Straight Outta Compton
di F. Gary Gray
con Paul Giamatti, Neil Brown, Jr., Aldis Hodge, Jason Mitchell, Corey Hawkins
Usa, 2015
genere, biografico, drammatico, musicale
durata, 147'
Nella complessa struttura che compone la società americana, tutto sembra mosso da infinite contraddizioni - storiche, politiche, culturali – che ne evidenziano l’estremo paradosso. In questa applicazione solerte dell’antinomia che nutre il progredire degli U.S.A., posando la lente d’ingrandimento sul periodo a cavallo tra il termine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90, non si può non prestare attenzione a ciò che gli N.W.A. - i cui componenti sono i padri del gangsta rap: la sigla/nome del gruppo, per dirne una, per esteso suonerebbe “Niggaz With Attitudes” - hanno rappresentato in quel momento storico ancor prima che musicale.
“Straight outta compton”, titolo del loro album più famoso, ha quindi come intento quello di individuare i punti chiave che hanno portato i ragazzi negri della west coast a porre il rap come un mezzo neo-realista per riportare e descriverne la vita di strada all’insegna di micro-criminalità e tutto ciò che ne consegue; non a caso uno dei brani più famosi è intitolato “Fuck tha police”: soffermandosi più volte infatti sulla violenza usata dagli agenti (in particolar modo quelli losangelini) nei confronti della comunità nera, il film segnala come gli States abbiano affrontato in malomodo, tra le tante, la questione blackness (ne abbiamo testimonianza anche nel recentissimo, per realizzazione ed ambientazione, “Fruitvale Station”). Se è dunque ottima la perspicacia e la collocazione dell’opera, la durata – oltre due ore – non è sfruttata per approfondire i personaggi, che restano stereotipati nella narrazione trita e ritrita dell’ascesa/discesa traducibile in scalata-al-successo/decadenza, mentre restano interessanti alcune scelte di regia, in particolare i piano-sequenza che spesso seguono di spalle l’andare dei protagonisti e, ovviamente, le scelte musicali.
L’importanza di “Straight outta compton” è, in primo luogo, al di là delle pecche prettamente filmiche, di mostrare gli artisti hip-hop come una tra le tante voci provenienti dall’abisso del degrado americano; secondariamente - si veda, ad esempio, la quasi totalità della scena rap italiana - di mostrare la miopia e la superficialità con la quale quell’arte è stata trascinata al di fuori del proprio contesto culturale e, di conseguenza, totalmente annullata.
Antonio Romagnoli
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