sabato 12 settembre 2015

UN'ALTRA GIOVINEZZA

Un'altra giovinezza
di Francis Ford Coppola.
con Tim Roth, A.M.Lara, Bruno Ganz, A.Pirici, A.M.Hennicke.
USA, G, Rom, Fra, Ita 2007 -
durata, 125'




"I realized when I saw you last/We've been together now and then/From time to time - just here and there -".
- Soft Machine -



"Dimmi, dove vuoi che lasci la terza rosa ?". Se e' vero che s'impiega gran parte della propria vita a diventare sul serio giovani, F.F.Coppola ha indirizzato il suo sguardo e i suoi sforzi meglio di quanto abbia fatto, per esempio, J.Ponce de Leon, riguadagnando una freschezza cinematografica che a pochi, in generale, e' dato di assaporare.

L'allontanamento progressivo (sebbene in buona parte coatto e già riscontrabile nel respiro asincrono di un' opera interstiziale come "Jack", 1996) dalla tenaglia produttiva hollywoodiana; la saturazione - anche dal punto di vista spettacolare - e conseguente stanchezza di un approccio fieramente antagonista, quanto, al tempo, parimenti magniloquente nelle forme, a contenuti universali ( i legami familiari; quelli camerateschi; l'incedere del tempo; il persistere della violenza; le gioie affettive quasi sempre trattenute; l'amore timido o impaziente, comunque già volto al rimpianto; l'Arte come punto di fuga dalla mediocrità e accesso al Sogno ma esigente banco di prova ed esattrice impietosa di dazi in genere molto alti; il passo attutito ma ininterrotto e greve della Morte, et.); la consapevolezza di appartenere ad un mondo (e ad un Cinema) inesorabilmente passato (quante volte ci sorprenderemo ancora a fantasticare riguardo i progetti immensi di un cineasta inquieto - pensiamo solo a "Megalopolis" - che mai incontreranno pari ingenuità e volontà di potenza utili a realizzarli ?) che poco ha a che fare con quello - il nostro - dal quale, per dire, sembra che persino l'oblio sia stato sconfitto, saturo com'è anch'esso d'immagini - proliferanti, invadenti - tese a sostituire alla Storia la sua sempre più frammentata e indecifrabile rappresentazione, hanno, paradossalmente, fornito al regista italo-americano le coordinate ideali (un inedito punto di vista, verrebbe da dire, più privato, malinconico, incline alla riflessione e al dubbio, come anche più aperto alla ricognizione emotiva, alle stranezze cangianti dei sentimenti), gli strumenti materiali (i bassi budget, le piccole e agili troupe, le ambientazioni inconsuete o remote) e quelli espressivi (in specie reminiscenze di vecchie predilezioni: atmosfere gotiche ad un passo dall'horror; incastri melo'; momenti goffi o surreali per toni da commedia circa complicate educazioni alla vita), per cogliere, nell'odierna dispersione, le tracce necessarie a disegnare un percorso affine a qualcosa come un'altra giovinezza.

 
Proprio "Un'altra giovinezza" - il titolo italiano cela sotto la veste possibilista un'antinomia seducente e feconda, sebbene tragica negli esiti addirittura eccedenti lo smacco, essendo l'originale "Youth without youth" - racchiude in se' buona parte delle intenzioni e dei segni stilistici liberati tanto da aspettative ormai, forse, nemmeno augurabili, quanto da reticenze consustanziali all'appartenenza per nascita e scuola (semplificando) ad un Sistema che poco ama e incoraggia le sfumature, per non parlare degli azzardi. La parabola rovesciata di Dominic Matei (un Roth impegnato a tratteggiare i contorni sfuggenti di una mestizia profonda e vasta da non avere neanche più bisogno di un nome) che alla fine degli anni '30 viene fulminato - letteralmente - sulle vie misteriose della conoscenza e della passione e, in apparenza ringiovanendo, prende a muoversi in quelle circonvoluzioni del tempo a ridosso delle quali perdono via via consistenza gli avverbi che ne circoscrivono l'estensione (adesso, dopo, prima, et.), si apre, infatti, pressoché da subito, silenziosa ma irremovibile, alla dimensione informe dell'eterno secondo gli sviluppi di una ricerca insensata ed eccelsa come quella del graal assoluto, ossia l'origine del linguaggio (e quindi dell'espressione della coscienza, della meraviglia e dello strazio del mondo) per mezzo del quale tentare di penetrare il segreto più intimo riposto in quell'altra e ancor più conflittuale giungla che e' il cuore umano, a dire l'amore, e testimonia, in tutta la sua innocente evidenza, lo sforzo di Coppola di reagire al determinismo inflessibile della verosimiglianza, dell'aderenza remunerativa ad un codice narrativo collaudato, con la suggestione davvero infinita dei destini aperti, degli scarti emotivi subitanei miracolosi o irrecuperabili, delle promesse ribadite quasi ad esorcizzarne la plausibile irrealizzabilità, del peso invisibile ma costante di una colossale solitudine, salda e dilagante ben oltre la prospettiva umana.

 
Simile approccio si sposa, così, felicemente alla novella di Eliade dalla quale il film prende le mosse e ci consegna - con l'itinerario di Dominic - sia l'emblema di un tracciato sapienziale ambizioso e impossibile, sia il riconoscimento di un moto interiore destinato a convergere in un punto indistinto ma onnicomprensivo dove gli opposti, le analogie e le metonimie si sciolgono in un inarticolato ineffabile e appagante che abdica senza dolore alla logica. Di concerto, affida al solo sentimento il gesto/(la rosa) dell'espressione, superando di slancio la stessa presunzione di un'indagine smisurata (Dominic incontra Veronica/Lara, con ogni probabilità reincarnazione del suo amor perduto, anch'essa folgorata da un fulmine e perciò in grado di parlare idiomi antichissimi retrocedendo fino ai limiti del proto-linguaggio ma per tale prodigio - ecco la giovinezza-senza-giovinezza, parentesi febbrile ma inappagata, presa nel vincolo di attimi privilegiati ma contati - condannata a morte prematura) e infine dona, distrattamente quasi, ad una Civiltà morente - l'attuale - da sempre persuasa dall'orizzonte rigido per cui tutto fuoriesce dal nulla per tornarvi, la prossimità/illusione di una ierofania che sola aiuta non a comprendere ma a sentire quanto una rosa e' una rosa e' una rosa.
TFK

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