Bangland
di Lorenzo Berghella
Italia, 2015-
genere, animazione
durata, 61'
"Most things decay in a matter of days/
The product is sold the memory fades".
- Porcupine Tree -
Per una volta in linea col proprio retro sapore amaro di lecca-lecca dozzinale avvoltolato in stagnola costosissima, la-società-dello-spettacolo (e, sul serio, sembra trascorso un milione di anni da quando il termine e' stato coniato) porta a compimento la somministrazione omeopatica del suo sinistro caramello e assume senza colpo ferire - ossia, nella rassegnazione delle coscienze, nello stagno immoto di un fatalismo depositatosi in strati infiniti di retorica e opportunismo - il controllo della scena: le masse illuse/anestetizzate tacciono e non comprendono o, che e' quasi lo stesso, tacciono perché non comprendono, accumulando un rancore indistinto che prima o poi troverà campo d'applicazione; i maggiorenti, al solito, temporeggiano, riservandosi la carta (chissà, tuttavia, ancora quanto vincente) di un'eventuale colpo di mano. Tutti gli altri, più o meno diligentemente, più o meno volontariamente, affondano nell'indifferenza e nell'esclusione, come non fosse già abbastanza miserabile il nostro gotterdammerung.
Orbitando - da un lato, in linea con una precisa coerenza d'intenti; dall'altro, esponendosi, per l'insistenza del suo slancio anti-consolatorio alle incognite di una qual programmaticita' sottesa ad un taglio cinico che non ammette repliche, seppur qua e la' innervata da tocchi di una beffarda ironia - attorno ad un nucleo filosofico e morale assemblato a partire da simili componenti, "Bangland", lavoro d'animazione di Lorenzo Berghella, presentato una manciata di settimane or sono all'ultimo festival lagunare, organizza un sapido, coloratissimo e iper-citazionista carnevale di mostri sul crinale oramai quasi intangibile che separa il racconto distopico circa scenari a vario titolo avvilenti relativi al futuro dei nostri giorni come società/comunità, dalla constatazione - allibita ? Disperata ? Inerte ? - che taluni di quegli esercizi prospettici stanno sempre più velocemente erodendo l'intervallo che li distanzia da una loro anticipata (quanto, invero, temuta ? E quanto - perché no - agognata ?) materializzazione, amplificando, di concerto e oltremisura, la quantomeno sconcertante sensazione di vivere/subire/contribuire a quella Fine-che-non-finisce-mai-di- finire (qui, fine della speranza nel futuro; fine dell'idea di collettività; fine della fiducia nella Scienza/Tecnica; fine dell'empatia di specie) che forse e', davvero, a questo punto, l'unico vero filo di sutura che tiene insieme le parti di quel corpo misterioso che in un soprassalto di pigrizia abbiamo battezzato modernità.
"Bangland", toponimo che riassume in una crasi felice l'attitudine divenuta coazione a ripetere irriflessa all'uso delle armi e i disfatti orizzonti di un mondo in avanzato stato di putrefazione secreti dai rimasugli della waste land eliotiana ("Città irreale/sotto la nebbia bruna di un'alba invernale/Una folla fluiva sul London Bridge, tanti/Ch'io non avrei creduto che morte tanti n'avesse disfatti"), allude ad un (non così) immaginario agglomerato a stelle e strisce - ridanciano e spietato, morigerato e laido, dove tutto sembra lecito e ogni cosa e' imperdonabile - esemplare tipico di un paese sempre più persuaso della propria iattanza di united states of unconsciuosness del pianeta, nel caso governato da un Presidente che si chiama Steven Spielberg ed e' Steven Spielberg, in quell'ottusa fissità alla lunga maligna che avevamo imparato a riconoscere come maschera preferita di un potere immodificabile quanto crudele perché, di fondo, idiota, dai tempi del super-sorridente Jimmy Carter serigrafato con spietata aderenza da Bill Sienkiewicz a cavallo degli anni '80. Sullo sfondo di locali che ammiccano da scritte come Natural born stripper; un corpo di Polizia che usa l'acronimo BADP; insegne pubblicitarie che lavorano subliminalmente a colpi di In gold we trust; sit-com che ripetono lazzi del tipo "Chi salverà il mondo dall'America ?" o "Papa', perché siamo cristiani ?", "Non c'ho mai pensato. Deve essere una tradizione di famiglia", si muove una fauna umana giunta al punto di non ritorno di un suo speciale processo di eutrofizzazione. Nello spazio comune dominato dalla comunicazione permanente, si agitano, senza mai incontrarsi bensì alla merce' di una non così remota possibilità di elidersi a vicenda, scaltri autori televisivi, predicatori subdoli col volto perplesso di Bill Murray: un Bugs Bunny tossico insolvente. E attivisti politici, poliziotti alla deriva e sbirri da strada razzisti; giornalisti corrotti, mafiosi scorsesiani, preti furenti incoraggiati nel loro fervore oracolare da un ghigno artefatto a meta' strada fra il Joker batmaniano e il Rorschach di "Watchmen". E ancora: cloni da karaoke di Elvis, candidati democratici alla presidenza dalle iniziali affini a quelle di JFK (JRK) ma dal medesimo destino, schegge impazzite in odor di strage per disturbo post-traumatico da stress, ragazzini inebetiti da Tv e pornografia ostaggi perenni d'insani appetiti e, su tutto, l'angoscia terroristica (qui estremizzata nell'abbattimento della Statua della Libertà) usata come randello propagandistico sull'opinione pubblica interna allo scopo d'incistare ancora più a fondo l'eterna angustia del complotto e come casus belli per muovere in armi contro un remoto paese africano...
Come si vede, una mole consistente di materiali e suggestioni che, inevitabilmente, si potrebbe dire, corre il rischio di porre ogni cosa su un medesimo piano di condanna, stemperandosi, via via, di fatto, in una sorta di onnicomprensivo negativismo auto-disinnescantesi per saturazione. E' pur vero, altresì, che Berghella limita la predetta deriva organizzando la costruzione delle scene - spesso e volentieri essenziali, ritmate e brutali - come un crescendo entro cui il cortocircuito stabilitosi tra una realtà devastata dall'avidità e dall'invadenza della Tecnologia sotto la peculiare forma del mezzi di comunicazione (tutto sembra la rimasticatura caotica di un unico gigantesco film a cui, al tempo, si partecipa e si fa da spettatori) e la prevalenza di un nuovo ordine addirittura allegorico nel suo sistematico rimando alle icone/spettri dell'immaginario di massa, si fonda su una logica tanto inesorabile quanto sinistra: il Presidente Spielberg che osserva soddisfatto le fasi terminali dell'addestramento dell'ennesimo super soldato o l'esecutore che sovrappone i suoi incubi di redenzione a stralci di film d'azione in rotazione indefessa su schermi orwellianamente sempre accesi, parlano, infatti, di un inconscio brutalizzato e in potenza pericoloso (oltreché, per certi versi, irrecuperabile) che ormai e', senza alcun dubbio e da tempo, in circolo dentro le fibre nervose del generico uomo-della-strada, ossia dentro di noi e si assuefà, un giorno via l'altro, ad ipotesi sempre più contorte e truci (attentati gratuiti e oltremodo efferati; guerre più di sterminio che di conquista, colpi di Stato terapeutici: impensabili agenti biologici magari già all'opera chissà dove) in teoria utilizzabili dal Potere come ovvio strumento di coercizione ma dalle quali questo stesso Potere, allo stato attuale, non e' affatto immune. Se a ciò si aggiunge la scelta stilistica di privilegiare in contrasto con volti umani di preferenza grigi o d'incarnato terreo, cromie semi-fluorescenti od elettriche, sempre impercettibilmente in movimento, a sfalsare di un niente, rendendola pero' vieppiù grottesca, l'apparenza del quotidiano, ecco che diventa più chiara - sebbene non meno disperante (e a nulla servono, nel finale, le note dell'"Ave Maria" schubertiana, anzi) - questa che e', alla fin fine, una fotografia disegnata (e degradata) di noi stessi, talmente, forse, inevitabile, da non avere più margini nemmeno per invecchiare. Sic transit...
TFK
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