Diverge
di James Morrison
con, Ivan Sandomire, Erin Cunningham, Jamie Jackson, Andrew Sansenig, Chris Henry Coffey
USA 2016
genere, fantascienzadurata, 95’
Some are quick
to take the bait
and catch the perfect prize
that waits among the shelves
- America -
to take the bait
and catch the perfect prize
that waits among the shelves
- America -
Magari c’è davvero poco da fare. Il futuro che ci stiamo preparando - con buona pace dell’ottimismo programmatico e furbastro che ogni giorno viene somministrato con zelo fin troppo insistito per non essere almeno sospetto - non è che un miserabile inganno malamente dissimulato a base di armonia e prosperità, in realtà uguale in tutto e per tutto a una desolazione uniforme e senza fine.
Rimarrebbe troppo elusiva, altrimenti, la perseveranza con cui una parte del Cinema odierno (quella che per abitudine continuiamo a definire fantascientifico o del futuribile ma che, forse, dovremmo seriamente cominciare a considerare come spia rivelatrice di qualcosa che già preme negl’interstizi della Modernità arrivando a lambire l’equilibrio stesso delle condizioni che garantiscono la nostra permanenza sul pianeta) sviluppa il proprio discorso per immagini a partire da una visione pressoché unanimemente poco incline a illustrare il destino della stirpe sapiens se non entro i contorni scoraggianti d’un’eventualità oltremodo sofferta/residuale o, tout court, tragica.
La vicenda di Chris/Sandomire, ricercatore e Anna/Cunningham, sua moglie, solitari e raminghi sopravvissuti nelle smorte vastità sabbiose d’una contemporaneità prossima devastata dal dilagare di un virus pandemico dall’origine non così misteriosa come sembrerebbe, s’allinea, infatti e quasi senza attrito, in questo “Diverge” di Morrison - pacata e mesta anabasi - alla nutrita compagine di scampoli d’umanità che con le proprie illusioni infrante abita il corpo afflitto di opere nel complesso - e al di là della loro riuscita - come incredule e stanche, talvolta astiose ma per lo più spossate, a testimonianza d’una comune perplessità lasciata senza risposta, del rammarico tardivo per un azzardo giocato con jolly falsi rispetto al protervo avventurismo idolatrato dal (nostro) presente nella forma di una suasiva (perché unanime) allucinazione globale. Chris, nei peripli a vuoto tra le piatte immensità silenti sugli sfondi delle quali, sfalsate da una prospettiva a perdita d’occhio, di tanto in tanto, s’intravedono nere colonne di fumo provenienti da ciò che resta di metropoli in rovina, cura con amore e dedizione sfiniti la sua giovane donna, il cui stadio d’infezione avanzato cerca di contrastare con la somministrazione di un composto ottenuto dal tritato dei fiori lilla d’una particolare pianta, oggetto di studio e promettente ipotesi di contrasto al morbo quando esso, tempo prima, non aveva ancora compiuto il salto di specie e l’incertezza del suo utilizzo oscillava tra le premure interessate dei potentati accademici e gli appetiti monopolistici di una grande multinazionale del farmaco. L’aleatorietà di tale rimedio, conseguenza anche delle esigue riserve del principio attivo vegetale, unito a un incontro casuale però rivelatore e metaforico, spingono l’estremo Odisseo, per quanto riluttante, a considerare poi non così folle (e infine, di fatto, a subirla) la scommessa di viaggiare nel tempo allo scopo di ribaltare l’inerzia di un sé stesso preso in mezzo tra una comunità scientifica vischiosa e sleale, la macchina industriale tanto rapace come pure indifferente alle conseguenze d’una logica supina - figurarsi - a scenari coincidenti con più che potenziali profitti colossali e l’imperativa ingiunzione a modificare con il proprio diverso agire il corso della Storia.
Costruito, nonostante gli scarti imposti dalle fratture temporali, sulla linearità riflessiva dell’apologo/monito, il film di Morrison trova il suo ubi consistam - tra riletture minimali di alcuni cliché di genere (l’uomo di scienza ferito negli affetti chiamato ad assumersi una responsabilità più grande del proprio orgoglio personale; la pervasività all’apparenza inarrestabile del virus come iperbole dello stato di disgregazione raggiunto da una consuetudine meramente utilitaristica che sola disciplina i legami all’interno di una comunità d’individui, et.), un cauto misoneismo di fondo e soluzioni stilistiche che compendiano suggestioni molteplici ma concordi tanto al campione prevalente d'un immaginario percorso da vibrazioni pre/post-apocalittiche riassumibile in un generico filone after-the-fall, quanto agli specifici umori di questo tentativo che ne profila una delle possibili rappresentazioni (gl’incarnati diafani, quasi infantili nel loro pallore, dei protagonisti, spesso colti nell’esitazione ravvicinata di un gesto o nella frenesia furtiva di una risoluzione; il cielo e la terra di domani stretti in una densa opacità pastello giocata sui grigi, sull’avorio lattiginoso e sui bruni, che spezza la continuità dei piani e dei punti di fuga generando un’inquieta sospensione in grado di proiettare - per esempio - il brulicare del formicaio umano per eccellenza, New York, prima della catastrofe, in una dimensione di dubbia verosimiglianza, d’inconsapevole attesa, d’ignara normalità) - nell’assorto sconcerto del suo sentimento prevalente, sorta di precipitato in cui la malinconia del passato, la cui dolcezza rimanda a momenti promettenti, a volte persino felici, si sfalda per aggrumarsi subito dopo in quella sempre aspra e avvilente del futuro.
TFK
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