martedì 31 luglio 2018

LOCARNO 71 - IL DIARIO DEL FESTIVAL


La nuova edizione del Locarno Festival conferma la sua predilezione cinefila con una selezione di film e di autori tutta da scoprire


E' tipico dei festival, soprattutto di quelli maggiori, sottolineare la propria cinefilia menzionando il numero di opere prime e di registi sconosciuti presenti in cartellone a discapito dei "soliti noti". La realtà, come sappiamo, è ben diversa perché è oramai acclarato che, accanto al gusto artistico dei selezionatori, i festival per prosperare o anche solo per sopravvivere debbano tenere conto delle logiche industriali e di potere che spesso impongono la presenza di titoli prodotti dalle Major e dai grandi network di distribuzione via internet, per i quali le kermesse festivaliere sono sempre di più una rampa di lancio per promuovere i propri film. In questo senso la 71esima edizione del Locarno Festival che sta per iniziare - l'ultima diretta da Carlo Chatrian - ci ricorda che esistono ancora delle eccezioni rappresentate appunto da una manifestazione come quella ticinese, nella quale lo scouting di nuovi talenti funziona meglio che da altre parti. Se non ci credete, provate a dare un'occhiata al concorso internazionale, quello che assegna i premi maggiori, e vedrete che a parte "Gangbyun Hotel" del coreano Hong Sang-soo, beniamino del festival e qui vincitore nel 2015 ("Right Now, Wrong Then") è difficile, se non impossibile, trovare riferimenti a qualcosa di conosciuto o di già visto. Una radicalità che si segnala anche nella fruizione stessa delle opere selezionate se è vero che la durata fiume (338') di un film come "From What is Before" di Lav Diaz (vincitore nel 2014) rischiano di essere poca cosa di fronte agli 808' minuti dell'argentino "La Flor", vera e propria sfida anche per gli appassionati più incalliti. 

A fare da antidoto a cotanto rigore non mancano le alternative più leggere che qua e la fanno da contorno al programma e funzionano da grancassa in grado di attirare le attenzioni di giornali e televisioni. Da una parte quindi gli incontri con il pubblico di una (ex) star come Meg Ryan e con un beniamino del cinema indipendente del calibro di Ethan Hawke, presente fuori concorso con la regia di "Blaze" e ancora con uno dei massimi autori del cinema europeo, Bruno Dumont di cui si avrà modo di vedere in prima mondiale la serie "Coincoin et les z'inhumains". 


A confermare il trend del festival concorre la squadra degli autori italiani abituati a frequentare Locarno con film scomodi (ricordate "Sangue" di Pippo Del Bono?) e poco accondiscendenti rispetto al pensiero dominante in voga nel nostro paese. Quest'anno toccherà ad Alberto Fasulo mantenere alta l'intransigenza con il suo "Menocchio" nel quale si racconta l'Italia della Controriforma e del Concilio tridentino attraverso la storia di un presunto eretico realmente vissuto nella fine del Cinquecento. Tra i titoli che non mancheranno di far discutere segnaliamo "Ora e sempre riprendiamoci la vita", documentario sugli anni 70 che segna il gradito ritorno di Silvano Agosti, autore di quelli che oramai non esistono già. Chiudono la partita Diego Abantantuono protagonista (in Piazza Grande) de "Il mio miglior nemico" e, tra gli altri, "L'Ospite" di Duccio Chiarini (sempre in Piazza Grande) incentrato sulla crisi di un rapporto sentimentale e ancora (Fuori concorso) di "Sembra mio figlio" dramma famigliare di Costanza Quatriglio ambientato nell'Afghanistan dilaniato dalla guerra. I consuntivi si faranno alla fine, ma anche quest'anno siamo di fronte a un'edizione del Locarno Festival tutta da scoprire e noi come sempre ve la racconteremo con il nostro diario giornaliero.
Carlo Ceofolini
(pubblicata su ondacinema.it/ speciale Locarno 71 - Diario giornaliero)


HEREDITARY - LE RADICI DEL MALE

Hereditary- Le radici del male
di Ari Aster
con Tony Colette, Alex Wolff, Gabriel Byrne
USA, 0218
genere, thriller, horror
durata, 126'


Per essere un horror "Hereditary - Le radici del male" è un film in cui la presenza della mdp è resa in maniera più evidente di quanto ci hanno abituato le produzioni americane. Nella sequenza introduttiva, per esempio, partendo da un'inquadratura fissa su una casupola di legno posta sulla sommità di un albero antistante alla casa dalla quale avviene l'osservazione, la telecamera si rivolge verso l'habitat della stanza che ne ospita il punto di vista per avanzare fino a dove gli è possibile, soffermandosi sui diversi modellini che riproducono - in scala - gli interni della dimora in questione e le repliche dei suoi abitanti. Quello che a prima vista sembrerebbe l'espediente per innescare l'escamotage narrativo è invece il modo con cui il regista ci mette in guardia rispetto ai livelli di realtà di cui si compongono le immagini del suo lavoro. Se mai ce ne fosse bisogno, la conferma di quanto appena detto arriva subito dopo, con la soluzione di far partire la storia dall'animazione delle stesse miniature, destinate, come d'incanto, ad assurgere al corrispettivo in carne e ossa dei personaggi. Detto che il film tornerà più volte su questo leit-motiv, approfittando del fatto che l'artefice dei plastici è la stessa protagonista, Annie Graham/Toni Collette, incaricata di realizzarli per conto di una importante galleria d'arte, ciò che importa nell'economia complessiva è il risultato prodotto da questo cortocircuito iniziale.

Le reazioni di Annie, del marito e dei suoi due figli di fronte alla scomparsa della madre della donna e, soprattutto, alle sconcertanti scoperte sul misterioso passato della defunta fanno infatti da apripista a una tipologia di messinscena che, emulando il rapporto tra realtà e rappresentazione messo in campo dalla sequenza iniziale, depotenzia le caratteristiche fenomenologiche degli avvenimenti, per favorire una visione autoreferenziale degli stessi nella quale ciò che accade potrebbe essere riferito a dati oggettivi, esterni alla coscienza degli interessati (l'inquadratura fissa sulla casupola), oppure a una proiezione mentale degli stessi (gli ambienti della casa) e delle loro distorsioni (i modellini a cui si faceva riferimento sopra). Un'impostazione, questa, tanto più efficace nella considerazione che si sta parlando di un film a basso budget e di un genere, da sempre abituato (anche per questioni economiche) a lavorare sul fuori campo, lasciando al "particolare" - concentrato in poche location (in questo caso gli interni delle abitazioni) - il compito di evocare quel "tutto", normalmente emarginato fuori dal quadro anche per l'impossibilità di ricrearne - visivamente e per mancanza di soldi - la complessità. E, ancora, in ragione di una prospettiva che, almeno nella prima parte, bandisce quasi del tutto l'azione, preferendo ad essa un passo più contemplativo e un approfondimento di tipo esistenziale degli sconvolgimenti provocati dai lutti che colpiscono la famiglia di Annie. Non è dunque un caso se quella che dovrebbe essere la classica storia di possessione e di sette sataniche si trasforma in vero e proprio cinema d'autore, con movimenti avvolgenti della mdp, carrellate dal sapore metafisico (dei corridoi, destinati a diventare recessi della mente) e campi lunghi che, azzerando la profondità degli spazi e rendendo incerta la loro perimetrazione (di fatto inesistente), sembrano rimandare direttamente all'artificialità dei modellini iniziali, facendo del non luogo il territorio principe degli eventi descritti nel film.

Se clima e contesto evocano il David Lynch di "Eraserhead - La mente che cancella" accade che, mentre l'autore di "Twin Peaks" è disinteressato a qualunque spiegazione, preferendo ad esse le fantasie surreali escogitate dal suo estro, Aster, al contrario, non si limita a far sentire la follia dei personaggi ma decide pure di raccontarla con una coerenza che purtroppo non riesce ad avere la stessa efficacia di ciò che l'ha preceduto. Forzando la logica di certi passaggi (come quello relativo ai poteri da medium di Annie) e palesando piccole ma evidenti incertezze nella costruzione della trama, "Hereditary" retrocede a lavoro di seconda fascia, pur mantenendo inalterata l'eccellenza della confezione, valorizzata dalla fotografia iperreale di Pawel Pogorzelski.
A vantaggio del lavoro svolto dal regista, preme comunque sottolineare l'eccellente resa di "Hereditary", al top degli incassi tra gli indipendenti della stagione americana - con un utile di 70 milioni di dollari d'incasso a fronte di un budget di 7 - che lo pone ai vertici, non solo nell'alveo della propria categoria. Che abbia un seguito è più che scontato.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su ondacinema.it)

Notizie su #Fortnite: Arriva la Nuova Modalità "Fly Explosives"



Fonte




nella giornata di ieri sono state leakate le sfidedella Settimana 4 della Stagione 5 di Fortnite, ecco spuntare in rete quelle che sembrano essere interessanti novità per il popolare gioco di Epic.
Infatti, stando a quanto riportato da Fortnite Intel, sembra che la prossima modalità a tempo limitato sarà a base di esplosioni. Secondo i dataminer, che hanno scoperto un'immagine nella sezione playlist denominata "BR05_LTM_FlyExplosives", pare che la modalità si chiamerà, appunto, "Fly Explosives".
Si tratterebbe di una MAT caratterizzata da armi esplosive, come granate, razzi, lanciagranate e missili guidati (di ritorno proprio oggi), il tutto supportato dai jetpack.





Qui Potete vedere il Mio canale con Una Nuova veste Grafica ditemi cosa ne pensate https://gaming.youtube.com/channel/UC8AdlMjtrrGROhXhvcV__GA

domenica 29 luglio 2018

SENZA SANTI IN PARADISO

Senza santi in Paradiso
di David Lowery
con Rooney Mara, Ben Foster, Casey Affleck, Keith Carradine
Usa, 2013
genere, drammatico
durata, 105’

La Fondazione Cineteca Italiana ha presentato dal 24 al 30 luglio 2018 due inediti in Italia del giovane regista americano David Lowery: “Senza santi in Paradiso” e “A Ghost Story”. https://www.cinetecamilano.it/rassegna/david-lowery



Il giovane regista David Lowery è conosciuto in Italia solo dai cinefili, visto che i suoi film hanno avuto una pessima distribuzione in Italia. Autore di innumerevoli cortometraggi, cresciuto professionalmente in Texas (dove si è trasferito con la famiglia fin dall’infanzia), ha diretto solo quattro lungometraggi: “St. Nick”, proiettato solo in qualche festival americano; “Senza santi in Paradiso” che ha avuto il suo debutto alSundance Festival e distribuito in Italia direttamente in home video; “Il drago invisibile”, unico film uscito nelle sale nazionali; e, infine, “A Ghost Story” che ha avuto la stessa sorte della sua seconda opera. Nel frattempo, Lowery ha terminato di girare “The Old Man & the Gun” con Robert Redford che uscirà nelle sale statunitensi nell’autunno di quest’anno.
“Senza santi in paradiso” narra la storia d’amore di due giovani, Ruth Guthrie (Rooney Mara) e Bob Mooldon (Casey Affleck) piccoli rapinatori che dopo un colpo finito male e una sparatoria finita nel sangue vede Bob imprigionato, mentre Ruth, incinta, viene discolpata dal suo compagno, pur avendo ferito un vicesceriffo.
Lowery oltre a dirigere, scrive e a volte monta le sue opere, facendone un autore a tutto tondo con una sua specifica poetica estetica e contenutistica. Si circonda sempre dei soliti collaboratori e utilizza, quando può, anche gli stessi attori: infatti, la coppia di “Senza santi in Paradiso” è anche protagonista in “A Ghost Story” e Ben Affleck partecipa anche all’ultimo film di Lowery.
Le tematiche di Lowery convergono sulla narrazione di piccoli personaggi, per lo più giovani, della loro ricerca di un mondo migliore, di un loro posto nella vita, nella ricerca di una felicità fatta di momenti dove l’amore tra uomo e donna trascendono lo spazio e il tempo. Il ricordo di una vita migliore (im)possibile a ogni costo si frantuma contro un destino ineluttabile che termina o inizia con la morte di un personaggio principale.


Stilisticamente, Lowery ama riprendere i propri personaggi in primi pianti intensi, prediligendo i long take per bloccare il tempo all’interno dell’immagine filmica, dove la macchina da presa diventa testimone di eventi ineluttabili, con l’utilizzo di flash back e flash forward sempre in forma diegetica e mai narrativa, facendone opere completamente postmoderne.
“Senza santi in Paradiso” risente dell’influenza del grande regista texano Terrence Malick, in particolare “La rabbia giovane” e “I giorni del cielo”, non solo per la storia narrata, ma anche per l’utilizzo di una fotografia dai colori desaturati, da una luce naturale che pervade i corpi e gli oggetti, avvolgendoli in un alone di indeterminatezza temporale ed emotiva.


Pur essendo ancora un’opera che derivativa, Lowery dà prova di avere una capacità della messa in scena fuori dal comune e una chiara ricerca personale che lo porterà a prove più originali e autonome (come “A Ghost Story”). “Senza santi in Paradiso” si avvale poi di interpretazioni partecipate e piene da parte di Ben Affleck e di Rooney Mara che danno valore aggiunto. Ma anche gli attori comprimari come Ben Foster (il vicesceriffo che si innamora di Ruth) e di Keith Carradine (il tutore dei ragazzi) recitano in modo essenziale, per sottrazione, più con lo sguardo e i gesti delle mani e del corpo, provando una capacità innata da parte di Lowery nella direzione degli attori.
“Senza santi in Paradiso” rivela un autore da seguire con attenzione e ci auguriamo che in futuro abbia maggiore fortuna nella distribuzione nelle nostre sale per un pubblico che si merita di vedere bei film.

Antonio Pettierre

Un temibile rivale per #Fortnite -- Electronic Arts pensa allo sviluppo di un gioco Battle Royale gratuito 👍👍



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I titoli Battle Royale stanno avendo un successo devastante ma il loro mercato è ancora decisamente acerbo, di fatto costituito solo da una manciata di titoli di cui solo Fortnite e PUBG sembrano emergere.


È chiaro che il successo riscosso ha stimolato l'interesse delle grandi etichette videoludiche, e l'inserimento delle modalità in stile Battle Royale in Battlefield V e Call of Duty: Black Ops 4 è sintomatico di questa attenzione. Tuttavia, si tratta di prodotti ancora decisamente diversi: il grande successo di Fortnite si deve probabilmente anche alla sua distribuzione free-to-play su una pletora di sistemi diversi, un modello di business ancora molto distante da quello di Battlefield V e Call of Duty: Black Ops 4, che restano giochi standard con una modalità dedicata a tale stile di gioco.


Tuttavia, non è detto che le cose non siano destinate a cambiare: Electronic Arts si è infatti detta alquanto interessata all'eventuale lancio di un titolo separato in stile Battle Royale da distribuire come free-to-play. "Siamo interessati a sperimentare con titoli standalone free-to-play che possano rientrare nel genere shooter o qualcosa di simile", ha affermato di recente il CFO Blake Jorgensen di EA durante un incontro con gli investitori. "Non credo sia ancora il modo in cui vogliamo interpretare la serie Battlefield per il momento", ha però aggiunto, facendo dunque pensare a qualcosa di diverso, forse un titolo completamente nuovo da destinare al Battle Royale.

News: Sekiro - Shadows Die Twice potrebbe avere la modalità New Games Plus per dare più stimoli ai giocatori più Esperti 😎👍



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Notizie dal Momdo di Sekiro: Shadows Die Twice potrebbe avere una modalità New Game Plusche renderà più difficile una sfida che si promette già ardua di suo. 


A parlare della modalità New Game Plus è stato il game director di Sekiro: Shadows Die Twice Hidetaka Miyazaki, in un'intervista con il sito Playm.de, che non l'ha confermata ufficialmente, ma ha detto che il team ci sta lavorando. In che termini non è chiaro, come non si sa nulla sull'implementazione, ma è già qualcosa per i fan dei titoli di From Software.



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Nella stessa intervista, Miyazaki ha discusso della possibilità di aggiungere nemici sovrannaturali, affermando che il team di sviluppo vuole andarci più cauto rispetto a quanto visto nei Dark Souls. Comunque sia ha anche promesso che alcuni elementi sovrannaturali ci saranno e che i nemici da affrontare non saranno solo umani. Comunque l'approccio scelto sarà più realistico, anche perché Sekiro: Shadows Die Twice sarà ambientato durante un'epoca storica precisa, quella Sengoku, cercando di rispettarla nei limiti del possibile.

IL CLUB CALCISTICO FC NANTES PRESENTA L'ACQUISTO DI EVANGELISTA CON UN VIDEO DI FORTNITE DA VEDERE!!






 IL CLUB CALCISTICO FC NANTES PRESENTA L'ACQUISTO DI EVANGELISTA CON UN VIDEO DI FORTNITE DA VEDERE!!






Fortnite: i missili teleguidati stanno tornando saranno depotenziati, saranno a Corto raggio, quindi che senso a metterli?




Epic ha annunciato il ritorno dei controversi missili teleguidati, riporta Eurogamer.
I missili in questione si sono uniti all'armamentario del gioco a marzo, e in seguito i giocatori hanno scoperto di poterli cavalcare compiendo un salto al tempo giusto.

in seguito furono rimossi per via della loro eccessiva efficacia, e da aprile non si è vista più loro traccia in gioco. Ebbene adesso il senior designer Andrew Bains ha confermato che stanno facendo ritorno. I missili durante la loro assenza sono stati modificati a dovere, ora dunque presentano una velocità di movimento ridotta, inoltre presentano una minor raggio di svolta, danni e area dei danni. Le munizioni di default sono inoltre state impostate a 12. quindi ce da chiedersi che senso a Metterli? voi cosa ne pensate 


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The missiles in question joined the game's armory in March, and later the players discovered they could ride them by making a jump at the right time.

later they were removed because of their excessive effectiveness, and since April they have not seen their trace at stake. Well now the senior designer Andrew Bains has confirmed that they are making a comeback. The missiles during their absence have been modified accordingly, now they have a reduced speed of movement, they also have a smaller turning radius, damage and damage area. The default ammo has also been set to 12. So ask yourself what sense to put them on? What do you think about it


sabato 28 luglio 2018

IO, DIO E BIN LADEN


Io, Dio e Bin Laden
di Larry Charles
con Nicolas Cage
USA, 2016
genere, commedia
durata, 92'



Dipenderà dalla lentezza della nostra distribuzione, che ha deciso di farlo uscire a due anni di distanza da quella americana (peraltro avvenuta direttamente su piattaforme on demand), sta di fatto che "Io, Dio e Bin Laden", diretto da Larry Charles, appare un film sorpassato dagli eventi che, nel frattempo, sono intercorsi dai tempi della sua realizzazione. A cominciare dal contesto, di certo alterato rispetto alla realtà dei fatti, ma comunque riferibile alla vera storia di Gary Faulkner, ex detenuto disoccupato e in missione “per conto di Dio” dal giorno in cui lo stesso gli comanda di mettersi alla ricerca di Osama Bin Laden e di catturarlo (in Pakistan, dove Faulkner si recò ben 11 volte). C’è poi il fatto che a interpretare il ruolo del protagonista sia Nicolas Cage, ex divo hollywoodiano che ai tempi del film godeva di un margine di credibilità oramai consumata dall’anonimato delle ultime scelte. A completare il quadro la presenza occulta (perché nascosta tra i tanti nomi elencati nei titoli di coda) dei “famigerati” fratelli Weinstein, non si sa in che termini coinvolti nella produzione del lungometraggio.


Fin qui autore di biografie “inventate” (Borat, Bruno), Charles si cimenta per la prima volta nella messinscena di una persona realmente esistita mantenendo invariate le coordinate di un cinema che non riesce a prendersi sul serio anche quando si parla di Dio e Bin Laden, entrambi declassati a macchiette. In un simile scenario non stupisce ritrovare un attore come Cage, da sempre a proprio agio quando si tratta di procedere a briglia sciolta. Dello sgangherato carrozzone messo in piedi dal regista è certamente il mattatore, come sempre sopra le righe, ma mai come questa volta in maniera appropriata alla situazione. Visto con gli occhi del suo personaggio si riesce quasi a credere che qualcosa di simile possa essere davvero accaduto. Non è poco!
Carlo Cerofolini
(pubblicata su taxidrivers.it)

giovedì 26 luglio 2018

SKYCRAPER


Skyscraper
di Rawson Marshall Thurber
con Dwayne Johnson, Neve Campbell
USA, 2018
genere: azione
durata, 102’



Will Sawyer, veterano di guerra e agente dell'FBI, perde una gamba in un'operazione per liberare gli ostaggi. Dieci anni dopo, ha una moglie e due figli che contano su di lui e vivono con lui ai piani alti di un grattacielo avveniristico, costruito a Hong Kong da un miliardario cinese megalomane. Appena il protagonista viene nominato responsabile della sicurezza della struttura, il grattacielo più alto e più sicuro del mondo prende improvvisamente fuoco. Dell'incendio viene accusato a torto Will. Ma lui non ci sta. Considerato fuggitivo dalla polizia cinese, non gli resta che trovare i veri colpevoli, riabilitare la propria reputazione e salvare la sua famiglia, intrappolata all'interno e al di sopra del livello del fuoco.
Sospeso tra film d'azione e film catastrofico, “Skyscraper” riposa sul carisma della sua stella e frequenta senza imbarazzo tutti i cliché dei generi, prendendosi molto sul serio.
Rawson Marshall Thurber assolda Dwayne Johnson per recuperare il piacere un po' vintage di un eroe senza poteri sovrumani, che non ha altro da offrire se non lo spettacolo del suo corpo in azione. All'architettura infernale del grattacielo del titolo, il regista oppone la muscolatura sostenibile di The Rock, 120 chili di muscoli pronti a tendersi al servizio di questa o quella causa. Questa volta è la famiglia dell'eroe l'obiettivo da raggiungere e salvare, sollevando pesi, saltando in corsa da una gru e lanciandosi nel vuoto, suscitando l'incredulità dello spettatore. 


Appeso al 96° piano e usando la sua gamba artificiale come arresto per le porte, il nostro abbatterà i cattivi, in un film che assomiglia a “Trappola di cristallo”, ma che non arriva nemmeno al primo piano dei suoi modelli, quali “L'inferno di cristallo”. Se le stazioni di Bruce Willis contavano sulla messa in scena virtuosa e la filmografia virile di John McTiernan, Johnson è accompagnato nella scalata da Rawson Marshall Thurber, il cui solo fatto d'armi è una commedia demenziale (“Palle al balzo”). 
Con la sua storia di un eroe nelle grinfie di un gruppo di terroristi che prendono il controllo di un edificio impressionante, “Skyscraper” gioca sulla verticalità di un building-mondo che si staglia nel cielo e ha come controcampo ai suoi piedi una folla di gente esaltata dalle acrobazie di un impiegato fuori norma.
Magnificare la Cina ultramoderna e il corpo di Dwayne Johnson, gigante affabile che protegge Chicago da un attacco di mostri giganti (“Rampage - Furia animale”) o impedisce il collasso di un grattacielo in fiamme a Hong Kong coi soli bicipiti, sono le ragioni di un film che incontra le convenzioni del catastrofico e assume l'estetica dell'animazione. Abituato a battere l'apocalisse a braccio di ferro, per Dwayne Johnson neutralizzare terroristi e dominare incendi sono pure formalità, all’interno di un film politicamente corretto e con qualche bell'effetto di prospettiva.
Riccardo Supino

MARCO RENDA E IL CINEMA CHE SA ANDARE LONTANO: INTERVISTA AL REGISTA DI EDHEL




Uno dei luoghi comuni del cinema italiano è quello di una produzione appiattita su scelte scontate e poco rischiose. In realtà, seppur piccola, esiste una categoria di registi che esordisce con operazioni coraggiose come la tua che tra l’altro affronta con capitali indipendenti un genere come quello del fantasy per nulla frequentato in Italia. Una cosa del genere era accaduta anche a Gipi con L’ultimo terrestre ma la fantascienza come sappiamo può fare a meno degli spazi e dell’apparato iconografico necessari alla categoria cui appartiene il tuo film. Da dove viene la decisione di confrontarsi con un genere come quello di Edhel
Sono molto legato a questo universo, quando ero piccolo mi sono cibato di questo tipo di film andando al cinema con mio padre quindi una motivazione è di tipo personale avendo io una predilezione per questo genere di film. Poi c’è il desiderio di realizzare un cinema in grado di creare mondi che non esistono e di interpretare i disagi in un modo tutto nuovo, senza limitarmi nel racconto della realtà, ma anzi di andare oltre. Inoltre credo che se le leggende nordiche e il fantasy medievale trovano le loro radici nel nord Europa, ciò non esclude che sia qualcosa che non possa appartenerci. Soprattutto non capisco perché quando qualcuno vuole cimentarsi in questo tipo di film lo debba sempre fare territorializzando la storia. Io non volevo raccontare ne Roma, ne Napoli, la città dove sono nato, quanto piuttosto narrare una storia attraverso gli archetipi, magari facendolo in maniera ingenua e semplicistica perché ovviamente è stata dura girarla. Volevo raccontare dei concetti assoluti di male e di bene, non legati  – per me che sono napoletano – necessariamente alla malavita, insomma  evitando di riferirmi a qualcosa legato al mio territorio. Avverto che c’è una sorta di pregiudizio nei confronti di chi non affronta le difficoltà rispetto al territorio. Mi è stato offerto di fare film sulla malavita campana ma io mi chiedo perché non possa andare lontano se il cinema mi permette di farlo.

Tra l’altro lavorando per astrazione e arrivando a parlare della contemporaneità in termini assoluti e universali come hai fatto tu.
Non sono interessato a fare certe cose e volevo rispettare i miei desideri. Mi sono voluto bene facendo ciò che volevo fare, al di là delle mode e dei limiti impostimi dal budget.


A proposito di limiti, gli illustratori di fumetti riescono a creare le loro storie in estrema libertà perché la mancanza di budget consente loro di non autocensurarsi dal punto di vista artistico. Mi chiedevo quindi se la decisione di Silvano, che è appunto un disegnatore, sia un modo per far entrare nella storia la fantasia tipica del suo modo di vedere il mondo. 
Non è casuale. Se ti ricordi nel film Silvano dice che il padre gli bruciava i disegni. Dunque lui è l’emblema dell’individuo al quale il sistema non permette di esprimersi e, che, laddove riesca a farlo viene comunque emarginato. Capita a lui come a Edhel che riesce a stemperare le difficoltà rifugiandosi   nella fantasia.

Quindi tu riconosci al fumetto e in generale all’universo del cosiddetto cinema “disegnato” questa libertà d’ispirazione.
Senza alcun dubbio. Guarda cosa è riuscito a fare Rack, il mio compaesano, il quale con Gatta cenerentola ha messo in pratica la libertà di cui dicevamo senza porsi alcuna limitazione e con risultati per me straordinari.


Rispetto ad altri colleghi il tuo esordio è anche un’occasione per vedere all’opera una troupe di professionisti pressoché esordiente a questi livelli. Edhel funziona quindi anche come vetrina di nuovi talenti.
Alcune di queste persone hanno frequentato l’accademia di cinema insieme a me. Con molti di loro ho realizzato negli ultimi 15 anni decine di cortometraggi. Tra i novizi c’è anche Niccolò Alaimo, che interpreta Silvano e  che voglio menzionare perché gli ho assegnato un ruolo di una difficoltà inaudita, anche per il fatto di aver girato in 18 giorni. A proposito dei problemi che si possono incontrare nella realizzazione di un lungometraggio, ho un esempio che mi sostiene da anni e che risponde al nome di George Lucas. Non mi riferisco tanto a “Guerre stellari” che è, e resta, un capolavoro. A ispirarmi è la sua esperienza  umana,  il modo con cui ha affrontato le difficoltà di un’opera che va oltre le linee previste. Noi ci rivediamo molto nell’equipe del 77 che realizzò quel film memorabile. Ovviamente il mio non otterrà gli stessi risultati però voglio dire, lo spirito è lo stesso.

Considerato che il tuo budget era lontano anni luce da quelli dei tuoi colleghi americani, volevo chiederti qual’è stato il punto di partenza per arrivare a creare il magico mondo della protagonista.
Di sicuro Il labirinto del fauno, il mio film di riferimento, dove, se ricordi, esisteva il doppio binario costituito dall’intreccio tra realtà e fantasia. Una dialettica che per ragioni produttive in Edhel doveva essere più morbida. Non potevo permettermi un doppio binario così ricco come quello di Del Toro. Il gioco quindi è stato semplice, e simile a quello utilizzato da Spielberg ne Lo squalo, dove la soggettiva della creatura permetteva di ovviare alle limitazioni dovute al malfunzionamento del modello meccanico. Di questo Spielberg ha fatto una cifra stilistica. Ebbene, io ho giocato nello stesso modo, facendo di necessità virtù ma anche scelta, perché in ogni caso  non avrei voluto filmare eserciti di Elfi e cose di questo genere. Pur tenendo conto che non avevo molti soldi, il film è nato comunque per avere un tono minimalista. Poi il coraggio è stato della produzione. La Vinians ha avuto la forza e l’audacia di sostenermi laddove altri non l’avrebbero fatto.

Il tuo lavoro sul fuori campo consente allo spettatore di credere alla possibilità di un mondo alternativo, simile a quello raccontato da Tolkien nel suo Silmarillion. In questo senso la capacità di guardare agli elementi della nostra quotidianità, alternandone l’abituale significato, mi ha ricordato l’approccio avuto da M Night Shyamalan in E venne il giorno. Secondo te è possibile fare dei paragoni tra il tuo lavoro e quello del regista americano.
Naturalmente si tratta di un autore che conosco e apprezzo. E’ vero quello che dici a proposito di E venne il giorno ma devo dirti che quest’ultimo non mi ha fatto impazzire. Anche per quello che mi chiedevi preferisco citare The Signs, in cui il l’invasione extra terrestre è vissuta dallo spettatore attraverso gli occhi della famiglia chiusa dentro la casa.



Parlando dello stile del film, mi piace il fatto che tu suggerisca certi significati, facendoli scaturire spesso da oggetti inanimati. L’esempio lampante è quello di una delle prime sequenze, in cui il soffermarti sulla sedia vuota, quella dell’ipotetico capotavola, rimanda alla scomparsa del padre di Edhel. Per non parlare della scena introduttiva in cui la sparizione del genitore viene evocata dall’immagine dell’ostacolo che cade a terra insieme al cavallo. Immagino dunque che gli aspetti legati alla pre-visualizzazione del film siano stati decisivi per ottenere questi risultati.
Lo confermo. Io utilizzo sempre il camera script, non improvviso mai, non mi piace. Al di là dell’intuizione dell’ultimo minuto, ho comunque necessità di preparare le sequenze in anticipo attraverso questo strumento  che da noi non è così diffuso. Un’eccezione è rappresentata da Sorrentino che ne fa uso. Adorando la  precisione, questa procedura mi permette di raggiungerla. Ciononostante, in alcune scene non sono riuscito a ottenere ciò che avevo in mente per mancanza di tempo. Laddove hai visto qualcosa di bello è perché avevo più tempo e quindi modo di realizzare ciò che avevo pianificato, come per esempio il piano sequenza di 4’ e 50’ relativo alla festa di compleanno a cui partecipa Edhel. L’inquadratura di cui mi parli è molto importante per me poiché, avendo perso mio padre un mese prima dell’inizio delle riprese, l’ho vissuta sulla mia pelle. Anche se, devo dire, il film lo avevo scritto prima che ciò succedesse.

Nel film si instaura una dialettica tra inquadrature che riprendono la protagonista alternativamente dal basso e dall’alto. Era un modo per suggerire l’esistenza di un mondo alternativo a quello quotidiano.
Le riprese dall’alto mi servivano per comunicare un senso di impotenza, per rendere la sensazione di quanto la protagonista fosse schiacciata dagli eventi. In genere lo si fa con focali corte come succede nella scena in cui Edhel si rifugia nel bagno, inquadratura che per me deve rendere il malessere e l’isolamento in cui è piombata in quel momento. Quelle dal basso, invece, dovevano trasferire sullo schermo  la speranza e le aperture verso l’altro. In questo senso io ad altezza uomo non filmo quasi mai, non giro ad altezza fiction (ride).


Il senso di scoperta, che è uno dei motivi trainanti della narrazione, viene suggerito dall’uso di carrellate in avanti che si avvicinano alla protagonista come per liberandola dagli ostacoli che ci impediscono di vederla completamente. Volevo chiederti se il movimento di macchina appena citato ti serviva per rendere questo concetto.
Si, tutto nasce dall’esigenza di sottolineare la totale incomunicabilità tra Edhel e la madre. Alcune volte procedevo in maniera graduale, in altre, addirittura evitavo di inquadrare la bambina. Prendi la scena in cui la donna sta facendo i conti ed Edhel gli domanda della chiaroveggenza: lì ho evitato di farla vedere, anzi, l’ho tagliata a metà, equiparando questa sgrammaticatura filmica alla mancanza di rispetto che la madre ha verso la figlia. In quel momento mi sostituisco al personaggio di Roberta Mattei e faccio la stessa cosa, inquadrandola male.

Un’altra caratteristica del tuo stile è l’uso del rallentì. Il cinema indie se n’è servito per enfatizzare gli stati disfunzionale dei personaggi, il loro essere avulsi dal resto delle società, cosa che accade anche nel tuo caso. In più qui mi pare che serva per segnalare le avvisaglie di quel mondo magico a cui si riferiscono Silvano ed Edhel.
Lo utilizzo sia per enfatizzare determinati momenti narrativi, sia per annunciare le soggettive di Edhel. In una di queste, e precisamente nella scena iniziale, vediamo il cavallo disteso, che in qualche modo rappresenta la morte del padre, messa in scena senza che quest’ultimo appaia. Li mi sono ispirato a un’inquadratura di Sorrentino che non centra niente con la mia ma che a livello grammaticale è identica. Se ti ricordi il “Divo”, c’è il rallentì della macchina di Falcone che cade dall’alto. Realisticamente parlando è sbagliata, perché se esplode un auto non cade cosi. Anzi, quella cade già rotta e poi esplode al contatto con la terra. Si tratta di una sequenza surreale che però rende bene il senso ricercato dal regista. La stessa cosa accade nella scena del mio film. Anche se non compare il genitore, le immagini raccontano una caduta, una dipartita, una morte, e lo slow motion mi aiuta a visualizzarla.

Per ritornare al ruolo di Niccolò Alaimo, il suo personaggio svolge un ruolo fondamentale, perché oltre a essere l’unico vero amico di Edhel è anche colui che le rivela la sua vera natura. Prima mi hai detto che hai sviluppato la  storia per archetipi, e allora ti chiedo di dirmi chi è Silvano.
Nonostante la presenza di Ermete, l’istruttore di equitazione (interpretato da Mariano Rigillo) che sembrerebbe svolgere la stessa funzione, Silvano è un vero e proprio Mentore, colui che accompagna la protagonista nel suo percorso di consapevolezza. Inoltre è l’artefice di una cosa meravigliosa. E’ lui, infatti, a far capire a Ginevra quanto le illusioni siano importanti per risolvere le cose reali. Ad un certo punto, quando nessuno riesce a trovarle la bambina, le dice che per cercarla deve credere di poterla trovare. L’illusione diventa dunque una cosa realissima. Silvano è un personaggio chiave in quanto portatore di questo messaggio. Nel film mi esprimo attraverso di lui.

Edhel ha le caratteristiche dei film della Pixar che si rivolgono ai giovani per parlare agli adulti. A questi ultimi il film ricorda le responsabilità del loro ruolo quando mette Ginevra nelle condizioni di ritrovare la propria figlia a patto che sia lei ad avvicinarsi alla ragazzina e non viceversa. Mi riferisco, in particolare, alla scelta di credere in qualche modo ai poteri magici di Caronte, il cavallo che in effetti gli permetterà di riabbracciare la figlia.
Sono contento che tu abbia letto il film in questa maniera perché corrisponde per filo e per segno alla mia idea della storia. Aggiungo solo che per Ginevra avvicinarsi alla figlia attraverso il cavallo rappresenta il superamento di certi blocchi legati all’elaborazione del lutto.

Le tue parole rafforzano la mia convinzione che sia proprio questo processo di ricomposizione famigliare a costituire il centro del film.
Sai una cosa, in realtà questo film sono stati in pochi ad averlo compreso. Cioè, che non sia un fantasy è chiaro, nel senso che utilizzo le convenzioni di genere in maniera tenera. Me ne servo in primis per far vedere come Edhel  per proteggersi dai suoi problemi provi ad affidarsi a qualcosa di diverso che forse non esiste. Anche se, non so se hai notato, quando lei chiede a Ermete se sia a conoscenza dell’esistenza di posti magici, lui fa un piccolo sussulto, come se in realtà sapesse qualcosa. Il dubbio quindi non viene sciolto.

Si, l’impressione è quella che Ermete sappia qualcosa ma preferisca tacere per proteggere la bambina. Come se la volesse preservare da qualcosa per cui non è ancora pronta.
Senza considerare che in questo modo mi sono lasciato aperta la possibilità di sviluppare il film in chiave fantasy attraverso una vera e propria serie. Sempre che riesca a trovare i  soldi.

Se così fosse procederesti mantenendo inalterate le due realtà o propenderesti per sviluppare solo una di queste.
Manterrei entrambe, alla maniera de Il labirinto del fauno. Il lungometraggio di Del Toro è la versione capolavoro del mio. In questo film il regista messicano mostra il mondo fantastico come se fosse vero. Ovviamente i miei non sono paragoni, ma solo dei riferimenti.

Tra l’altro sei stato bravo, perché non ti sei lasciato prendere dalla tentazione di rivelare troppo dell’altrove cui Edhel allude. Da questo punto di vista sarebbe stato più facile guadagnarti i favori del pubblico concedendo qualcosa in termini di spiegazioni o accadimenti.
Molti mi hanno sconsigliato di andare sia in un senso che nell’altro. Alcuni poi mi dicevano che la fatina dorata che si vede verso la fine del film sarebbe stato meglio toglierla perché in Italia una cosa del genere non avrebbe funzionato. Te ne parlo per dire che non condivido questo tipo di atteggiamento in quanto presuppone una mancanza di creatività e d’immaginazione che in realtà sono parte integrante della nostra cultura. Nel 2015 arrivai nella cinquina dei globi d’oro con un corto molto perturbante che raccontava di una ballerina alla maniera di M. Night Shyamalan. Ebbene, era l’unico corto che non puntava sul sociale, tanto per dire quanto sia difficile imporre un linguaggio diverso da quello dominante.

Tra l’altro, a proposito di sociale, Edhel non risparmia attenzione alla problematicità della condizione umana che è ritratta in maniera molto dura. Se la morte non fa sconti neanche all’infanzia e a scuola è il bullismo a farla da padrone, quando il campo di indagine si allarga la situazione diventa anche peggiore: definizioni come quelle fatte a proposito della “gente che parla tanto per non dire mai niente” e la “generazione di perdenti” riferita ai compagni di classe di Edhel non lasciano molto spazio all’ottimismo.
Il quadro generale non è dei migliori, soprattutto per quanto riguarda le istituzioni, assenti e per lo più incapaci di comprendere. Al di là di questo sono convinto che per fare cinema sociale devi essere un autore preparato e con le spalle larghe. Rispetto a molti miei coetanei sono dell’idea che prima di cimentarsi in film di questo tipo ci voglia la necessaria esperienza.

Senza considerare che avventurarsi in questo territorio implica il rischio di essere ripetitivi per il fatto di non aggiungere nulla a ciò che è stato già detto sulla periferia e sulla vita di borgata.
La scelta di Roberta è stata fatta anche per questo. Lei ha girato Non essere cattivo, uno dei film più belli che abbia mai visto. Volevo metterla in una condizione difficile e farla parlare di elfi e di magia, un terreno opposto a quelli a cui è abituata.

Tu sei il primo che ha dato a Roberta Mattei un ruolo da protagonista, e lo fai con un personaggio non facile da gestire, poiché Ginevra è il punto di equilibrio tra opposti: quelli che risalgono al suo ruolo di genitore, in cui maschile e femminile si alternano nel tentativo di compensare la mancanza della figura paterna, e quelli che stanno alla base della dialettica tra realtà e fantasia attorno cui ruota la storia. È lei l’elemento equilibratore tra fede e miscredenza.
Assolutamente, soprattutto nel finale, quando deve accettare che la figlia sia scappata in un mondo alternativo. In questo connubio tra realtà e immaginazione c’è anche l’augurio che i film neo neo realisti prima o poi possano abbracciare il fantastico. Accettare di farlo da parte di Roberta che fa parte delle nuove grandi leve del cinema italiano meno accomodante mi ha emozionato tanto. E’ un’interprete di grande spessore che stimo infinitamente.

Sei stato bravo a offrirglielo cosi come lei lo è stata ad accettare. Parlavo di valorizzazione di talenti. Lei ha già un nome, ma questo film l’aiuta a uscire fuori da un certo stereotipo con cui alcune produzioni potrebbero considerarla. Come avete lavorato per farle entrare nel ruolo di Ginevra.
Di solito si fa una lunga sessione di prove. Con lei invece abbiamo deciso da subito di trovare il suo personaggio giorno per giorno. Ogni volta pronti a lavorare sulla battuta, cercando di capire cosa tagliare, e cosa invece aggiungere. E’ stato un lavoro minuzioso, ogni parola doveva essere calcolata perché se no si rischiava di esagerare.

Io Roberta ho avuto l’opportunità di intervistarla subito dopo l’uscita di Non essere cattivo, e quindi oltre alla bravura ho potuto apprezzare la meticolosità con cui interpreta i suoi personaggi.
Lei vuole giustamente il controllo di quello che succede, però siamo riusciti ad affrontare assieme ogni situazione che si veniva a creare sul set. Entrambi volevamo la stessa cosa e questa è stata la chiave di volta.

La somiglianza tra Gaia Forte e Roberta Mattei è sorprendente. Sembrano davvero madre e figlia. Come hai fatto a trovare l’interprete di Edhel.
E’ stata una questione di fortuna. Detto questo, sono grato che sia accaduto perché ha reso più verosimile la storia. Gaia l’ho trovata per caso quattro anni fa a seguito dell’annuncio che avevo fatto per  realizzare il trailer che mi serviva per presentare il mio progetto ai potenziali finanziatori.

A un certo punto il televisore trasmette una sequenza di Cat People, capolavoro noir di Jacques Tourneur. La citazione non mi sembra casuale. Anche in quel caso siamo di fronte a un personaggio destinato a scoprire la sua vera indole attraverso il confronto con una dimensione magica dell’esistenza. Inoltre vi si ritrova un’idea di regia in cui ciò che non si vede ha forse più importanza di quello che scorre davanti ai nostri occhi.
La scena della piscina dove cade Edhel al termine della festa è nata da quel film. Nell’inserto di Cat People vediamo Simone Simon spaventata dalle ombre della pantera e dal ruggito che si confonde con la frenata dell’autobus. Tutti questi sono elementi che pur ridimensionati si possono ritrovare in Edhel: la voce degli Elfi che parlano alla protagonista e, più in generale, l’ambiguità che non consente allo spettatore di capire se la percezione della bambina sia reale o solamente la reazione alle proprie ansie sono concetti presenti anche nel film di Tourneur.

Per concludere volevo chiederti il titolo di qualche film o regista che preferisci.
Di italiani te ne posso dire ben pochi, tra questi c’è Non essere cattivo. Poi ti sorprenderà, ma uno dei miei film preferiti degli ultimi anni è Shame di Steve McQueen, che per me è un capolavoro. Ancora Il cigno nero e The Wrestler di Darren Aronofsky. In generale sono esterofilo e mi piace il cinema americano più impegnato. Evito di citare i soliti nomi perché è scontato dire Truffaut, Malle etc, perché sono delle pietre miliari della settimana arte.
Carlo Cerofolini
(pubblicata su taxidrivers.it)