domenica 3 aprile 2016

APPUNTI DI REGIA: A MARGINE DI AVE, CESARE DI JOEL E ETHAN COEN



In una filmografia ormai corposa, composta da innumerevoli cambi di registro, sembra che tutti i titoli dei registi del Minnesota possano rientrare sotto a un comune denominatore che i più amano definire coeniano. “Hail Caesar” dunque si colloca, per innumerevoli fattori, a conferma delle questione di cui sopra. Se è vero che a servizio della regia viene messa a disposizione una sceneggiatura non solo brillante ma ancor più del solito stratificata e intrisa di sottotesti come fosse una sorta di matrioska, la messinscena viene in ogni caso dotata di una propria autonomia andando a ricreare un universo – quello glamour della vecchia Hollywood –  di per sé autosufficiente e dunque impermeabile al mondo esterno. Tutto ciò avviene non solo grazie alla generosità degli attori (la lista di celebrità dell’Hollywood contemporanea che compone il cast vede comparire tra gli altri George Cloney, Scarlett Johansson, Jonah Hill, Channing Tatum) che si prestano totalmente alla natura scanzonata del racconto, ma anche per merito del reparto costumi –  in grado di creare un’iconografia rinnovata dalle ceneri di quello che i Coen rappresentano come  un bizzarro periodo morto –  e ancora per il lavoro fotografico che da un lato è partecipe nell’ironizzare su quel modo di fare cinema edulcorando i fittizi spezzoni di pellicola dell’epoca presenti nella narrazione e dall’altro tenendo insieme i differenti toni che vanno alternandosi nelle variazioni dello script. Da non sottovalutare, in ultimo, la presenza del cerchio come figura ormai ricorrente nel cinema del regista-a-due-teste, che in “Hail Caesar” vediamo riproposta nella figura reiterata dell’orologio  e nelle coreografie che vedono protagonisti Tatum e la Johansson – oltre ad alcuni elementi scenografici come le finestre a forma di oblò – e che nella precedente filmografia possiamo trovare ad esempio in maniera esplicita come nucleo centrale di “Mr. Hula hoop” - anche qui oltre all'oggetto centrale del narrato appare spesso l'immagine dell'orologio - o più velatamente nella struttura drammaturgica circolare del recente “Inside Llewin Davis”.
Antonio Romagnoli

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