Vergine giurata
di Laura Bispuri
con Alba Rohrwacher, Flonja Kodheli, Emily Ferratello, Lars Eidinger
Italia, 2015
genere, drammatico
durata, 90'
Abituato a raccontarsi all'interno dei confini nazionali, il cinema italiano negli ultimi anni è attraversato da una necessità di cambiamento che interessa tanto il sistema produttivo, con progetti nati sulla scia di nuove forme di sovvenzionamento e di distribuzione (pensiamo allo streaming on demand e al crowdfunding), quanto la sua genesi narrativa, sempre più propensa a occuparsi di storie che enfatizzano la trasformazione attraverso continue fughe dalla terra natia. Soffermandosi su quest'ultimo aspetto e tralasciando gli esempi, peraltro numerosissimi, riconducibili alla commedia italiana più recente che ha fatto del "movimento logistico" il volano di ogni intreccio ("Sei mai stata sulla luna?" ne è solo il modello più recente) la ricerca di nuovi spazi vitali ha dato vita a una sorta di osmosi geografica e antropologica, resa tale dai movimenti da e verso il nostro paese. Se la fuga dall'Italia coincide quasi sempre con motivi di ordine esistenziale, come accade in "Un giorno devi andare" di Giorgio Diritti e in parte in un film "leggero" come "Viaggio da sola" di Maria Sole Tognazzi, la presenza straniera nella nostra penisola nasce molto spesso da vicissitudini di tipo economico, legate al fenomeno migratorio che ha investito l'intero continente.
In un contesto che abbraccia entrambe le possibilità si inserisce "Vergine giurata", dell'esordiente Laura Bispuri che, rifacendosi all'omonimo libro di Elvira Dones, narra le vicende di una ragazza albanese (Alba Rohrwacher), costretta dalla legge del Kanun -praticata nelle zone più remote di quel paese- , a rinunciare alla propria femminilità per acquisire gli stessi diritti della compagine maschile. E, contemporaneamente, dopo la morte dei genitori adottivi, della decisione di Hana (diventata nel frattempo Mark) di trasferirsi in Italia per ritrovare la sorella e forse se stessa.
La Bispuri, pur assegnando alla sua protagonista una condizione di sofferenza e di subordinazione appartenente alla maggior parte dei clandestini che sbarcano ogni giorno sulle nostre coste, evita di consegnarsi alla scelta più facile e remunerativa dal punto di vista empatico. Così, benché la regista non risparmi nulla degli aspetti più crudi della cultura albanese, arrivando a toccare momenti di puro cinema antropologico nella scena del funerale, con le donne in secondo piano e gli anziani del villaggio a guidare la cerimonia, a ribadire l'assoluta supremazia della componente maschile, "Vergine giurata" evita di stigmatizzare quelle usanze ed anzi, attraverso il rispetto di Mark nei confronti del padre padrone, si accosta a quel mondo in punta di piedi e con una delicatezza che stempera in qualche modo la violenza di quei comportamenti. Ma non solo, perché liberando il film da qualsiasi tipo di ricatto terzomondista, e lasciando che a parlare sia la fisicità dei suoi protagonisti, la regista riesce a trasformare l'intera vicenda in qualcosa di diverso ed eccezionale. Da una lato, esplorando la realtà con "un'estraneità" derivata in parte dall'adozione del punto di vista di Mark/Hana, in parte dalla scelta di precludere l'ambiente italiano a una riconoscibilità topografica e folkloristica; dall'altra, trasformando "Vergine giurata" in un percorso di liberazione tutto al femminile, che coinvolge in una sorta di reciproco soccorso anche Iolanda, la figlia italiana di Lila, la sorella di Mark, a testimonianza di una condizione, quella della donna, che è universale e non legata ad alcun particolarismo.
La Bispuri utilizza una tecnica mista, che prende molto dal cinema del reale (oltre allo stile di ripresa e al rispetto delle location, efficace e coraggiosa è la scelta di far parlare Mark in lingua albanese), senza rinunciare a momenti di lirismo che prendono forza dall'assoluta veridicità di ciò che vediamo. A cominciare dalle suggestioni indotte dagli inserti dedicati al rapporto tra la protagonista e il ragazzo conosciuto in piscina, in cui l'istintualità violenta e rapace dei personaggi sottolinea la volontà di liberarsi da qualsiasi tipo di condizionamento o sovrastruttura. Oppure, nelle due scene, quella delle ragazze che urlano di gioia, schiamazzando sotto i portici, e nella ripresa subacquea, con la soggettiva sulle gambe in movimento delle atlete di nuoto sincronizzato, in cui le pulsioni sessuali di Mark vengono anticipate dalla spontaneità di quelle esternazioni. Contribuisce al risultato una straordinaria Alba Rohrwacher, capace di calarsi nel ruolo con immedesimazione da Actors Studio. Il resto del cast, formato anche da attori alla prima esperienza non gli e' da meno, a conferma di una bontà complessiva davvero sopra la medi.
(pubblicata su ondacinema.it)
di Laura Bispuri
con Alba Rohrwacher, Flonja Kodheli, Emily Ferratello, Lars Eidinger
Italia, 2015
genere, drammatico
durata, 90'
Abituato a raccontarsi all'interno dei confini nazionali, il cinema italiano negli ultimi anni è attraversato da una necessità di cambiamento che interessa tanto il sistema produttivo, con progetti nati sulla scia di nuove forme di sovvenzionamento e di distribuzione (pensiamo allo streaming on demand e al crowdfunding), quanto la sua genesi narrativa, sempre più propensa a occuparsi di storie che enfatizzano la trasformazione attraverso continue fughe dalla terra natia. Soffermandosi su quest'ultimo aspetto e tralasciando gli esempi, peraltro numerosissimi, riconducibili alla commedia italiana più recente che ha fatto del "movimento logistico" il volano di ogni intreccio ("Sei mai stata sulla luna?" ne è solo il modello più recente) la ricerca di nuovi spazi vitali ha dato vita a una sorta di osmosi geografica e antropologica, resa tale dai movimenti da e verso il nostro paese. Se la fuga dall'Italia coincide quasi sempre con motivi di ordine esistenziale, come accade in "Un giorno devi andare" di Giorgio Diritti e in parte in un film "leggero" come "Viaggio da sola" di Maria Sole Tognazzi, la presenza straniera nella nostra penisola nasce molto spesso da vicissitudini di tipo economico, legate al fenomeno migratorio che ha investito l'intero continente.
In un contesto che abbraccia entrambe le possibilità si inserisce "Vergine giurata", dell'esordiente Laura Bispuri che, rifacendosi all'omonimo libro di Elvira Dones, narra le vicende di una ragazza albanese (Alba Rohrwacher), costretta dalla legge del Kanun -praticata nelle zone più remote di quel paese- , a rinunciare alla propria femminilità per acquisire gli stessi diritti della compagine maschile. E, contemporaneamente, dopo la morte dei genitori adottivi, della decisione di Hana (diventata nel frattempo Mark) di trasferirsi in Italia per ritrovare la sorella e forse se stessa.
La Bispuri, pur assegnando alla sua protagonista una condizione di sofferenza e di subordinazione appartenente alla maggior parte dei clandestini che sbarcano ogni giorno sulle nostre coste, evita di consegnarsi alla scelta più facile e remunerativa dal punto di vista empatico. Così, benché la regista non risparmi nulla degli aspetti più crudi della cultura albanese, arrivando a toccare momenti di puro cinema antropologico nella scena del funerale, con le donne in secondo piano e gli anziani del villaggio a guidare la cerimonia, a ribadire l'assoluta supremazia della componente maschile, "Vergine giurata" evita di stigmatizzare quelle usanze ed anzi, attraverso il rispetto di Mark nei confronti del padre padrone, si accosta a quel mondo in punta di piedi e con una delicatezza che stempera in qualche modo la violenza di quei comportamenti. Ma non solo, perché liberando il film da qualsiasi tipo di ricatto terzomondista, e lasciando che a parlare sia la fisicità dei suoi protagonisti, la regista riesce a trasformare l'intera vicenda in qualcosa di diverso ed eccezionale. Da una lato, esplorando la realtà con "un'estraneità" derivata in parte dall'adozione del punto di vista di Mark/Hana, in parte dalla scelta di precludere l'ambiente italiano a una riconoscibilità topografica e folkloristica; dall'altra, trasformando "Vergine giurata" in un percorso di liberazione tutto al femminile, che coinvolge in una sorta di reciproco soccorso anche Iolanda, la figlia italiana di Lila, la sorella di Mark, a testimonianza di una condizione, quella della donna, che è universale e non legata ad alcun particolarismo.
La Bispuri utilizza una tecnica mista, che prende molto dal cinema del reale (oltre allo stile di ripresa e al rispetto delle location, efficace e coraggiosa è la scelta di far parlare Mark in lingua albanese), senza rinunciare a momenti di lirismo che prendono forza dall'assoluta veridicità di ciò che vediamo. A cominciare dalle suggestioni indotte dagli inserti dedicati al rapporto tra la protagonista e il ragazzo conosciuto in piscina, in cui l'istintualità violenta e rapace dei personaggi sottolinea la volontà di liberarsi da qualsiasi tipo di condizionamento o sovrastruttura. Oppure, nelle due scene, quella delle ragazze che urlano di gioia, schiamazzando sotto i portici, e nella ripresa subacquea, con la soggettiva sulle gambe in movimento delle atlete di nuoto sincronizzato, in cui le pulsioni sessuali di Mark vengono anticipate dalla spontaneità di quelle esternazioni. Contribuisce al risultato una straordinaria Alba Rohrwacher, capace di calarsi nel ruolo con immedesimazione da Actors Studio. Il resto del cast, formato anche da attori alla prima esperienza non gli e' da meno, a conferma di una bontà complessiva davvero sopra la medi.
(pubblicata su ondacinema.it)
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