Il ponte delle spie
di Steven Spielberg
con Tom Hanks, Mark Ryalance, Amy Ryan, Alan Alda
Usa, 2015
genere, drammatico
durata,
Della sua capacità di fare cinema già sapevamo così come della particolare predisposizione a ragionare in termini di immagini e di macchina da presa che, nelle sue mani, diventano una specie di estensione della persona. La scommessa invece, quella di cui molti dubitavano, era legata alle capacità di Steven Spielberg di adattare il proprio cinema al trascorrere del tempo e, di conseguenza, alla necessità di confrontarsi con temi e argomenti per così dire più maturi di quelli proposti nella prima parte di carriera. “Il ponte delle spie” ancora più di “Munich” e “Lincoln” è la conferma di una crescita artistica e personale che ha portato il regista americano ad occuparsi della contemporaneità del suo paese in un modo che, ancora una volta, dimostra l’intelligenza dell’uomo prima ancora che del regista. A prima vista infatti il suo nuovo lavoro è figlio di diverse influenze che trovano visibilità in un cinema di genere fortemente caratterizzato in termini di ricostruzione storica – siamo negli anni della guerra fredda e alla vigilia della costruzione del muro di Berlino che avrebbe acuito le ostilità tra Russia e Stati Uniti – e di immaginario cinematografico, laddove il personaggio di James Donovan (un grande Tom Hanks), - avvocato di grido incaricato dal governo del suo paese di occuparsi in prima persona di trattare lo scambio tra Rudolf Abel (Mark Ryalance che con questa interpretazione si candida per l’Oscar), una sedicente spia russa e il tenente Powers, pilota dell’aviazione statunitense abbattuto e catturato nel corso di un’operazione di intelligence per conto della Cia – pur essendo quanto di più diverso per interessi e cultura dalla figura di agente segreto così come abbiamo imparato a conoscerlo sullo schermo, finisce per esserne comunque una variante della stessa matrice.
In questo caso però il modello di riferimento non è quello desunto da figure istituzionali come quelli a suo tempo interpretate da Michael Caine (Ipcress) o venendo ai nostri giorni dal Gary Oldman de “La talpa” perché Spielberg memore della lezione della New Hollywood e così come succedeva all’Harry Caul de “La conversazione” al Joseph Turner de “I tre giorni del condor”, sceglie di mettere al centro della vicenda la storia di un uomo qualunque che per caso si trova a confrontarsi con una realtà più grande di lui.
E proprio al concetto di cinema che caratterizzò il nuovo cinema americano agli inizi degli anni 70 si rifà “Il ponte delle spie”, che oltre a essere attivo sul piano commerciale con una confezione che fa riflettere senza penalizzare l’intrattenimento e lo spettacolo (valga per tutti la sequenza ambientata a Berlino Est in cui ci viene mostrato il percorso a ostacoli che separa Donovan dal luogo dell’appuntamento con l’interlocutore sovietico si mantiene costantemente a misura d’uomo, rinunciando persino alla grandeur della ricostruzione d’epoca, che pure esiste seppure più in senso evocativo più che paesaggistico, pur di rimanere attaccato ai corpi e alle facce dei protagonisti, a ribadire la preminenza di quel fattore umano che non a caso uno dei cavalli di battaglia dell’epoca che precedette il fenomeno dei blockbuster e che oggi Spielberg tiene alto con il suo umanesimo cinematografico. Sceneggiato nientemeno che dai fratelli Coen, “Il ponte delle spie” si avvale di un perfetto bilanciamento della sua struttura narrativa che pur divisa in due sezioni di diversa ambientazione (la prima a New York, la seconda a Berlino) e fenomenologia cinematografica (con la prima parte che potrebbe essere un legal movie e la seconda una spy story) trova la sua continuità proprio nella progressione psicologica compiuta dal protagonista che forte dei suoi principi morali (“Un uomo tutto d’un pezzo” come lo definiscel Abel), riesce ad essere credibile sia nelle aule dei tribunali che nelle stanze del potere. Quanto poi a rispolverare i fatti della Storia per riflettere su quelli dei nostri giorni “Il ponte delle spie” è la dimostrazione dell’intelligenza del regista che lascia da parte la parte più fanciullesca ma non rinuncia alla sua fervida fantasia pronta a trovare sfogo (ed è questa la svolta del cinema di Spielberg che non a caso dirige sempre film in costume) nell’immaginazione di mondi che non esistono più e che il nostro riesce a resuscitare con l’abilità di uno sciamano. Anche solo per questo il film merita un posto tra i migliori titoli della stagione.
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