaggi caratterizzati da una prevalenza di linee e geometrie utili a rendere visibile una realtà di per sé trasparente e intangibile.



Scandito da un viaggio allo stesso tempo fisico e esistenziale, fiabesco e filosofico, e incentrato su due personaggi da buddy movie, con Gardner chiamato suo malgrado a fare da mentore a un’allieva intelligente e ribelle conosciuta con il nome di 22 (Tina Fey), “Soul” è una favola sull’amicizia e sul senso della vita - ancora una volta individuato dal motto relativo al carpe diem latino - la cui classicità è tale da far nascere oramai spontanea la percezione di trovarsi di fronte a uno spettacolo che non perde nulla, ma anzi ha qualcosa in più sia in termini formali (tridimensionalità e immaginari movimenti di macchina sono all’altezza del migliori film di finzione) sia delle argomentazioni rispetto al resto del cinema d’autore.



In questo senso “Soul” mette a frutto nel migliore dei modi la possibilità di poter tradurre senza alcun limite la fantasia dei suoi autori consegnando alle immagini una rappresentazione della vita capace di riempire gli occhi dello spettatore con una serie di performance visive - in particolari quelle post vita presenti nel corso del pellegrinaggio ultraterreno dei protagonisti - degne delle più riuscite produzioni Pixar. Non senza menzionare la peculiarità di una sceneggiatura, che qui come in altri lavori della major americana evita riferimenti diretti ai fatti della Storia trasfigurandoli in modo più nascosto quando si tratta di rileggere la contemporaneità attraverso pensieri e fatti comprensivi dei dubbi e delle paure scaturite dall’inconscio collettivo cui “Soul” offre una catarsi lenitiva delle vicissitudini del tempo presente. Per cui, fermo restando la nostra gratitudine nei confronti della Festa del cinema di Roma che ha scelto il film per aprire l’edizione 2020, è davvero un peccato che al di fuori della manifestazione capitolina chi lo vorrà vedere lo potrà fare solo attraverso la piattaforma Disney che lo distribuirà in esclusiva a partire dal 25 dicembre prossimo venturo. Nel buio della sala e sul grande schermo “Soul” è destinato a imprimersi nella memoria con ben altra suggestione.

Carlo Cerofolini

(pubblicata su ondacinema.it)


sabato 26 dicembre 2020

INVISIBILI: 6 YEARS

6 years

di: Hannah Fidell

con: Taissa Farmiga, Ben Rosenfield, Joshua Leonard, Lindsay Burdge, Dana Wheeler-Nicholson

- USA 2015 -

77’





He’s watching time

he’s watching, marching to his end

He knows time

he sees it

know it, know it, know it

— Throwing Muses —



Sarebbe il caso di frequentare con maggiore assiduità la schizofrenia. Se non altro si arriverebbe - perché no ? - a inquadrare con più accurata approssimazione almeno l’inutilità caleidoscopica di tanti aspetti della cosiddetta realtà, tipo quella che presiede alla compilazione dei palinsesti delle piattaforme televisive. Poca cosa, si obietterà. D’accordo. Eppure, talvolta, rovistando tra le loro glitterate interiora - nel caso, quelle di Netflix - può capitare di imbattersi in segmenti cinematografici che stonano talmente con la logica di base (eh ?) dei rispettivi contenitori da riuscire a risaltare oltre i propri meriti (leggi, volendo: limiti).


Coppia covalente dai sobborghi residenziali di Austin Tx (il film è stato girato in loco contemplando fuggevoli squarci riconducibili alle astrazioni allusive di certe ricorrenze care a Hockney), Melanie Clark, detta Mel/Farmiga (Taissa, figlia di Vera) e Dan Mercer/Rosenfield - la cui gestalt e l’ubi consistam sono rappresentati da una prossimità elettiva ed esclusiva, dorata e semi-impermeabile che rimonta indietro nel passato di una giovinezza ancora in costruzione per i fatidici 6 anni del titolo - stanno di preferenza appiccicati come lappole, ciarlano, scazzano, si accoppiano, assecondano personali inclinazioni (la musica per Dan, come praticante per una agguerrita etichetta alternative-rock; l’idea dell’insegnamento coi più piccoli per Mel), con il mondo, allo stesso tempo, lontano sullo sfondo indistinto a ruminare gli eterni precetti della cosiddetta età adulta e qua e là dappresso grazie al digrignare impercettibile ma caratteristico dei suoi denti da sempre pronti ad affondare nelle aspettative delle carni nuove e a rimescolare equivoci, minute bassezze, goffaggini travestite da insolenze, scampoli di egoismo ignorati per non intaccare l’incanto di giorni in apparenza senza confini.



80 minuti scarsi; confezione tardo-indie, un po’ retromania perduta, un po’ inventario sentimentale, un po’ effetto neve senza schermo; dietro le quinte i fratelli Duplasse edotti nelle descrizioni succinte di stati d’animo disadorni e sofferenze dissimulate a riparo di una relativa sicurezza sociale e di una coscienza avvertita perché fondamentalmente adusa a essere informata, istruita e ambiziosa; dialoghi in linea con una quotidianità post-adolescenziale eccitata e prodiga di sé, languida e inquieta; un cuore espressivo che pulsa addosso ai suoi protagonisti - efebici e spontanei - cercandoli, lambendoli, braccandoli per far balenare lo splendore momentaneo di una intuizione presto lasciata cadere (pensiamo, per dire e per restare in territori ben disposti verso melodie timido-aggressive e/o sbilenche, a “Shocker in gloomtown” di The Breeders); lo smarrimento atono o l’esaltazione incongrua per un comune contrappunto emotivo; la fatica sorridente di passare da una distrazione all’altra con il sospetto privo di spiegazione per cui la vita autentica si stia svolgendo altrove (un altrove, manco a dirlo, che si allontana a ogni promessa partorita dalla stordente cripto-dittatura digital-commerciale); lo spettro intramuscolare di una solitudine la cui vastità e pienezza non si è più nemmeno in grado di disprezzare ma si contempla, nel silenzio e assorti, come frutto essiccato così incredibilmente reperibile a poco prezzo…



Per questo, allora, e perché rappresentano una evidenza innegabile quanto sottomano, si usano i corpi anche come strumenti di smemoratezza, in una maieutica dell’apprendimento che giocoforza include la menzogna e il succedaneo delle tentazioni (Dan ci da dentro con Amanda/Burdge - sua collega alla casa discografica dalla quale attende un inserimento in pianta stabile con tanto di ventilato trasferimento a New York - con l’animo astioso/contrito per le ruggini ricorrenti con Mel; Mel, sbronza, si libera appena in tempo di un tizio rimediato proprio malgrado a una festa e assai intrigato dalla sue lattee grazie); si pende dagli sguardi dell’altro/-a con quella radicalità ingenua ma pensierosa che - mettiamo - il Cinema di Sofia Coppola ha barattato per una arguzia e una sofisticazione formale figlie dell’attuale girare a vuoto attorno a pose/mode comunque reversibili in disinvolte abiure delle medesime. Si galleggia, in sostanza, sulla schiuma insidiosa di una modernità agonizzante che pare non esigere nulla da nessuno ma implica, per la natura subdola della propria pervasiva efficacia capace di svuotare ogni cosa del suo ipotetico valore allo scopo di apporvi sopra, banalmente, un prezzo (mesta trappola delle culture ossessionate dal raggiungimento di uno scopo), la marginalizzazione immediata di qualunque comportamento riluttante ad assoggettarsi alla sua inerzia. Ai bordi del crinale affacciato sull’orrido che sancisce la fine degli anni migliori Mel e Dan infine si ritrovano, si guardano, si apostrofano spergiurando di amarsi, ma si accorgono di non riconoscersi più (Mel: ”Tell me you love me and you want to spend the rest of your life with me”. Dan: ”… I … I’m sorry…”). E’ poco ? O addirittura troppo ?

TFK

MANK

Mank

di David Fincher

con Gary Oldman, Amanda Seyfred, Lily Collins

USA, 2020

genere, drammatico, storico, biografico

durata, 131'



Dicevano i registi della Nouvelle Vague come pure il nostro Bernardo Bertolucci che un’opera in grado di raccontare una storia e al contempo di riflettere sullo strumento cinematografico avesse in se le caratteristiche per dirsi riuscita prima di iniziare a girarla.


Se diamo per buono il concetto e proviamo ad applicarlo al nuovo film di David Fincher ci si trova in un solo colpo di fronte a un’opera predestinata al successo fin da quando Netflix ha deciso di metterne in cantiere la produzione.


Delle caratteristiche appena menzionate Mank fa infatti sfoggio sia  quando si tratta di raccontare la tormentata stesura del copione di Quarto Potere dal punto di vista di chi – Herman Mankiewicz –  fu incaricato di scriverne il copione, sia quando si tratta di metterlo in scena facendo delle immagini della tormentata gestazione la diretta conseguenza delle parole che di mano in mano vengono battute sullo schermo dai tasti della macchina da scrivere compulsi dalla febbrile ossessione del protagonista.




Discorso sui massimi sistemi


Parlare di Quarto Potere e della sua maledizione equivaleva a scomodare la storia della settima arte ai suoi livelli più alti, assumendosi con ciò la responsabilità di confrontarsi con un discorso sui massimi sistemi che nell’acerrimo confronto  tra l’arte del cinema e la sua industrializzazione e nella scelta di una narrazione archetipica, ridotta cioè a poche ed emblematiche figure, ognuna con una sua precisa caratteristica e personalità, si spostava inevitabilmente su un ragionamento più generale in cui i concetti di bene e male, integrità e corruzione, verità e manipolazione diventavano la trasfigurazione delle opposte forze messe in campo dal film.



Giullare di corte


Al cospetto di un appuntamento così importante  Mank si comporta come tutte le grandi opere post moderne mischiando cultura alta e bassa, privilegiando comunque un atteggiamento non dogmatico mettendone a capo una figura come quella di Mankiewicz, destinato a comparire nel palcoscenico dei grandi nelle vesti del giullare di turno (in questo avvicinandosi al tono e ai personaggi presenti nell’opera dei fratelli Coen), vero e proprio guitto – nonostante il milieu intellettuale – e come quello destinato a divertire la corte ma dalla stessa al momento giusto a esserne congedato.


E non solo: perché con uno scarto che non lascia indifferenti relega il vero protagonista della vicenda – Orson Welles – nella parte del comprimario. Sorte anche peggiore tocca a chi di solito è abituato a stare in prima fila sul palcoscenico dello spettacolo.


A meno che non sia indispensabile (Marion Davis, amante del magnate dell’editoria William Randolph Hearst alias Charles Foster Kane), a essere cancellati sono proprio i  divi del grande schermo, quelli che di solito in operazioni del genere diventano aneddoti messi a corollario della storia.


Nella rivincita della parola sull’immagine Mank inverte per una volta l’ordine dei fattori lasciando spazio alle figure di contorno come sceneggiatori, impiegati, macchinisti, operatori di macchina, segretarie e cioè a tutte quelle persone abituate a lavorare nell’ombra e qui invece chiamate a completare la compagnia degli invitati al ballo.




La forma


A rimanere sontuosa come sempre e forse di più è la cornice dell’azione, di quello sfondo che nei film di Fincher diventa parte essenziale della composizione, come sottolinea non solo l’insisto ricorso a campi medi e lunghi atti a valorizzarne linee, geometrie e dècor ma anche in termini narrativi concorrendo nei dettagli degli elementi presenti in scena a suggestioni come quella che rimanda a Lo Sceicco Bianco di Federico Fellini i cui echi riecheggiano nella sequenza in cui Mankiewicz dopo aver scorto dalla feritoia di un cespuglio la presenza di un set cinematografico  ha modo di fare conoscenza con l’attrice che vi è impegnata e cioè di Marion Davis vestita di bianco ed elevata (come peraltro capitava ad Alberto Sordi)  a divinità di un proscenio di segno però opposto per il disincanto e la consapevolezza che i personaggi felliniani non avevano.


Se la forma di Mank  rimanda in parte al film in corso d’opera, in parte  a quelli dell’epoca in cui si svolge la vicenda (soprattutto nel bianco e nero della fotografia, piatta e pastosa come lo era quello dei film degli anni 40), Fincher non esplora lo spazio ma lo disegna, lo mette in posa come si capisce confrontando la diversità di scelte operate dal regista di Denver rispetto per esempio a quelle di Martin Scorsese in The Aviator nella sequenza all’interno del locale notturno in cui la mdp si chiude sui personaggi anziché investigare la superficie circostante con dolly, carrellate e aperture di campo come fa invece Scorsese.



Stasi più che azione


Simile per origini e sviluppi di carriera a Ridley Scott – al quale lo avvicinano non solo gli inizi legati all’arte della pittura da entrambi frequentata, e quindi una particolare predisposizione nella composizione delle scene ma anche una predilezione per la rilettura dei generi, il nostro ha saputo passare dalla sintesi stilistica degli inizi,  praticata per il tramite dei videoclip (peccato originale che anche a Fincher è stato fatto scontare) a un passo narrativo che di volta in volta è diventato sempre più meditativo e compassato soprattutto laddove – e nel caso parliamo di una vera e propria progressione in opere quali Seven, Zodiac, The Social Network e Gone Girl (in cui sono presenti addirittura inquadrature vuote)- c’era da aspettarsi un concentrato di azione e movimento.


Mank lo conferma dapprima trattando la storia di un uomo abituato a far prevalere le parole, enfatizzandone la tendenza mostrandolo sdraiato su un letto incapace di deambulare a causa di un incidente; in generale facendo della ragione l’arma principale con cui Mankiewicz si batte contro il sistema surrogando di fatto l’azione, vero e proprio epigono di una serie di personaggi – quelli creati da Fincher – destinati a fare i conti nel bene e nel male – con le capacità della propria mente anche dove – e per esempio in Fight Club – il corpo sembrerebbe prevalere.


D’altronde è per primo il regista a chiedersi la ragione ultima che muove il comportamento dei suoi protagonisti, come attesta la doppia sequenza che vede il personaggio di Ben Affleck nel già citato Gone Girl domandarsi, con chiara apprensione quale sia l’autentica matrice dei pensieri che abita la mente della sua sfuggente consorte interpretata da Rosamund Pike.   



Ambiguità


Un discorso, questo, che ci porta a un’altra caratteristica  della poetica fincheriana presente  non solo attraverso il personaggio di Mank ma anche con l’illusione artificiale della messinscena.



Da una parte infatti il protagonista dissacra le storture e i sotterfugi del sistema impegnato a conservarsi; dall’altra ricostruendone la mitologia con l’accuratezza della messinscena ne rafferma la centralità nell’immaginario comune.


Valga per tutte la conclusione del film in cui il personaggio di Gary Oldman denuncia la menzogna dei meccanismi del cinema che riconosco a Welles la condivisione di un riconoscimento (alla migliore sceneggiatura) non meritato avallandone l’inganno in nome della magia della settima arte.


Peraltro tutto il cinema di David Fincher fa dell’ambiguità uno dei suoi tratti principali, quello destinato dapprima ad alimentarne la narrazione e poi a legittimarie gli esiti  con sequenze finali come quella di Mank che ne registrano la effettiva continuità.


Carlo Cerofolini


(pubblicata su taxidrivers.it)

venerdì 25 dicembre 2020

sabato 19 dicembre 2020

10 GIORNI CON BABBO NATALE

domenica 13 dicembre 2020

THE PROM

TEENAGE BOUNTY HUNTER

Teenage bounty hunters

di: AA.VV.


(da un’idea di Kathleen Jordan)

con: Maddie Phillips, Anjelica Bette Fellini, Kadeem Hardison, Virginia Williams, Mackenzie Astin, Devon Hales, Spencer House, Shirley Rumierk, Myles Evans


Stag I

ep. I-X

[durata media: 49’ ep./ca.]

- USA 2020 -





Jessica [instr.]

— The Allman Brothers Band —





Sarebbe di nessuno interesse, se non andasse a ispessire la copia delle cognizioni avvilenti, la notizia circa la chiusura, dopo una sola stagione protrattasi per dieci episodi, della serie “Teenage bounty hunters” la quale, forse - e sia detto a posteriori - Netflix aveva messo in cantiere suo malgrado o nonostante i propri standard, variegati e smaglianti in superficie quanto di fondo occhiutamente codini (notando, tra l’altro, che il titolo originale dell’opera, tosto censurato, suonava come Slutty teenage bounty hunters, ci si può volendo fare un’idea riguardo la politica, quantomeno ondivaga su più direttrici, della piattaforma). L’illazione trova comunque ulteriori argomenti rovistando tra le minuzie sparse di un lavoro a tal punto coincidente con tutta una serie di costanti e luoghi comuni riconducibili a un certo modo-di-vivere-americano (qui, quello buono per una particolare razza bianca affluente/conservatrice/timorata-di-Dio ma disorientata dalle spinte opposte rappresentate dalla volontà di salvaguardare il proprio status in cima alla piramide alimentare, nonché l’eredità discutibile di taluni suoi retaggi - la ribadita compartimentazione dei ceti con annesso sempiterno fascino fricativo del denaro; la genetica fissazione per le armi; il razzismo più o meno strisciante; l’orgoglio nostalgico per una grandezza perduta dalla cui cassetta degli attrezzi e per il tramite delle rievocazioni storiche fa capolino persino un rimpianto che recita a caratteri cubici The South was right - da un lato, e le trappole vischiose del politicamente corretto, dall’altro, nella Georgia dei nostri giorni: Atlanta, per la precisione) da lasciare scoperta, e proprio in virtù dell’estremizzazione parodistica dei birignao collettivi e relativi passe-partout linguistici, delle ingenuità quasi infantili e delle ipocrisie calcolate al millimetro - l’insieme di ogni spinta messa a dialogare col sorriso sulle labbra dal pretesto, utilizzato a mo’ di filo rosso, di una trattazione di genere (latamente demenziale-investigativa) - la trama sfuggente dell’inconscio di una nazione che, ancora una volta, trova nelle proprie contraddizioni sociali, economiche, attitudinali (e nel tentativo di esorcizzarle ridicolizzandole) la ragione di una sempre sorprendente aderenza ai tempi.



Del resto, le vicende delle non proprio gemelle (anche se nelle intenzioni della Jordan, ispiratrice del progetto portato poi a termine a più mani, così vengono definite, con tanto di intesa sororale subliminale e rivelazione traumatica in limine) Sterling/Phillips e Blair/Fellini del casato Wesley e, a voler essere pignoli, non proprio adolescenti (sia la canadese Phillips che la newyorkese Fellini viaggiano invero ben oltre la ventina), astute ma di leggiadra fatuità, latrici di una innocua e scanzonata zoccolaggine, cripto-beghine e sboccate, endocrinologicamente appetibili da tutte le varietà della fauna maschile, come di quando in quando interpellate da moleste remore interiori, sin da subito ben si prestano a ripercorrere incarnandolo buona parte del campionario delle manie/antinomie/dabbenaggini del Grande Paese. Se è innegabile, infatti, che la malinconia è tale soprattutto perché si nutre di contrasti, già vedere all’opera le due rampolle che si barcamenano tra la rigidità leccata dell’esclusiva Willingham Academy, istituzione privata d’impostazione cattolica quasi pre-conciliare, pronta in punta di retorica a vedere il Male pure in un’alba con troppe nuvole e nel sesso tra adolescenti la distruzione sicura della sana famiglia da santino devozionale, e il molto più prosaico quanto non meno sconclusionato microcosmo farcito di teppiste in erba, piccoli cialtroni della truffa, stripper sovrappeso, borghesucci dalla doppia vita e dalle altrettante morali, spacciatori rimbambiti, casi umani assortiti e minutaglia traffichina senza storia, da loro affrontato nella veste di apprendiste cacciatrici di taglie agli ordini del burbero dal cuore d’oro Bowser/Hardison che un po’ le sfotte un po’ le sostiene e protegge, allo stesso tempo riconcilia e intristisce al cospetto di un pensiero ricorrente che sotto lo stupore e la simpatia epidermica suscitati da situazioni sul crinale di un iperrealismo coloratissimo da slapstick comedy gagliardamente artificiosa e truce - chissà quanto poi sul serio immaginifico, quest’iperrealismo, e non invece già abbondantemente superato dal carnevale permanente e sinistro di una realtà ormai del tutto fuori sesto (vedi, ad esempio, “The Florida project”) - non può esimersi dall’intravedere i lineamenti sfatti e languenti di quella che va ancora in giro ad autoproclamarsi come la più-grande-democrazia-del-mondo. 



In tal senso, diventa allora addirittura consolatorio, per non dire incoraggiante che, come chiunque fosse chiamato a tirare in ballo l’esempio di Cristo pure per sbucciare una mela, le ragazze - bionda, suonatrice d’arpa, cecchino naturale, Rappresentante dell’anno della Confraternita degli Studenti, in apparenza docile, a tratti svampita con rigurgiti da maestrina repressa riscattati da lampi di irriverente perspicacia (Blair: “Bere fa male, Sterl”. Sterling: “Anche ignorare i piaceri della carne”), Sterling (la cui mimica e naïveté perplessa sembrano lambire, qua e là a margine delle inquadrature e per quanto alla lontana, le leggendarie esitazioni di Stan Laurel); bruna, ciclotimica, portiere della squadra di lacrosse, irruente nel suo proposito di apparire/essere al tempo ribelle e sexy, sostenuta da una logica capziosa incline al sarcasmo e improvvise retromarce bas-bleu, Blair - gira gira non facciano che rimuginare, fantasticare, ciarlare di sesso, al punto che proprio la virginale Sterling - per il contrito scorno di Blair - da brava acqua cheta e senza troppi indugi un giorno passa all’azione nella certezza che lassù, da qualche parte, il buon Dio vegli su di lei e bonariamente annuisca, mettendo in mezzo (anzi sotto) la vittima del momento, Luke Creswell/House, bietola iper-vitaminizzata a mezzo tra un votato per complessione al colesterolo e un Big Jim intronato dai troppi predicozzi somministratigli durante la crescita (con tanto di chitarra che si ostina a brutalizzare non avendo la minima idea di come cavarne note coerenti), e conquistando sul campo il trofeo simbolico di gemella troia/slutty twin da sempre conteso dalle due (Blair: “Si vede che hai scopato”. Sterling: “Abbiamo fatto l’amore”. Blair: “Cioè ? Tipo scopare ma più piano ?”). Nulla osterebbe, cioè, a una rimasticatura - a seconda dei palati e degli apparati digerenti, allettante/respingente - nel rispetto degli oliatissimi ingranaggi di un filone genericamente adolescenziale da tempo divenuto mero bacino da cui estrarre quasi senza soluzione di continuità le medesime materie prime (arrivismo/auto-emarginazione, ricerca esasperata della cosiddetta coolness, senso di inadeguatezza, adesione maniacale alle mode, crucci sulla popolarità, et.) - e di questo estremo processo di stereotipizzazione Netflix ne sa più di qualcosa - se non intervenisse, permeando di sé l’intero sviluppo narrativo e psicologico della faccenda, il proposito di un disegno, questo di sicuro consapevole, atto a orientare ogni gesto e ogni parola, e quindi il significato stesso di ciò che si rincorre sullo schermo al ritmo che alterna gag a rifiati meditativo-sentimentali, alla caricatura e alla dissacrazione come parimenti all’autoironia e all’accettazione, risultando, per quanto lineare sino allo schematismo e intrinsecamente superfluo in virtù della sua destinazione elettiva al gran calderone del distratto intrattenimento di massa, più leggero, possibilista, non moralistico in senso davvero moderno (ed è questo, ovviamente, uno dei tipici paradossi americani sopra evocati), di tanti prodotti affini.



Siffatta osservazione non sarebbe in ogni caso plausibile se non si prendesse per giunta nota del reiterato tono digressivo-demistificatorio emblematico del rumore di fondo comunicativo contemporaneo che in orizzontale attraversa “Teenage…”, sia quando si orchestrano siparietti domestici in stile famiglia perbene (con una madre, Debbie/Williams, ex Miss Georgia, barbie semiplastificata, dal passato turbolento e dal presente in interessata sintonia con un milieu costituito perlopiù da coetanee soavemente alcolizzate appartenenti al Circolo del Libro, e un padre, Anderson/Astin, mite e impacciato, quasi estratto di peso da una qualche pubblicità sulle esposizioni di arredamenti da giardino), sia quando si scimmiotta il piglio avventuroso di autentici intrecci polizieschi al passo di incalzanti brani industrial metal ma più di tutto quando, nel corso di istanti di candida sospensione o cauto sconcerto, nei momenti in cui l’effervescenza dispersiva della giovinezza lascia il posto a una sorta di apatia inquieta, si riflette sui vicoli ciechi imposti da un’osservanza religiosa tanto letterale quanto acritica la cui obiettiva impraticabilità scatena nelle protagoniste uno spesso irresistibile incrociarsi di sanguigno umorismo e maliziosa impertinenza. Di concerto risulta perciò più agevole comprendere come le circostanze che coinvolgono Sterling e Blair possano con un buon grado di approssimazione collocarsi più dalle parti della sfacciataggine amena, dell’estro anarcoide, del cazzeggio scatologico e fuori-di-testa dell’ultimo Kevin Smith (in particolare quello di “Red State” e “Yoga hosers”), che da quelle inscritte nelle geometrie maiolicate e scenograficamente affrante di, per dire, “Riverdale”. E questo in particolar modo per dare, infine, il giusto risalto al fatto per cui le due adorabili svitate (come le apostrofa sovente senza acrimonia Bowser), nonostante l’inconsistenza di un mondo fatto per lo più di miraggi materiali, ossia di paradisi cretini oltreché fasulli, in barba alle consuetudini retrive della mentalità prevalente e dell’educazione, indotte a scegliere non esitano a innamorarsi rispettivamente della sua amica-nemica dai tempi delle elementari, April/Hales (Sterling) e di un ragazzo afro-americano in origine sempre snobbato, Myles/Evans (Blair), dai quali vengono però rifiutate in base a quegli stessi pregiudizi a loro attribuiti in quanto esponenti di una cerchia privilegiata. April, lesbica irrisolta e pavida, lascerà Sterling (al contrario, ragazza dalla sessualità fluida, quindi curiosa e pronta a sperimentare), condizionata da una figura paterna che notoriamente “odia i froci”. Myles allontanerà di fatto Blair mettendo in atto un sottile gioco di discriminazione al contrario allorché farà prevalere la più conformista delle ragioni di stato (la madre è in campagna elettorale per la rielezione a un seggio senatoriale e nulla deve turbare il quadretto idilliaco con al centro la borghesia nera, agiata e progressista da vendere ai media) sulla crescita di una sincera relazione amorosa. Pertanto, se, come fece balenare a suo tempo lo stesso Smith, non è così campata in aria l’eventualità - benché immeritata da parte di un genere umano in gran numero profondamente e convintamente ottuso - per cui Dio è Alanis Morissette, inteso come quintessenza di un principio unificatore femminile, di certo Lei sorriderà tra Sè nel riconoscere in Sterling e Blair tanto un esempio fulgido della Sua opera, quanto la prova dell’opportunità della Sua esistenza.

TFK

giovedì 10 dicembre 2020

lunedì 7 dicembre 2020

NOELLE

domenica 6 dicembre 2020

NORMAL PEOPLE

Normal people
di: Larry Abrahamson e Hattie Macdonald 
(da un romanzo di Sally Rooney) 

 con: Daisy Edgar-Jones, Paul Mescal, Sarah Greene, Aislin McGuckin, Frank Blake, Leah McNamara, Eanna Hardwicke 

 Stag. I ep. I-XII [durata media: 28’ ca./ep.] 
- Irl, 2020 - 



Inside me I feel alone and unreal 
and the way you kiss will always be 
a very special thing to me 
— Syd Barrett — 

 
Se è vero che, a stringere, ogni azione e relativo aire, ogni progetto e connessa risoluzione, è riconducibile a una qualche forma di passione intesa come insopprimibile moto interiore, allora è possibile farsi un’idea di cosa parliamo quando parliamo d’amore - per una volta alla larga tanto dalla miseria ideologica del cinismo contemporaneo che utilizza le relazioni come ennesimo addentellato autoritario allo scopo di avvolgere in un cellophane auto-assolutorio il disegno di mercificazione assoluta dell’esperienza umana (del resto oramai pressoché ultimato), quanto dalla tendenza ad appiattire le differenze e gli attriti in un ecumenismo melenso e subdolo che di quella mercificazione non è che il neurolettico alla portata di qualunque tasca - anche a partire da un frutto dell’ispirazione (nel nostro caso, una serie televisiva) conseguenza diretta di una genitura letteraria (un romanzo, dal medesimo titolo, dell’irlandese Sally Rooney, poi coinvolta nel ruolo di sceneggiatore), vale a dire questo “Normal people”, scabro dramma sentimentale distribuito, nella sua prima e attualmente unica stagione, su dodici episodi affidati dalla BBC Three e da Hulu alle mani di Lenny Abrahamson - quello di “Room” - e Hettie Macdonald. 



Connell Waldron/Mescal e Marianne Sheridan/Edgar-Jones frequentano, stessa classe, l’ultimo anno presso il liceo di Sligo, Irlanda (capoluogo dell’omonima contea situato a nord-ovest dell’isola verde e affacciato su una baia). Lui vive, poco fuori città, nel paese (immaginario) di Carricklea, in un appartamento assieme alla madre Lorraine/Greene, giovane donna che lavora a servizio presso le dimore borghesi del posto (tra cui proprio la villa di proprietà della famiglia di Marianne). Calmo, gentile e riservato - “Tu sai sempre bene quello che pensi. Per me non è così. La maggior parte delle volte non so cosa voglio”, confida a Marianne durante uno dei loro primi e non superficiali scambi di vedute - Connell divide il suo tempo tra l’apprendimento (è un avido lettore e uno studente brillante) e il calcio gaelico (in cui si distingue anche grazie a un fisico longilineo ma prestante) nel cui campionato di categoria milita difendendo i colori della scuola. Comprensivo e disponibile, Connell dissimula l’innata irresolutezza (forse anche figlia della mancanza della figura paterna) grazie a una sorta di equidistanza enigmatica ma possibilista che stimola la curiosità - in specie quella femminile - e alimenta la già spontanea fiducia nei suoi confronti da parte di chi gli sta intorno. D’altro canto, di famiglia agiata quanto affettivamente inerte - la madre, Denise/McGuckin, avvocato di clienti facoltosi, è algida e parca di parole; il fratello maggiore, Alan/Blake, non lesina nei suoi confronti uno stizzito disprezzo, combinazione perversa di presunzione impotente e malcelata invidia; il padre, scomparso, pare non fosse estraneo a episodi di violenza domestica - Marianne, sottile, occhi scuri, di incarnato madreperlaceo, è un carattere altrettanto schivo epperò travagliato da una più sfaccettata inquietudine. Per natura poco incline alle amicizie, riflessiva e di spiccata sensibilità, come sovente accade agli animi scopertisi prematuramente avvezzi a stare sulla difensiva tende ad assecondare una vena sarcastica con risvolti aggressivi che la relega, sia agli occhi dei coetanei che a quelli degli sbigottiti insegnanti entrambi ogni volta presi in contropiede dal suo intercalare allusivo/provocatorio quanto pure formalmente ineccepibile, al rango della stramba della situazione, circostanza, quest’ultima, cui di norma consegue l’accollo di punizioni inflittele dal corpo docente a mo’ di fiducioso strumento dissuasivo contro le reiterate intemperanze verbali. Non stupisce, pertanto, che le giornate si concludano talvolta in meste passeggiate solitarie, a braccia conserte, lungo le vie al tramonto parimenti desolate della cittadina o, allo stesso modo, non è raro che i pasti si consumino senza interlocutori all’interno degli ambienti fin troppo quieti di una grande e bella casa. Entrambi circospetti ma per quelle sintonie imperscrutabili che sembrano ogni volta organizzarsi allo scopo di avvicinare in un modo o nell’altro gli spiriti concordi, tra l’altro accomunati da particolari affinità elettive - ritrosia, composto ritegno in equilibrio sul crinale di una flemmatica sociopatia, scarsa autostima, il timore del giudizio altrui, il gorgo dei sensi di colpa, quelli e questi tenuti in frizione dalla perspicacia, dalla capacità di osservazione e immedesimazione al cui fondo riposa integro ma vulnerabile un indomabile bisogno di lealtà; più di tutto, animati dalla pretesa - quindi esposti all’ispessimento del margine di delusione a tale pretesa sottintendibile - di non accontentarsi, per quanto in apparenza allettante sia, di un’anima che non sia davvero gemella - Connell e Marianne prendono a frequentarsi - e a scoprirsi - a dispetto e all’insaputa di tutti, casuale e complice l’intercessione involontaria di Lorraine la quale, una volta terminate le mansioni nella dimora degli Sheridan, preparandosi al ritorno a casa, concede a Connell, nel frattempo e come da consuetudine sopraggiunto in auto a prelevarla, qualche minuto - dapprima imbarazzato, poi via via sempre più educatamente confidente - di conversazione privata con Marianne. Il resto lo fa la speranza in un sollievo alla frustrazione di sentirsi sempre fuori posto e il prepotente appetito dei corpi. E da qui all’amore il passo è breve, sebbene duplice e non necessariamente in linea retta: sensuale, schietto, scevro da qualunque reticenza (come da ogni ombra di volgarità nella sua rappresentazione tanto esplicita quanto dolcemente intima), quando gli viene concessa la possibilità di ritagliarsi quella magia fragile ma esaltante in grado di escludere il mondo degli uomini e la sua greve reiterazione; impacciato, esposto all’equivoco, zavorrato da dubbi e insicurezze, allorché si perde l’attimo in cui manifestare la disponibilità ad affidarsi completamente all’altro. 

A stratificare in senso conflittuale i termini di un rapporto di certo sincero ma appesantito all’origine da un vago ma persistente alone di sfiducia (assimilabile alla stanchezza coestensiva all’affanno che permea un’intera Civiltà, quella Occidentale, giunta allo stadio terminale anche nella sua dimensione emotiva: approdo, il predetto, tra i possibili, del cosiddetto fallimento del futuro e, a rimorchio, del Capitalismo, assurto/retrocesso a vero e proprio disagio psichico), oltreché da un comprensibile sentimento di inadeguatezza - vista l’età e nonostante lo spessore umano dei contraenti (sovente impegnati a ribadire, anche in pubblico, la superiorità intellettuale dell’altro) - interviene il carnevale ambivalente delle consuetudini quotidiane - in specie l’incalzare dei doveri o, per meglio dire, delle aspettative che quei doveri implicano, a cui è onesto sommare, per fortuna ancora nella forma di un pegno la cui reale portata non può essere sul momento quantificata, l’attraversamento di una prima linea d’ombra, quella che sancisce l’uscita dal giardino incontaminato della prima giovinezza - dopo il liceo ulteriormente ampliate e quindi rese allo stesso tempo più stimolanti ma anche più contundenti dalla decisione - quasi inerziale per Connell, pur nell’evidenza dei suoi meriti; nella logica delle cose a cui è abituata e si ritiene consone a lei, per Marianne - di affrontare il Trinity College a Dublino, abbandonando la provincia e con essa i parenti e - almeno per Connell - gli amici. A margine di corsi di Letteratura per lui - che più o meno convintamente coltiva sogni da scrittore - e di Scienze Sociali per lei, la tensione e la chimica che malgrado tutto li avevano tenuti sulla stessa orbita prendono a diluirsi negli orari diversi, nelle nuove conoscenze e relative altalenanti infatuazioni (tutto sommato deludenti - Connell - a volte addirittura umilianti - Marianne. “Con te era diverso”, gli confessa un giorno al tavolo di un bar. “Non dovevo fare giochetti” dice, alludendo alla triste pantomima sadomasochista che si è autoinflitta. “Era già reale”), nella calcificazione di fastidiosi dissapori che macchiano la tenerezza e il fervore di un passato recentissimo con la diffidenza e l’insinuante rancore del presente [confuso e insicuro, Connell, tra le altre cose, non invita Marianne al ballo delle Debs (omologo del Prom americano) che suggella l’esperienza liceale, ammettendo, qualche tempo dopo, roso dal rimorso ma sincero fino all’autolesionismo, che non aveva proprio avuto intenzione di farlo, preferendo alla sua presenza quella di Rachel/McNamara, una delle bellezze della classe, verso cui non provava nessun serio trasporto. Marianne: “Mi avresti portato al ballo delle debuttanti, poi ?”. Connell: “A essere sincero… no”]. Si intacca e si smarrisce, così, l’incanto del primo incontro ma non quel sentirsi reciproco che li aveva irretiti nell’eterna illusione di rappresentare l’uno il completamento dell’altra e viceversa, in un equilibrio spontaneo e armonico le cui sembianze elusive altrove e nel quotidiano non riescono mai a rintracciare - confermando, semmai ce ne fosse bisogno, i limiti di quell’aporia dolorosa che ci assedia come Cultura quantomeno dalla speculazione greca - e che, sempre, ciclicamente, li costringe a cercarsi, a (ri-)vedersi, per provare a condividere ancora i rispettivi sentieri interrotti. Neanche l’avvicendarsi delle circostanze - il conseguimento per entrambi di una borsa di studio; il periodico ritrovarsi con o senza nuovi compagni a fianco (assistiamo anche - e poteva essere altrimenti ? - a uno struggente interludio vissuto sullo sfondo di incantevoli paesaggi nostrani durante il più tipico dei britannici viaggi in Italia culminato poi in un mesto ritorno in patria sulle note inermi di “Love will tear us apart” dei Joy Division); la solitudine amara che conduce Connell a patire istanti di angosciata depressione (resi ancor più tetri dalla notizia riguardante il suicidio di uno dei suoi più cari amici d’infanzia, Rob/Hardwicke) e Marianne a scendere ulteriori gradini verso il disgusto di sé e l’atonia, fino a constatare ciò che forse ognuno aveva sempre saputo in cuor proprio ma non aveva mai provato a dire. Marianne: “Non mi sento mai sola quando sono con te”. Connell: “Non credo di essere mai stato davvero felice prima di averti conosciuto” E: “Noi vediamo il mondo in modo simile” - annullerà, infatti e del tutto, questa scommessa di riconoscere nell’altro/-a qualcuno in grado di riscattare l’inesorabile destino mortale dei giorni, anche se, per contro, nemmeno tale speciale prossimità potrà evitare l’insorgere di nuove incognite e di nuove sofferenze. 

Il rischio di ogni narrazione sentimentale, come sopra accennato e a maggior ragione durante questa nostra penosa fine che non finisce mai di finire che, da un lato, rimastica ogni afflato allo scopo di risputare qualcosa da convertire, illico et immediate, in moneta o in generica transazione remunerativa; dall’altro, in apparente contraddizione ma per medesima finalità, non fa che agitare senza costrutto e sempre con esiti speciosi e/o consolatori e/o semplicemente stupidi il gran lavorìo delle passioni umane davanti a un uditorio oramai assuefatto a qualunque presunta alzata d’ingegno, è più che altro quello di risultare insignificante al momento stesso in cui ci si azzarda a mettervi mano. Isterismi, patetismi, idiozie, colpi bassi, ammicchi, esagerazioni assortite, superficialità spacciata per concretezza e adesione allo spirito del tempo, pseudo-trasgressioni, indigesti pastiche e pistolotti moralistici affossano, difatti e nella stragrande maggioranza dei casi, quello che è il discorso che ci riguarda più da vicino e ci differenzia come specie, a dire la vertigine e l’abisso di fare dono di sé all’Altro. Ebbene: “Normal people” non è uno di questi casi. E in prima istanza proprio perché rivendica sin da subito la normalità dei suoi assunti, ovvero l’importanza di restituire alcuni campioni del genere sapiens al di là della tentazione di rivestirli dal punto di vista spirituale di una versione migliorata (e spettacolarmente appetibile) di sé stessi. Particolare meno banale di quello che può sembrare, l’intenzione perseguita dagli autori, concentrata nel far risaltare, grazie all’insistenza indagatrice dei primi piani (non di rado muti, assorti o come disorientati dalla propria stessa titubanza) e alla assertività disadorna dei dialoghi (appunto mai enfatici anche quando portano con sé, ad esempio, la durezza di stati d’animo conflittuali o scorati, al punto da apparire più indifesi che polemici, e per tacere del meraviglioso tono evocativo/erratico a essi impressi dalla pronuncia anglosassone, di preferenza chiusa sulle vocali e dura sulle consonanti, con buona pace dello sfinente miagolìo somministratoci da quasi tutto ciò che proviene da oltreoceano), il tratto comune e consuetudinario di una esperienza sovrapponibile a quella di ipotetici innumerevoli altri secondo il viatico di una subitanea e orizzontale immedesimazione, sgombra il campo della messinscena cinematografica, mano mano che si sviluppa l’iterazione del racconto e in ragione di una semplice ma precisa torsione espressiva, tanto dalla retorica ricattatoria e fondamentalmente fasulla delle passioni-sublimi-per-animi-sublimi quanto dalla componente melodrammatica che giustappone, sovente per mera inerzia accumulativa, scene madri e sconvolgenti agnizioni. Marianne e Connell, in altre parole, giungono a confessarsi di essersi scelti reciprocamente senza ricorrere all’armamentario dialettico/comportamentale a cui ci ha abituato una prassi che per lo più vede nell’apologo romantico il rifugio idilliaco (e innocuo) delle anime belle o la tavolata iper-calorica per i palati ingenui, mentre la vita autentica si consuma/consumerebbe altrove, ossia e manco a dirlo sui palcoscenici spietati dei do ut des mercantili e delle astuzie inconfessabili del Potere. Al contrario i due (e quindi la scrittura che ne sostiene la progressione drammaturgica delle scelte e delle azioni) non si dilungano in spiegazioni, non lasciano trasparire l’ambizione a un possesso esclusivo, non si usano vicendevolmente e opportunisticamente come sfogatoi a portata di mano, non piantano bandierine per ipotecare il domani. Le tensioni, il desiderio, lo sconforto, la soddisfazione corrono in via privilegiata sulla linea dei loro sguardi, sulle dita che si cercano o si evitano nel frastuono di una discoteca o di un pub, nei lunghi silenzi che possono o no preludere a un bacio sotto cieli il più delle volte grigi o durante i rari rifiati clementi nel regalare il conforto di una morbida luce obliqua, nella cura oblativa mostrata dai piccoli gesti, dalle attenzioni minute, oppure fanno mostra di sé, si rivelano, infine, ma allora ci si trova già in quello spazio a parte che prevede la presenza di due sole creature, l’istante in cui la richiesta di trascendere la propria finitezza trova tregua nello splendore passeggero della carne, nella sua intesa segreta, prefigurando ancora una volta il campo di applicazione di quella congettura così misteriosa e così umana che proprio uno dei personaggi carveriani richiamati in apertura, a modo suo, tenta di circoscrivere: “Non saprei”, dice. “Bisognerebbe conoscere i particolari. Ma forse quello che stai dicendo tu è che l’amore è qualcosa di assoluto”.
TFK