Babadook
di Jennifer Kent
con Essie Davis, Noah Wieseman
Australia, 2014
genere, horror
durata, 89'
Opera prima dell'australiana Jennifer Kent, Babadook si presenta subito come un film tecnicamente ineccepibile. La scelta di utilizzare una costruzione narrativa “tradizionale” non solo non toglie nulla al risultato finale, ma anzi mostra ancora una volta come l'horror possa essere un filone ancora ricco quando affiancato da una corretta costruzione della tensione. La figura del Babadook, l'uomo nero, l'incarnazione stessa di quella che Lovecraft definiva “la più antica e potente emozione umana”, rimane onnipresente, sorta di rappresentazione – deliberatamente solo suggerita – di una possibile chiave di lettura metafilmica sottesa che permette all'opera di raggiungere un livello ancora ulteriore, superando forse anche horror di certo ben confezionati come quelli di Wan.
La paura non è relegata agli sporadici momenti di catarsi che accompagnano l'arrivo della creatura, ma è affidata all'atmosfera, trasmessa da un'ambientazione resa ancor più disturbante dalla spietata fotografia e dagli stessi protagonisti, non più semplici vittime ma ingranaggi stessi della costruzione del sentimento di terrore.
La vicenda ha inizio con la scoperta di un particolare libro di favole che ha al centro il Babadook, figura assimilabile all'uomo nero, che spaventa il già-particolarmente-sensibile Samuel – credibilissimo nonostante la giovane età – che coinvolge la madre in una reciproca autosuggestione che va ad annidarsi in quell'angolo buio della mente qui raffigurato allegoricamente come lo scantinato della casa, aggiungendosi al trauma per la morte del marito (avvenuta durante la corsa in ospedale per il parto) e all'esaurimento psico-fisico causato dallo stress di un figlio “difficile” da dover gestire in solitudine.
Alla progressiva e crescente “incarnazione” del Babadook si unisce il degenerare della psiche già fragile della donna, logorata da un figlio problematico che “dice sempre quello che pensa”, fino al punto in cui la casa, che da rifugio sicuro diventa presto la claustrofobica rappresentazione filmica del luogo chiuso per eccellenza – e meta-filmica della mente della donna? -, non si rivela come il mezzo stesso che conduce all'alienazione, raffigurata attraverso i dettagli: il lento deformarsi delle stanze e la comparsa degli scarafaggi, l'insetto-simbolo legato all'oscurità e al Babadook stesso.
Un horror costruito in modo impeccabile, capace di restituire non i classici spaventi occasionali ma un costante senso di ansia, comunicato con eleganti e calcolati effetti di regia che – senza dover ricorrere a biechi trucchetti – riescono a rendere significativo e disturbante anche un semplice cappotto appeso al muro.
Il lungo studio che precede ogni singola scelta di regia e scrittura fa sì che nulla sia sprecato o lasciato al caso – i programmi visti alla televisione dai personaggi sono raffinatissime citazioni al cinema muto, quello a cui la regista ha dichiarato di ispirarsi - , ogni scena è kubrickianamente indispensabile, e anzi si trova anche lo spazio narrativo per lasciar convivere tra loro una molteplicità di interpretazioni differenti, che lasciano lo spettatore interdetto quando si arriva all'incredibile finale.
Michelangelo Franchini
di Jennifer Kent
con Essie Davis, Noah Wieseman
Australia, 2014
genere, horror
durata, 89'
Opera prima dell'australiana Jennifer Kent, Babadook si presenta subito come un film tecnicamente ineccepibile. La scelta di utilizzare una costruzione narrativa “tradizionale” non solo non toglie nulla al risultato finale, ma anzi mostra ancora una volta come l'horror possa essere un filone ancora ricco quando affiancato da una corretta costruzione della tensione. La figura del Babadook, l'uomo nero, l'incarnazione stessa di quella che Lovecraft definiva “la più antica e potente emozione umana”, rimane onnipresente, sorta di rappresentazione – deliberatamente solo suggerita – di una possibile chiave di lettura metafilmica sottesa che permette all'opera di raggiungere un livello ancora ulteriore, superando forse anche horror di certo ben confezionati come quelli di Wan.
La paura non è relegata agli sporadici momenti di catarsi che accompagnano l'arrivo della creatura, ma è affidata all'atmosfera, trasmessa da un'ambientazione resa ancor più disturbante dalla spietata fotografia e dagli stessi protagonisti, non più semplici vittime ma ingranaggi stessi della costruzione del sentimento di terrore.
La vicenda ha inizio con la scoperta di un particolare libro di favole che ha al centro il Babadook, figura assimilabile all'uomo nero, che spaventa il già-particolarmente-sensibile Samuel – credibilissimo nonostante la giovane età – che coinvolge la madre in una reciproca autosuggestione che va ad annidarsi in quell'angolo buio della mente qui raffigurato allegoricamente come lo scantinato della casa, aggiungendosi al trauma per la morte del marito (avvenuta durante la corsa in ospedale per il parto) e all'esaurimento psico-fisico causato dallo stress di un figlio “difficile” da dover gestire in solitudine.
Alla progressiva e crescente “incarnazione” del Babadook si unisce il degenerare della psiche già fragile della donna, logorata da un figlio problematico che “dice sempre quello che pensa”, fino al punto in cui la casa, che da rifugio sicuro diventa presto la claustrofobica rappresentazione filmica del luogo chiuso per eccellenza – e meta-filmica della mente della donna? -, non si rivela come il mezzo stesso che conduce all'alienazione, raffigurata attraverso i dettagli: il lento deformarsi delle stanze e la comparsa degli scarafaggi, l'insetto-simbolo legato all'oscurità e al Babadook stesso.
Un horror costruito in modo impeccabile, capace di restituire non i classici spaventi occasionali ma un costante senso di ansia, comunicato con eleganti e calcolati effetti di regia che – senza dover ricorrere a biechi trucchetti – riescono a rendere significativo e disturbante anche un semplice cappotto appeso al muro.
Il lungo studio che precede ogni singola scelta di regia e scrittura fa sì che nulla sia sprecato o lasciato al caso – i programmi visti alla televisione dai personaggi sono raffinatissime citazioni al cinema muto, quello a cui la regista ha dichiarato di ispirarsi - , ogni scena è kubrickianamente indispensabile, e anzi si trova anche lo spazio narrativo per lasciar convivere tra loro una molteplicità di interpretazioni differenti, che lasciano lo spettatore interdetto quando si arriva all'incredibile finale.
Michelangelo Franchini
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