lunedì 30 marzo 2020

DISNEY PLUS: FLOAT

domenica 29 marzo 2020

BOJACK HORSEMAN

BoJack Horseman
Viaggio al termine della disperazione: BoJack come ultima nota di un interminabile blues

di Rafael Bob-Waksberg
USA 2014/2020
stagione I/VI; ep. 77
durata, 25’/ep.
genere, animazione



"Non guardavano oltre la superficie [...]
ma in realtà era tutto superficie"



Tra le numerose inside del contemporaneo, come se già non ce ne fossero abbastanza, hanno trovato posto, e anche in prima fila, quelle discariche digitali altrimenti note come piattaforme streaming. In questi non-luoghi della morte, tra metaforici gabbiani schiattati di tifo e alluci mozzati di barboni, è ancora possibile, cercando bene e col naso tappato, rinvenire delle sorprese inaspettate, pietre così piccole ma così preziose da far pensare "come diavolo hanno fatto a finire lì ?". Tra queste è riuscita a emergere, apparentemente senza neanche troppo affanno, la serie animata che ha come protagonista il cavallo più psicopatico - depresso, narcisista, e sovraccarico di traumi infantili - del West.

Ambientata in una Hollywoo - nel corso della serie si scoprirà che a divellere la celebre D finale sia stato proprio BoJack - quasi totalmente popolata di personaggi zoomorfi, il protagonista è un attore in realtà pseudo depresso e alcolizzato arrivato al successo qualche decennio prima grazie a una sitcom chiamata "Horsin' Around" - per intendersi, una di quelle insopportabili celebrazioni del cretinismo americano tout court, fatta di applausi a comando e cascate di finti buoni sentimenti, in cui il nostro accoglie in casa sua tre orfanelli diventandone di fatto il padre adottivo - e ai tempi della narrazione completamente fossilizzato nel passato, tant'è che il suo unico tentativo di tornare alla ribalta scrivendo un'autobiografia appare goffo, insensato e difatti procrastinato all'illimite nonostante l'arrivo di Diane, ghostwriter incaricata di redarre le suddette memorie, personaggio che arriva quasi come mentore/salvatore del protagonista salvo poi lasciarsi andare anch'essa, seppur a suo modo, nel vortice della decadenza - per dire, vederla ingrassare infelice a Chicago dopo aver abbandonato LA non era propriamente una previsione considerabile nemmeno nella più funerea delle aspettative -. Insomma, il mito del grottesco mondo glamour americano che si disgrega su sé stesso non è altro che una scenografia di sfondo a storie di personaggi - anche quelli più estremamente comici e apparentemente sorretti dalla retorica idiota del think positive come Todd e Mr Peanutbutter - che altro non fanno se non mettere in scena, in maniera continuata e soprattutto necessaria, i propri drammi. 


Da non sottovalutare, poi, una certa tendenza a inserire sull'ipotetica linea retta della narrazione alcune puntate - si pensi a "Fish out of water”, stag. III, ep 4 - nelle quali BoJack non può parlare, bere, fumare [ovvero i tre modi in cui è abituato a comunicare davvero qualcosa] e, quando tenta di farlo tramite una lettera, l'inchiostro si dissolve irrimediabilmente nell'oceano prediligendo la via del nichilismo - dal sapore allucinatorio, enigmatico, fuori controllo, eppure talmente dense da creare una strana e inquietante empatia con l'inconscio di chi guarda.

Se è vero che di narcisisti patologici autodistruttivi ne è pieno il cosmo, BoJack è uno di quelli che ha la prospettiva privilegiata - il tetto, le stelle, il silenzio, Diane... - di scoprire/intravedere/ipotizzare che forse c'è davvero qualcosa sotto la superficie, che la consapevolezza della fine non è tutto ciò di cui abbiamo bisogno per sopravvivere e che il mondo, forse, non è soltanto un luogo dove morire.
Antonio Romagnoli


nota 1: la citazione iniziale è tratta da "Il Re pallido" di David Foster Wallace.
nota 2: l'autore dell'articolo si è ritrovato, in una situazione comica se non fosse assolutamente drammatica, a essersi reso conto di non aver scritto una riga del suddetto articolo per circa tre giorni dalla commissione dello stesso, situazione inquietantemente simile a quella del primo episodio della serie.


sabato 28 marzo 2020

LILLI E IL VAGABONDO

venerdì 27 marzo 2020

INVISIBILI: ZAMA

Zama
di Lucrecia Martel
con, Daniel Giménez Cacho, Matheus Nachtergaele, Juan Minujìn, Lola Dueñas, Daniel Veronese
Argentina, Spagna, Francia, Olanda, USA 2017
genere, storico, drammatico 
durata, 115’


Niente è più lungo di queste claudicanti giornate
quando sotto il fioccare delle nevose annate
la noia, frutto del tetro disinteresse, prende
le proporzioni dell’immortalità
- C.Baudelaire -



Ciò che la Tecnica e la sua bombola di ossigeno, il Capitale, non hanno mai compreso, pur non facendo altro che rivendicare il raziocinio dei propri presupposti, è che - come ha invece sottolineato Bacone, uno dei padri del pensiero scientifico, in Cogitata et visa de interpretazione Naturae (1605) - la Natura, non nisi parendo, vincitur/La Natura può essere vinta solo obbedendole. Conseguenza di tale cecità sperimenta su di sé, in un blando ma reiterato esercizio di insipienza nel caso elevato a precetto di espansione coloniale in un momento imprecisato del secolo XVIII, Don Diego de Zama/Giménez Cacho, funzionario anziano dell’amministrazione dei territori spagnoli d’oltremare (qui, il Paraguay), nonché consigliere del locale Governatore/Veronese, allorquando in un sussulto fin troppo protrattosi di mal sopportazione chiede sia inoltrata al Re, ossia all’altro capo del mondo, una richiesta di immediato trasferimento presso la città di Lerma in modo da riunirsi alla famiglia di origine. Trasferimento che non si concretizzerà mai (sortendo, per contro, un macchinoso trasloco da una residenza fatiscente a un’altra sulle note di Amapola), tra incomprensibili attendismi, pastoie burocratiche, sostanziale menefreghismo di un’intera struttura piramidale circoscritta e miniaturizzata nel cuore di possedimenti sperduti tra immensi e più o meno lussureggianti avamposti la cui millenaria e all’apparenza immota dedizione alla ciclicità di usi e costumi tribali svuota e inghiotte ogni piano di assoggettamento, di suo prepotenza meramente materialista che la placida saggezza Guaranì inchioda a un aforisma più contundente di qualunque ipotesi di ribellione esplicita: “Egli è un dio che è nato vecchio e che non può morire. La sua solitudine è atroce”.


La parabola tutto sommato mai davvero abietta ma solo - e peggio - impotente e vacua di Zama riflette, da subito e senza variazioni, nello squallore rassegnato di una dominazione priva persino dei suoi paramenti esteriori, quindi della sua specificità simbolica - guarnigione, dirigenti, i vari scabini della pletora delle scartoffie e degli inventari, tanto flemmatici quanto murcidi, le maestranze dell’aristocrazia parassitaria (il sussiego indolente di Doña Luciana Piñares de Luenga/Dueñas risulta inscalfibile a contatto con le stranezze del Nuovo Mondo, figurarsi di fronte alle goffe avances del rigido Zama, tra l’altro impegnato quasi suo malgrado con una donna del posto che lo tratta con materna noncuranza), il Governatore stesso, deperiscono rassegnati nell’oppressione del caldo umido (in quel paludismo così congeniale ai pruriti di onnipotenza occidentali: … schiacciati dall’ebetudine e dalla gastrite, continuavano a fermentare borbottando nel sonno. Spossati, abbacchiati, parevano tutti ora, ufficiali, funzionari e appaltatori, bitorzoluti, panciuti, olivastri, mischiati, press’a poco identici - L.-F. Céline, “Voyage au bout de la nuit” -); nei rituali di classe resi grotteschi dalle scomodità; nella beffarda indifferenza degli autoctoni che in loro vedono più una fiacca congrega di bislacchi personaggi che l’arroganza e la durezza del padrone; nella trasandatezza di vesti e uniformi sporchi e/o logori; nel sudiciume e nell’abbandono della promiscuità più dilagante (uomini e bestie - cavalli, lama, capre, galline, et. - frequentano contemporaneamente quasi tutti gli stessi ambienti deputati alla convivenza) - l’assunto idiota e miserabile, oltreché predatorio, di una presunzione, quella dell’accumulazione monetaria, basata sulla meccanica sovrapposizione di una idea della realtà - deterministica, tecnicistica, utilitaristica - sulla carne viva di un mondo - al contrario antistorico, empatico, magico - il cui senso attinge vigore dai nessi fisici e metaforici che da sempre legano in un’interrelazione inesausta gli enti, non certo dal calcolo, utilizzo e redistribuzione (tra pochi) dei frutti degli stessi. In tal modo Martel, sulla scorta del romanzo di Antonio Di Benedetto da cui il film trae ispirazione, radicalizza, collocando la manìa civilizzatrice in una sorta di limbo fuori dal tempo (alimentando cioè su di essa il sospetto dell’incombere perenne di un destino fallimentare anziché la speranza di un coerente progetto culturale), talune intuizioni espresse addirittura nel suo esordio, “La cienéga” (2001), col misurato e riflessivo linguaggio del quale, non bastasse il titolo a confermarlo, osservava discreta ma impietosa l’abulia e l’avvilimento che, come apparecchiati da una muta necessità, svelano prima e sgretolano poi una delle istituzioni cardine dell’ordine borghese: la famiglia. Se invero Zama, “l’energico, il responsabile, il pacificatore degli Indios, colui che fece giustizia senza usare la spada”, gira a vuoto, un tentativo infruttuoso dopo l’altro, nello sforzo di correggere l’inerzia della Cultura che gli appartiene autoproclamatasi unico strumento di interpretazione - e sottomissione - dell’ordo rerum (“Ah, se esistesse davvero qualcosa di portentoso !”, si lascia sfuggire il Governatore, in un empito tra sventatezza e languore) con i suoi stessi mezzi, nel senso del ricorso procedurale per via gerarchica (quando, per dire, con medesime nulle possibilità di successo ma di certo maggior coraggio, un altro campione del pensiero unico, l’Aguirre di Herzog, percorre fino in fondo il sentiero della follia e del sangue), ecco che il silenzio che riceve in risposta, in forma di dilazione derisoria o ingranaggio capzioso del potere, di fatto si fonde pacifico al respiro originario, quieto e impassibile, proprio di quel mondo considerato tale solo per l’ipotetico profitto che è in grado di produrre. Così l’autrice attraverso Zama, i suoi sguardi perduti in un lucore (naturale) opaco e appiccicoso (gli occhi avviliti da un disgusto tanto profondo quanto anestetizzato dai codici di casta di Giménez Cacho valgono, soli, la visione), il suo sfinito rigore, il suo progressivo prendere coscienza della propria irrilevanza in un disegno che trascende senza sforzo le terre, i tesori e la gloria, getta nella palude del dibattito tra Natura e Cultura una pietra che impiega il suo tempo ad affondare, irta com’è di protuberanze che non possono essere sbozzate.

Cristallizzando altresì sulla figura di un guerriero-burocrate incapace di adattarsi a un sistema di regole diverso dal proprio in primis perché immune, questo, per costituzione, dalle presunte inesorabilità della Storia - il sempiterno equivoco tra sviluppo progresso, ad esempio; la mai sopita tentazione imperialista in ognuna delle sue tante forme: le rispettive catastrofi (umane, morali, ambientali) giunte poi a compimento come narrato, di recente, dal duo Guerra/Gallego nel loro Oro verde (2018) o, con accenti ancor più pessimisti, se possibile, da Eduardo Williams in “El auge del humano” (2016) - la fragile essenza di schematismo intellettuale egoista quanto incline all’autoassoluzione di un Pensiero abituato a imporsi a qualunque costo, Martel suggerisce anche, in controluce, il carattere sostanzialmente illusorio e platealmente nichilista dell’ossessione per antonomasia, quella per la ricchezza, al punto radicata da riuscire allo stesso tempo a incarnarsi in una figura sfuggente e ostile (la spedizione allestita per catturare il famigerato predone Vicuña Porto/Nachtergaele, elemento catalizzante di tutte le tensioni interne al piccolo regno, si risolve in un patetico disastro) quanto in una chimera irraggiungibile forse perché addirittura inesistente (Vicuña, al dunque e senza scomporsi, afferma di essere non il bandito ricercato ma il Soldado Gaspar Toledo), oltre il quale paradosso non ci può essere che l’abbrutimento e la crudeltà del contrappasso (a Zama, proprio dai sodali di Vicuña-Toledo, vengono amputate entrambe le mani, emblema primo dell’autorità e dell’appropriazione).

“Vuoi vivere ?”, chiede calmo, infine, un ragazzino guaranì/Caronte improvvisato trasportando le spoglie di Zama lungo un rio ingombro di vegetazione. Non c’è risposta. Ormai vivere non è più possibile.
TFK


martedì 24 marzo 2020

L'ULTIMA ORA

sabato 21 marzo 2020

HIGH FLYING BIRD


High Flying Bird
di Steven Soderbergh
con Andrè Holland. Zazie Beets
USA, 2019
genere, drammatico, sportivo
durata, 90'


Alla pari dei suoi personaggi il cinema di Steven Soderbergh tende a spiazzare chi lo guarda, confondendolo con visioni narrative spesso fuorvianti rispetto alle reali intenzioni del regista. Senza aspettare “Ocean Eleven” con cui il nostro è venuto allo scoperto, facendo della simulazione artistica il mezzo per fare soldi e spettacolo, prima di iniziare a parlare di “High Flying Bird” conviene ritornare alle origini per cercare di fissare le fondamenta a cui Soderbergh non ha mai rinunciato. “Sesso, bugie e videotape” è in questo senso il lungometraggio fondante della poetica del nostro, proponendo almeno tre caratteristiche intrecciate tra loro e destinate a permanere pur all’interno di un dispositivo dedito al cambiamento e alla sperimentazione. Parliamo dell’uso del fuori campo, utilizzato da Soderbergh sia in chiave narrativa e/o concettuale (nello specifico per materializzare le difficoltà sessuali del protagonista e il fatto che la visione delle registrazioni filmate lo sono a suo uso esclusivo); di quello delle parole, paradossalmente usate come surrogato della visione (lasciata fuori campo) in un cinema abituato continuamente a ragionare sul come e cosa vedere, e infine della tecnologia, di cui il regista è sublime sperimentatore e che nel film in questione preconizzava la morte delle relazioni umane a favore di rapporti sempre più virtuali. 


“High Flying Bird” distribuito su Netflix nel 2019 non sfugge alla regola, presentandosi (anche lui) sotto mentite spoglie, ovvero come  il più classico dei film di genere, con poster allusivo e giocatori in carne e ossa pronti a raccontare come sopravvivere nel salto che li ha condotti nel mono del professionismo. In realtà - e qui sta la prima anomalia - “High Flying Bird” non è un lungometraggio sportivo bensì sullo sport intenso nei meccanismi economici, istituzionali e soprattutto corporativi che ne pilotano lo spettacolo. Il protagonista, Ray Burke (Andrè Holland, protagonista di The Eddy, prossima miniserie diretta da Damien Chazelle), è per l’appunto l’agente di una grossa agenzia di management che nel pieno della sospensione del campionato NBA (la storia fa riferimento al  lockout del 2009/2010) cerca il modo di contrastare le offerte degli avversari che approfittano della situazione per rubargli i clienti e in particolare  il rookie Eric Scott, ansioso di monetizzare i crediti della propria bravura. Dunque come il sesso in “Sesso, bugie e videotape” anche il basket di “High Flying Bird” rimane esterno al quadro, invisibile all’occhio dello spettatore. Come avrà modo di vedere lo spettatore infatti sarà ancora una volta il fuori campo a farla da padrona, sia in termini concettuali, perché il film ruota attorno a un gioco che non c’è, per essere stato sospeso a causa del mancato accordo tra giocatori e federazione, sia perché come succede nel cinema di Soderbergh, quanto meno a partire dalla trilogia di Jimmy Ocean,  anche Ray come i suoi predecessore è un fine affabulatore e utilizza le parole per sviare gli interlocutori dal suo piano segreto, quello destinato a sparigliare le carte e a capovolgere la situazione, indirizzandola a suo favore.



D’altronde in quello che sostanzialmente è un film da camera, girato pressoché in interni e con movimenti di macchina utili a rompere la staticità percettiva e dare l’illusione del movimento, a essere indicativo è la costruzione della sequenza iniziale, In apparenza virtuosistica, nella fluidità con cui il percorso compiuto da una donna che sta portando una busta al protagonista collega quest'ultimo alla soggettiva di una veduta newyorkese, il piano sequenza segnala fin da subito l’esistenza di un doppio fondo narrativo.  Se Ray è un passo in avanti rispetto agli altri perché riuscendo a essere sempre dentro il problema (a dirlo è Myra, potente boss della lega giocatori), il riflusso  repentino dall’esterno verso l’interno unito al contrasto di luce tra  l’ombra del corridoio attraverso cui si snoda il percorso e la luce  della sala da pranzo dove esso termina la dice lunga su come “High Flying Bird” sia un film costruito sui fatti della cronaca (il lockout del 2009 e le sue conseguenze) come pure sulla finzione di un film che ci porta nella testa del personaggio e nel piano che esso sta per escogitare.

Peraltro la centralità di Ray non è solo data dalla capacità del personaggio di costruirne in senso classico la trama, ovverosia di esserne il motore che la manda avanti. Se a scontrarsi nel corso della vicenda sono le due facce della stessa medaglia, ovverosia l’amore per il gioco e quello per il denaro, Burke è l’ago fra bilancia, colui in cui lo tenzone si ricompone. Oltre a essere uno dei migliori agenti in circolazione, capace di mettere d’accordo agonismo e mediazione, Ray non ha dimenticato le proprie origini, avendo il basket nel sangue per averlo praticato sulle strade di New Tork e in maniera drammatica nelle vicissitudini del cugino, cestista suicida per eccesso di sensibilità. Se poi non bastasse a confermare quanto detto sta il twist finale, quello in cui scopriamo che la presunta Bibbia regalata da Ray a Eric altro non è che “La rivolta dell’atleta nero” di Harry Edwards, il testo che nel pieno delle lotte per i diritti civili costituì una sorta di vademecum per attuare anche nello sport forme di protesta organizzate. Tanto per dire che nulla è come sembra e che “High Flying Bird” - non a caso scritto da  Tarell Alvin McCraney, sceneggiatore (premio Oscar) di “Moonlighting” - è anche un film sulla coscienza di un’intera comunità e un monito per evitare nuove forme di schiavitù, in questo caso nei confronti del Dio denaro. A fronte della sua scommessa produttiva (come  “Unsane” anche questo è girato  con un iPhone 8) “High Flying Bird” appartiene con pieno merito alla tradizione cinematografica del suo prolifico cineasta.   
Carlo Cerofolini
(pubblicato su ondacinema.it)

giovedì 19 marzo 2020

IL SUO ULTIMO DESIDERIO

INVISIBILI: THE HOST/GWOEMUL

The host/Gwoemul
di, Bong Joon-ho
con, Byeon Hie-bong, Song Kang-ho, Park Hae-il, Bae Doona.
Sud Corea/Giappone 2006
genere, fantascienza, orrore, drammatico
durata,120'



Corea. Oggi. Cosa c'è di più rilassante che spendere qualche ora nei pressi dell'ampio estuario attrezzato del fiume Han(gang) per un pic-nic, una passeggiata, un po' di sport, una corsa in bici ? Già. “Ehi, ma cos’è quella cosa grossa e scura che penzola dall'arcata del ponte ?"

Si apre più o meno così, su una frattura a spezzare un tipico quadretto di svago familiare "The host", terza fatica di Bong Joon-ho (notevole il successo in patria e in diversi Festival in giro per il mondo), dopo l'interessante esordio "Barking dogs never bite" (2000) e la lusinghiera risonanza ottenuta dalla riscoperta di "Memories of murder" (2003). Lo spunto fantascientifico-ecologico - il super mostro è una sorta di creatura lovecraftiana partorita dal combinato disposto incestuoso tra scienza demente e sciatta (un’azienda si disfa di panciuti bottiglioni di formaldeide disperdendoli negli scarichi pubblici) e Natura che, giunta ben oltre il limite di sopportazione, reagisce da par suo - consente al cineasta coreano di allestire una (sontuosa) produzione con numerosi e rocamboleschi interludi spettacolari (basterebbe la prima apparizione dell'ibrido/xenomorfo per fare un sol boccone di buona parte del routinario carrozzone dell'intrattenimento hollywoodiano) e, al tempo, sviluppare e approfondire quella sua peculiare vena in costante e tutt'altro che scontato equilibrio all’interno dei generi più vari, tra insolito e ordinario, malinconia e sarcasmo, con punte di puro grottesco. E rallentamenti lirici e incoerenti, aperture alla rivendicazione sociale, al rimbrotto, alla notazione polemica in apparenza fuori sesto, al malanimo personale e alla nostalgia, così come a un sofferto e disarmonico slancio verso l’altro. Tutto intessuto e restituito dalla parte dei cosiddetti ultimi, a dire dei genericamente disadattati e buoni a nulla - dipsomani, teneri underdogs, introversi, movimentisti e apocalittici da bar - in realtà magari solo strambi e un tanto goffi, eppure animati da una tenacia (pari solo al curioso amalgama costituito in parti variabili da ingenuità e spiccia scaltrezza) che li permea e li persuade della necessità di darsi una mano e soprattutto di non arrendersi (c'è una ragazzina e quindi il mondo da salvare), slancio comune che alla fine li spinge là dove Autorità e Scienza sbattono il grugno e falliscono.

Intriso di una sua impalpabile quanto febbrile follia interna, proteso verso la composizione degli attriti ma mai consolatorio, disseminato di grumi di una poesia surreale dai toni semi fiabeschi e dai colori e le pose vicini a Chagall - estro, questo, non lamentoso o ricattatorio, anzi, in modo sfuggente tanto quanto evocativo presago della caducità e della sofferenza che alligna in qualunque forma di equilibrio, anche quello con maggior fatica e perdita ristabilito - Gwoemul guarda divertito ma cauto a un mondo che ignaro/attonito/tracotante, avviluppato in una gigantesca forclusione da lui stesso secreta, produce e dissipa anticorpi (l'improrogabilità di riannodare legami umani autentici; un rinnovato rapporto con l'ambiente: in generale, un altro modo di intendere e vivere la basilare relazione che connette il paesaggio fisico a quello interiore), moniti (le anticipazioni orwelliane; le visioni di Huxley, al pari di quelle organizzate nell'inestricabile penombra tra Storia/ricostruzione/finzione di Pynchon e di De Lillo; quelle della letteratura cyberpunk, del fumetto speculativo e di tanti cineasti che da angolature diverse si trovano già con-un-occhio-nel-futuro: Gilliam, Cronenberg, Besson, Scott, Miyazaki, solo per dirne alcuni) e non fa quasi altro che flirtare - ma per quanto ancora ? - con la propria autodistruzione.
TFK


mercoledì 18 marzo 2020

NEW YORK, L'UNICA CITTA' DOVE SI PUO' STARE: IL CINEMA DEI FRATELLI SAFDIE

Prendete la New York di Woody Allen, classica, ordinata, composta, poi filmatela solo dopo averla messo a soqquadro, quando ancora il suo tessuto urbano è in preda all’improvvisa baraonda. La Grande Mela dei fratelli Safdie è proprio così, una versione Acid punk di quella rappresentata nei film del cineasta newyorkese. Come quest’ultimo i due autori la tagliano in lungo e in largo ma a differenza del predecessore lo fanno attraverso percorsi sporchi e rischiosi e in maniera ossessiva, restando sempre in movimento, sulla strada in mezzo alla gente, quasi a voler affermare un senso di appartenenza testimoniato dal fatto che i protagonisti di Good Time, Uncut  Gems come pure Heaven Knows What non sono migliori ma uguali a coloro da cui si sottraggono. Se New York e la sua gente ne alimentano da sempre l’ispirazione allora quello dei fratelli Safdie è un cinema della restituzione e dell’essere comunità, nonostante tutto. In questo senso il mezzo sorriso sulla faccia di Adam Sandler in quello che è l’ultimo fotogramma della sua mostruosa interpretazione non è la legittimazione di un lutto ma il capovolgimento di un concetto: la tragedia dura l’attimo di uno sparo perché a restare è l’assoluto di Howard Ratner, felice di essere per sempre li, nell’unica città dove si può stare.
Carlo Cerofolini

martedì 17 marzo 2020

LOST GIRLS


Lost Girls
di Liz Garbus
con Amy Ryan, Thomasin McKanzie, Gabriel Byrne
USA, 2020
genere, drammatico, thriller
durata, 95 


Molti ricorderanno il caso dei femminicidi di Ciudad Juárez, località messicana dove qualche anno fa furono scoperti i resti di oltre trecento donne, uccise in circostanze misteriose e per motivi slegati dalla guerra tra bande per il controllo del mercato della droga. Oltre all'assenza di un mandante, il comune denominatore degli omicidi fu la giovane età delle donne e il movente attribuito ad aggressioni a sfondo sessuale. Fatte le debite distanze, ma restando nell’ambito della cronaca nera,  “Lost Girls” di Liz Garbus ripropone su scala ridotta lo stesso scenario, raccontando la storia vera di Mari Gilbert (una ottima Amy Ryan), impegnata a fare luce sulla scomparsa della figlia Shannen, resasi irreperibile nello stesso luogo, una piccola cittadina dello stato di New York, in cui poco dopo vengono ritrovati i cadaveri di altre giovani prostitute.

Forte di una letteratura cinematografica che della narrazione incentrata sulla figura del serial killer ha creato uno dei generi più trasversali possibili, frequentato tanto dal cinema commerciale quanto da quello più autoriale, Liz Garbus compie un'operazione che si pone esattamente nel mezzo dei due modelli. Considerato che “Lost Girls” segnava il debutto al lungometraggio di finzione dopo i precedenti nel documentario che nel 1998 avevano fruttato alla Garbus una nomination all’Oscar per “The Farm: Angola, USA”,  c’era da verificare in che modo la propensione per il reale avrebbe fatto i conti con il voyeurismo insito nella materia e con la necessità di un thriller come “Lost Girls” di rispettare le leggi dello spettacolo, dettate, nella fattispecie, dalla necessità di rilanciare la tensione attraverso la moltiplicazione di dubbi, violenza e depistaggi.In questo senso la regista riesce a trovare un compromesso che le consente da un lato la riconoscibilità del prodotto, utile a venire incontro alle aspettative degli appassionati, dall’altro di rispettare le persone coinvolte nella storia, quelle che nella realtà sono state vittime dei fatti raccontati, rimanendo sui binari di una normalità che espone i fatti senza enfatizzarli attraverso immagini a effetto (uccisioni e corpo del reato rimangono doverosamente fuori campo). In questo corrispondendo alla  necessità del distributore - leggasi Netflix - di un’offerta che ne rispetti le ambizioni pluralistiche e perciò tale da non “offendere” la sensibilità degli abbonati. In questa maniera a farla da padrone nell’indagine svolta parallelamente dalla madre coraggio e dagli agenti di polizia - capitanati da un Gabriel Byrne a cui spetta il compito di rappresentare l’impotenza di non riuscire a dipanare il mistero nascosto dietro la terribile tragedia - non sono le azioni messe in campo - poche e mal organizzate - ma la cinetica dei sentimenti che scaturisce dai meccanismi di causa-effetto scatenati dalla volontà dei familiari di non arrendersi all’evidenza dei fatti.


Detto che della partita entrano a far parte in almeno due situazioni inserti tratti dai telegiornali d’epoca, utili sopratutto a confermare che quella tratta dal romanzo omonimo del giornalista investigativo Robert Koke non è una sceneggiatura frutto della fantasia degli autori, “Lost Girls” si sviluppa su una tessitura visivo/ concettuale ispirata al modello del primo “True Detective”. Senza raggiungere le stesse vette filosofiche (la protagonista del nostro film appartiene all’America degli umiliati e offesi) il film della Garbus ne ritrova le corrispondenze, facendo dei cieli plumbei e della desolazione paesaggistica tracciata da inquietanti panoramiche il riflesso dei fantasmi che agitano l’animo dei protagonisti. Nessuno dei quali, e qui risiede una delle scelte più forti del film, ha nulla da nascondere, impegnati come sono a testimoniare la cognizione del dolore e l’ineluttabile destino delle sorti umane, come sempre divise tra vittime e carnefici. Buone le prove degli attori scelti con lungimiranza in chiave antidivistica: della Ryan, ancora una volta (dopo “Baby Gone Baby”) alle prese con il personaggio di una madre destinata a perdere la figlia e, in termini di militanza e scorrettezza politica, debitrice della Mildred Hayes di “Tre manifesti a Ebbing, Missouri", e della “figlia” Thomasin Mckenzie da poco apprezzata  in “Jo Jo Rabbit”.Rispetto ad altri presenti nella medesima piattaforma, “Lost Girls” è un prodotto a suo modo rigoroso e apprezzabile per la capacità di rimanere con i piedi per terra. 
Carlo Cerofolini
(ondacinema.it)

lunedì 16 marzo 2020

I AM NOT OKAY WITH THIS

INVISIBILI: THE NIGHT IS SHORT. WALK ON, GIRL

The night is short. Walk on, girl
di, Yuasa Masaaki
genere, animazione
Giappone, 2017 
durata, 93’



I embrace my desire to
I embrace my desire to…
- Tool -


L’amore e la fantasia, tra le possibili, hanno di certo una duplice e ben relata caratteristica in comune: quella di essere imprevedibili nonché dotati di un singolare senso dell’umorismo. Assegnare a queste prerogative una consona forma di espressione è stato da sempre, per l’Arte, uno dei grattacapi più tenaci. Basterebbe riflettere sulle componenti estetiche, emotive e contenutistiche da contemplare e bilanciare in una eventuale rappresentazione, per rendersi conto del cimento che tale intenzione implica. Come che sia, talvolta capita - e non poche di queste (rare) volte chiamano in causa il regno dell’animazione - che la chimica dei sopraddetti elementi produca qualcosa di, allo stesso tempo, difficilmente catalogabile e piacevolmente sorprendente. Tipo questo “The night is short. Walk on, girl” di Yuasa - anno 2017 - sollecitato dallo spunto di coniugare nel modo più vitale possibile un determinato aspetto del repertorio amoroso (ossia la declinazione idealista-rètro di una liaison nascente ma contrastata all’interno dell’universo giovanile) e l’apparato fantastico (a dire: le trovate, l’intreccio dei codici e delle forme visuali, i grimaldelli narrativi e psicologici) scelto per conferirgli credibilità, spessore e capacità di coinvolgimento.

Il cuore del film pulsa in sincrono alla suggestione tante volte rinnovata dal Cinema di condensare gli attimi dirimenti di un’esistenza, i suoi incanti irripetibili, le sue scoperte inattese, entro l’arco temporale di una notte, quando le promesse mortificate dall’inesorabile determinismo del giorno sembrano irrorarsi dell’opzione ulteriore offerta dall’ambiguità consustanziale del buio - le silhouette incerte dei corpi, le proporzioni sfuggenti degli oggetti, il sapore diverso delle situazioni, et. - Al passo di siffatto intendimento ben presto si allinea la giovane protagonista, chiamata solo la ragazza dai capelli corvini (chissà Houellebecq…), gentile e determinata, appassionata e curiosa, in bilico caratteriale tra l’impertinenza accorta dell’Alice di Carroll e la dolcezza stupita della Kiki miyazakiana, più di tutto persuasa a godersi appieno l’interludio (che per lei addirittura dilata i suoi limiti abituali: “La tua presenza sembra aver allungato la notte, in qualche modo”, le viene detto a mo’ della constatazione di un’ovvietà), anzi decisa a - letteralmente - berselo, passando da un cocktail a un calice di vino, da un assaggio fortuito a una libazione esclusiva, da un gotto al volo a un boccale di birra, spensierata eppure vigile, all’inseguimento di una pienezza di cui la progressione alcolica e il moto perpetuo - walk on, girl - non sono che le più esplicite epitomi. Contraltare e ipotetico complemento è l’universitario denominato semplicemente col termine generico e consuetudinario, per l’intercalare nipponico, di Senpai, occhialuto, magro e dinoccolato Romeo, sempre sul ciglio del baratro di un crollo nervoso perché incapace di dichiararsi e quindi perfetto per non trovare di meglio che piazzarsi sovente tra i piedi della teorica Giulietta millantando le imperscrutabili alchimie del caso votate, a suo dire, a propiziare i loro incontri.

Riassunta in questo modo e per sommi capi, la vicenda non si discosta molto dalla lunghissima tradizione che assegna alla ronde sotto le stelle fatta di ripetuti intralci, intersezioni mancate di un soffio, piccoli e grandi equivoci, falsi movimenti, dettagli significativi di cui però al momento non si coglie la valenza, fisiologiche goffaggini e ritrosie, una delle chiavi di accesso al forziere di Eros. Il tenore cambia, portandosi dietro i mille andirivieni della storia - tra cui sodali ironici inclini al dandysmo, prepuberi divinità dispettose, circoli di arzilli vecchietti, studentesche rappresentazioni teatrali all’aperto e despoti matusalemme induriti dalla solitudine forzata - se si pone l’accento sulle inesauste varianze e fratture di stile imposte da Yuasa all’opera. Ciò a cui ci è dato di assistere, infatti è, né più né meno, che un caleidoscopio lisergico accompagnato/sostenuto da altrettanti numeri musicali e da dialoghi a tambur battente entro il quale il circolare perdersi/ritrovarsi dei due potenziali innamorati diviene quasi sfondo pronto in ogni istante a lasciare spazio alla materializzazione cangiante e vorticosa di ciò che il loro slancio ancora rattrappito nell’aleatorietà e nella diversione mette via via in moto a contatto con un mondo che, calato il sole, non intende più nascondere quel lato di sé che interroga l’immaginazione e il desiderio. Lo schermo si trasforma così e per davvero in un luogo senza confini vieppiù alleggerito da un tono in prevalenza divertito e possibilista, dove poco o nulla contano gli schematismi della logica, i rigori esatti della fisica, la crudeltà dello scorrere del tempo, gli steccati culturali e gli imbonimenti morali. L’autore giapponese, magari con meno irruenza oltranzista di un altro suo riuscitissimo scherzo - “Mind game” - 2004 - ma con simile se non maggiore libertà espressiva e genuina grazia, tanto nello svolgimento del tema principale che nell’impostazione degli intrecci secondari (entrambi accomunati da una frizzante e contagiosa inerzia - di per sé merce rara in un oggi dominato dal buon senso cinico e dal raziocinio retrogrado - in grado di lasciar trasparire qua e là bagliori di sincera fiducia e financo un cauto ottimismo nei confronti delle sorti dell’avventura umana), punta comunque a disfare il tessuto logoro delle convenzioni e delle aspettative - figurative, intime, dottrinali - tipiche di tanta animazione contemporanea, tentando la via della composizione di un arabesco-per-immagini che sotto l’egida del sentimento e della fantasia emette vibrazioni tali da far risuonare nella realtà (in chi guarda) l’eco di sensazioni perdute e/o dimenticate.

In tale dimensione appaiono congrue e naturali, allora, scelte artistiche e di procedura di primo acchito stravaganti ma, al contrario e per certi aspetti, sul serio più affini alle peripezie formali di certe avanguardie (gli accostamenti cromatici non ortodossi; le posture strambe o esagerate; un certo gusto per la solidità espansa dell’acquerello o per la stilizzazione assertiva dell’affiche, et.) che ai canoni consueti di buona parte, nel caso, degli anime. Dunque: perentori stacchi di tinta, improvvisi cambi di prospettiva, rapporti di grandezza sfalsati di un ètte eppure in equilibrio, contorsioni impossibili che scimmiottano maliziosamente le mimiche parossistiche delle creature di Avery. Ed esplosioni sonore, languidi momenti morti (parentesi durante le quali forse si coglie nella sua quintessenza la sorridente ribalderia del romanticismo-contro-tutto del regista), circonvoluzioni di linee che ammiccano ai calligrammi e ai reticoli di parole di Apollinaire (“Des lacs versicolores/dans les glaciers solaires”), precipizi grafici, contrappunti, dilatazioni e ritorni degni dei ricami percussivi di Danny Carey. E slogature, incompletezze, frammentazioni, zampilli e dispettose emulsioni di colore, impazienze di tratteggio, sgargianti approssimazioni. Quelli e questi armonizzati da una fenomenale attitudine compositiva utile a temperarne le rispettive asprezze. In altre parole, non resta margine per l’intentato. E, a pensarci, non può che essere così, se ciò che conta è che la ragazza dai capelli corvini e il suo Senpai scoprano insieme cosa c’è dopo la notte.
TFK

domenica 15 marzo 2020

SPENSER CONFIDENTIAL


Spenser Confidential
di Peter Berg
con Mark Wahlberg, Alan Arkin
USA, 2020
genere, poliziesco, thriller, drammatico
durata, 111'



Per capire la natura di un film come "Spenser Confidential" basterebbe limitarsi all’analisi del titolo e vedere in che modo i suoi presupposti incidono sul risultato finale. Si tratta cioè di comprendere se il paragone con il celebre lungometraggio di Curtis Hanson - "L.A. Confidential" riesce a reggere il confronto con il poliziesco messo in piedi da Peter Berg e Mark Wahlberg, considerato che in entrambi siamo di fronte alla trasposizione di due romanzi: dell’omonimo noir di James Elroy quella di Hanson, della serie dedicata da Robert B. Parker al detective privato Spencer quella di Berg. Alla pari delle loro fonti letterarie i film in questione si misurano con le investigazioni poco ortodosse dei protagonisti e con una giungla metropolitana in cui violenza e corruzione sono il frutto del sodalizio criminale stipulato tra mafia politica e tutori dell’ordine.


E qui sta il punto, perché nella messa in scena operata da Berg il concetto che sta alla base del film non è quello di guardare il male da un punto di vista morale - sulla scorta della lezione di Chandler e dello stesso Elroy - ne di farne il pretesto per un divertissement cinefilo sul tipo di "La Gomera - L’isola dei fischi" di Corneliu Porumboiu. Sulla scia di altri colleghi passati dalla distribuzione sul grande schermo a quella sulla "grande piattaforma", (Netflix, ndr), Berg adeguandosi al suo sponsor  opera in regime di autocensura. Caratterizzato da uno stile di regia vicino a quello di Michael Mann (non a caso produttore di "The Kingdom", il film svolta di Berg), e dunque capace di fornire spettacolo con un dispositivo - soprattutto visuale - modellato su espedienti formali utilizzati nei reportage e nei documentari, con tanto di immagini sgranate e punti di vista sfalsati presenti anche quando si tratta di tradurre l’universo fantastico dei super eroi americani ("Hancock"), il cinema di Berg si allinea alla necessità della casa madre di abbassare il livello di complessità del prodotto al fine di renderlo esportabile in ogni dove. La qualcosa non riguarda solo la linearità di un intreccio nel quale la scientificità dell’investigazione lascia il tempo che trova e dove la struttura labirintica tipica del romanzo noir si riduce a un unico ed esile filo conduttore, - rappresentato per l'appunto dalla volontà del protagonista di vendicare le vittime del torto subito -, ma soprattutto la valenza dei personaggi, frutto di una stratificazione sociale e psicologica quasi del tutto assente e perciò in antitesi con il melting pot culturale, religioso e sessuale presente nei romanzi di Robert B. Parker.


Ma non è tutto perché se in "L.A. Confidential" la città losangelina riusciva a interagire con i protagonisti, diventando anch’essa personaggio, nel film di Berg la stessa Boston di "Mystic River" (Brian Helgeland figura tra gli sceneggiatori arruolati da Berg) è ridotta all’anonimato da panoramiche notturne e skyline appena utili a riprendere fiato dalla visione dei vari corpo a corpo in cui si cimenta il baldo Wahlberg. Il quale, dimagrito e tirato a lucido per l’occasione, ha la fotogenia da ragazzo della porta accanto (nonostante non gli manchino le scaltrezze per essere all’altezza dei suoi spietati rivali) che sembra fatto apposta per catalizzare l’interesse della mdp.  Con questa scusa il film si dimentica della sua natura spettacolare e per esempio delle coreografie e delle riprese impossibili di cui sono pieni i normali blockbuster, soddisfacendo in questo uno dei principi base della piattaforma americana, ovvero quello di sfornare mainstream televisivi a basso costo e ad alta visualizzazione, qui garantiti dalla presenza in cartellone della star di turno. Certo è che nonostante la simpatia del solito Wahlberg  (attore più bravo e versatile di quello che si è portati a pensare) e il mestiere di un regista ordinato e pragmatico come Berg, "Spenser Confidential" rimane un’operazione previbile e routinaria.  
Carlo Cerofolini
(ondacinema.it)

giovedì 12 marzo 2020

lunedì 9 marzo 2020

DIAMANTI GREZZI


Diamanti grezzi
di Josh e Benny Safdie
con Adam Sandler, Lakeith Stanfield, Idina Menzel
USA, 2019
genere: thriller, poliziesco, drammatico
durata: 135’


Dibattuto soprattutto per la mancata candidatura dell’attore protagonista, Adam Sandler, ai recenti Oscar 2020, “Diamanti grezzi” è il più recente film dei due fratelli registi, Josh e Benny Safdie.
La storia ruota attorno alla figura di un gioielliere ebreo newyorkese, Howard Ratner, che riesce a mettere le mani su un opale nero contrabbandato, corrompendo con 100000 dollari due minatori etiopi. Grazie al valore stimato, il protagonista pensa di metterlo all’asta in modo da guadagnare abbastanza per azzerare il debito di 100000 dollari che ha con il cognato Arno. In tutto questo sicuramente la condotta di Howard non aiuta data la situazione che si viene a creare in casa con la moglie, con la quale è in procinto di divorziare, i tre figli e la relazione clandestina che ha con la sua dipendente Julia che spesso non si presenta nemmeno a lavoro proprio per questo motivo.
In negozio, Howard riceve la visita del cestista dei Boston Celtics Kevin Garnett e, per risvegliare il suo interesse sportivo, gli mostra la pietra facendosi convincere, seppur con fatica, a prestargliela come portafortuna per la partita che avrebbe dovuto giocare. In cambio il protagonista riceve l’anello del campione che impegna per la vittoria della squadra.
Purtroppo non tutto va come previsto e non solo Arno e i suoi scagnozzi lo aspettano al varco e, in occasione della recita della figlia, lo rapiscono, picchiandolo e chiudendolo nudo nel bagagliaio della propria auto, ma anche Julia sembra voltargli le spalle ad un concerto.
Howard, ormai nella disperazione più totale, tenta il tutto per tutto e prova a fare il possibile per ottenere i soldi che gli mancano e mettere nuovamente le mani sull’opale che, purtroppo, perde valore.
Riuscirà a saldare il debito e restituire tutti i soldi?


Una storia interessante con un succedersi di eventi che tengono incollati allo schermo data la rapidità delle immagini e dei dialoghi. Il tutto condito da un’interpretazione veramente superba di Adam Sandler che lavora sul personaggio plasmandolo a suo piacimento e giocando anche sul modo di porsi, di muoversi e di parlare.
Tra i film più “volgari” dal punto di vista delle parole e delle espressioni utilizzate con la presenza di almeno una parolaccia ogni 2/3 minuti, “Diamanti grezzi” è un inseguimento continuo, non solo fisico, ma anche all’interno di una società diversa da quella che ci si potrebbe aspettare, attraverso personaggi apparentemente fuori dall’ordinario, ma che si rivelano essere più vicini di quanto si possa immaginare.
Forse un po’ troppo caotico nell’organizzazione e nella messa in scena delle azioni, complice un montaggio non sempre impeccabile. Ma si riesce ad ovviare al problema grazie all’imponente interpretazione dell’attore protagonista che avrebbe meritato probabilmente più risalto. Sarà per la prossima volta. Intanto chapeau ad un bravissimo interprete.

Veronica Ranocchi

domenica 8 marzo 2020

LA FOTO DELLA SETTIMANA

Sono innamorato di Pippa Bacca di Simone Manetti (Italia, 2020)

INVISIBILI: COLOUR OUT OF SPACE

Color out of space
di, Richard Stanley
con: Nicolas Cage, Joely Richardson, Madeleine Arthur, Brendan Meyer, Julian Hilliard, Elliot Knight, Tommy Chong
genere, fantascienza, horror
USA 2019 
durata, 110’


Fear the light
Fear the breath
Fear the others for eternity
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Il tempo è incostante. Ma se il tempo prende, prima o poi, in qualche modo, restituisce. Nel nostro caso succede che, alla fine, abbia riconsegnato agli amanti del cinema fantastico e dell’horror un autore come Richard Stanley (“Hardware”, 1990; “Dust devil”, 1992), separato dal lungometraggio di finzione per quasi un trentennio durante il quale, ad esempio, ha assistito al naufragio del progetto relativo a una personale versione di uno dei più celebri romanzi di Wells, L’isola del dr. Moreau, poi realizzato da Frankenheimer e dal titolo “L’isola perduta”, 1996 - addirittura diventato materia prima per una testimonianza a cura di David Gregory, “Lost soul: the doomed journey of Richard Stanley’s Island of dr. Moreau” - Indi si è dedicato alla sceneggiatura, al documentario, a varie collaborazioni, riuscendo anche a dirigere nel 2011 un episodio per l’antologia The theatre bizarre a nome “The mother of toads”, per tornare - e siamo al 2019 - a cimentarsi con un film vero e proprio, vale a dire di un qual rango produttivo (all’opera troviamo la XYZ e la SpectreVision di Elijah Wood, tra l’altro medesimi partner di Cosmatos per il suo “Mandy” [vd.], col quale il ritorno di Stanley allinea più sostanziali divergenze che immediate affinità) ma soprattutto latore di una coraggiosa sfida narrativa, essendo questo “Color out of space” un tentativo di adattamento del quasi omonimo racconto (The colour out of space, 1927) di H.P.Lovecraft.

L’annoso interrogativo circa il modo migliore per trasfondere l’ingegno, la sensibilità e il gusto di una visione, nel caso, letteraria, in quella delle immagini cinematografiche ha trovato da altrettanto tempo e in particolare in Lovecraft una figura tra le più restie a fornire risposte superficiali o accomodanti. A dire che la prosa del genio di Providence - intendendo con essa il suo incedere tanto elegante quanto sottilmente ambiguo, la tendenza alla rappresentazione di singolari stati d’animo sorretti senza attrito da un granitico rigore logico - mal si presta alla ricostruzione, mettiamo, sic et simpliciter realistica, come al mero accumulo di effetti vistosi e/o disturbanti. In altre parole, il punto risiede nel fatto che, nella stragrande maggioranza dei casi, quando il Cinema si è trovato faccia a faccia con un corpus artistico inconsueto ma al suo interno audace e coerente, tipo quello per sommi capi accennato, ha finito per rovistarne la cassetta degli attrezzi maneggiando un po’ a caso e con imperizia accontentandosi di riprodurre con parte di essi - ed è una risoluzione magari efficace ma di sicuro sbrigativa - ciò che siamo stati abituati poi a definire col termine lovecraftiano (una creatura oltremodo bizzarra; un paesaggio rigoglioso ma di fondo inospitale; il profilarsi di un’oscurità crudele dal pozzo senza fondo dei millenni, et.), qualcosa che comunque con l’intenzione, lo spirito e gli intendimenti dello scrittore americano ha poco a che fare. Circostanza, la predetta - e sempre compatibilmente alle esigenze dei rispettivi linguaggi - da cui si tiene a riparo l’esperimento di Stanley, allorquando affronta le inquietanti vicende che vedono coinvolta la famiglia Gardner (qui composta da una coppia, Nathan/Cage, mite e premuroso imprenditore convinto che un allevamento di alpaca in pieno New England possa rappresentare un profittevole investimento; Theresa/Richardson, analista finanziaria sulla via della guarigione dopo la lotta contro un tumore al seno; gli adolescenti Benny/Meyer e Lavinia/Arthur, e il piccolo Jack/Hilliard), tornata a contatto con la natura selvaggia nella dimora avita prontamente riarredata con la speranza di inaugurare un nuovo corso lontano dai dolori recenti e dalle chimere della civilizzazione. Già in apertura, infatti, è possibile notare la diversità di approccio con cui il regista sudafricano decide di introdurre la sua rielaborazione della storia, ossia la volontà di privilegiare un punto di vista eccentrico (rispetto a quello impetuoso e magniloquente del citato Cosmatos) nella circostanza di addentrarsi nei meandri di una foresta primordiale scrutandone dal basso e con circospezione la silenziosa ma come occhieggiante solennità e circoscrivere il clima vigile e sospeso del momento per mezzo di una voce narrante, la stessa - attualizzato il contesto generale - posta sulla ribalta da Lovecraft per introdurre uno dei suoi insinuanti referti: A occidente di Arkham le colline si innalzano all’improvviso, tra valli e boschi profondi che non hanno mai conosciuto la scure: vi sono macchie strette e buie dove gli alberi si inerpicano in maniera fantastica e ruscelli che non hanno visto la luce del sole… Quando mi inoltrai tra valli e colline per un sopralluogo della zona, in vista del nuovo bacino (idrografico, ndr), mi dissero che la regione era maledetta. Me lo dissero ad Arkham, e perché è un’antica città ricca di leggende di stregoneria, pensai che il male a cui alludevano fosse uno degli spauracchi con cui le nonne avevano atterrito i bambini per secoli… Poi vidi coi miei occhi quell’oscuro groviglio di macchie e pendii che si stende verso occidente e smisi di farmi domande, tranne che sull’antico mistero del luogo. Queste parole, recitate fuori campo dall’idrologo Ward Phillips/Knight - fin troppo facile ma eloquente il rimando all’(Ho)ward Phillips del patronimico di Lovecraft - giunto per i rilievi del caso nella proprietà dei Gardner, allo stesso tempo e di fatto distanziano il tono medio della narrazione ponendolo in una dimensione differita, quasi congetturale, aprendola di rimando a quel regno dell’esemplarità inaudita collocata al centro di una cornice ordinaria così cara ad HPL il quale, in una lettera del Marzo del ‘27 inviata al poeta e amico Clark Ashton Smith, a proposito del racconto non a caso parla di “studio d’atmosfera”.

Ed è proprio l’atmosfera - falsamente idilliaca, resa presaga da piccoli dettagli fuori sesto, da leggere insistenze allusive, da impalpabili stranezze [Nathan - interpretato da un Cage stavolta centrato su misure espressive atte a evidenziare una dolcezza stranita al posto delle reiterate (vedi, appunto, “Mandy”) catatonie e derive furiose - indulge spesso in un ottimismo didascalico e affettato; Theresa sembra d’altro canto sopraffatta/protetta da un insano torpore; Lavinia, lettrice del Necronomicon - altro appiglio lovecraftiano - intabarrata in un lungo mantello di fronte alle sponde appartate di un laghetto evoca a modo suo forze che riescano a “portarmi via da qui”; Jack, ragazzino solitario, si muove assorto come intuisse qualcosa sempre sul punto di manifestarsi; Benny, meno tormentato, galleggia, almeno all’inizio, tra spensieratezza e indifferenza] - che contribuisce a spostare il baricentro del film dal punto di caduta disperato e sanguinolento del lavoro di Cosmatos - parimenti ambientato nella wilderness, similmente caratterizzato da un progressivo precipitare di eventi che stravolgono l’equilibrio materiale e interiore dei protagonisti e ugualmente emissario della materializzazione allucinatoria di angoscianti pianeti perduti - allo spazio poco battuto favorevole a una maggiore accortezza da spendere nell’istante di modulare i toni, di dilatare le attese prima di un colpo di scena, di non cedere alla tentazione di mostrare-tutto-e-subito, prediligendo, di una follia incipiente, sollecitare i paradossi, i risvolti sovente più grotteschi che truculenti, gli scarti destinati a rimanere incomprensibili, andandosi cioè a sistemare a un passo dal sogno-a-occhi-aperti innescato nelle pieghe dell’intreccio dalla caduta di un meteorite dagli strani bagliori rosa-violacei. La stessa apoteosi finale in cui prende il sopravvento in via definitiva il diverso nella forma di una imprevedibile entità aliena al solito ben disposta a trascendere l’indolenza della biologia umana assumendo mutevoli sembianze e alterando la percezione della realtà da parte delle sue vittime/ospiti, è orchestrata da Stanley come un accorto crescendo in cui a una carnalità esplicita, figlia di suggestioni che rimontano al periodo d’oro dell’horror più analogico, più fisico - Cronenberg, Carpenter, Barker, Yuzna, Tsukamoto, et. - in ogni istante si sottende, quasi come un insostituibile nutrimento, il senso di uno stupore ancestrale, dell’attonita aspettazione per un abnorme sconcertante epperò verosimile. L’insieme in felice continuità con le intuizioni via via dettagliate da Lovecraft quando stravaganza e terrore non erano ancora un’industria ma ombre incerte sul volto degli uomini (quello di Ward davanti a un orizzonte tornato quieto solo in superficie, per dire), ai quali non restava che contemplare perplessi le mutevolezze di un mondo meraviglioso e insensato.
TFK