mercoledì 12 agosto 2015

68 FESTIVAL DI LOCARNO - COSMOS

Cosmos
di Andrzej Zulawski
con Sabine Azéma, Jean-François Balmer, Jonathan Genet
Francia, 2015
genere, draamatico, surreale
durata, 103'


Il giovane Witold (Jonathan Genet) si rifugia in un piccolo paesino per studiare dopo aver fallito degli esami di diritto. Insieme a lui c'è il coetaneo Fuchs (Johan Libéreau), appena licenziatosi da una casa di moda parigina. I due alloggiano in una casa dove assistono a strani eventi e scorgono segni misteriosi: Witold vede subito un passerotto impiccato nel bosco, poi un pezzo di legno, macchie sui muri, rastrelli che indicano dei percorsi geometrici immaginari. Anche la famiglia ospite ha delle peculiarità: la padrona di casa Madame Voytis (Sabine Azéma) è sempre in uno stato emotivo sopra le righe che quando è all'apice la fa cadere in una trance momentanea; il marito Leon (Jean-François Balmer) produce tic verbali ed è soggetto a improvvisi impulsi ossessivo-compulsivi; la giovane domestica Catherette (Clémentine Pons) ha un labbro imperfetto a causa di un incidente e non vuole curarselo; Lena (Victória Guerra), figlia di Madame Voytis, appena sposata a un giovane architetto, è in un continuo stato bipolare, passando da momenti di pianto isterico a stati di euforia provocatrice che proietta su Witold, affascinato dalla sua bellezza.

Sono solo alcuni degli elementi del complesso e stratificato film del regista polacco Andrzej Zulawski, che torna al cinema dopo quindici anni dalla sua ultima opera "La fidélité", e presentato in prima mondiale al 68esimo Festival di Locarno. Tratto dall'omonimo ultimo romanzo dello scrittore Witold Gombrowicz, Zulawski scrive una sceneggiatura che in qualche modo resta fedele al testo innestando alcuni stilemi del cinema.

"Cosmos" è un giallo filosofico, dove la vittima è la comprensione della realtà che si è fatta frattale e il linguaggio - sia segnico che fonico - è uno strumento spuntato e imperfetto. Un trattato filosofico per immagini alla ricerca di senso in cui far implodere tutto l'universo culturale occidentale. Innanzi tutto il cinema con le continue citazioni esplicite a Pier Paolo Pasolini ("Teorema") e Steven Spielberg (oggetto di ironia da parte di Leon) o implicite, con i rimandi continui ai film di Luis Bunuel; al tono surrealista di "L'age d'or"; al finale ripetuto di "Tristana"; al personaggio doppio interpretato dalla stessa attrice di "Quell'oscuro oggetto del desiderio", qui rappresentato dalla cameriera Catherette e dalla parente Ginette; e soprattutto da "Il fascino discreto della borghesia" per la struttura di alcune sequenze intorno ai pranzi e cene che finiscono sempre male o l'intervento del prete raccolto sulla strada. L'operazione prosegue con un processo di innesto di letteratura surrealista, come gli elenchi di parole (recitati da Witold e Leon con primi piani insistiti), i calembour, le connessioni inconsce, i dettagli di animali (l'uccello, il gatto, i vermi, la lumaca sulla brioche durante la colazione di Witold, le mosche che fuoriescono dal prete nella sequenza finale del bosco, ecc...). Abbiamo poi una conduzione degli attori che si rifà al teatro dell'assurdo e quindi a una recitazione razionale e naturalistica ne subentra una espressionistica e irrazionale, all'interno di dialoghi dove la logica è assassinata (un omicidio dell'immanenza per arrivare a un sorta di trascendenza).


Un altro elemento su cui discutere è la messa in scena del processo creativo artistico. Witold ben presto passa dai libri di diritto su cui deve studiare a comporre prima un racconto che si trasforma in un romanzo (un polar come vorrebbe Fuchs) e diventa alla fine una sceneggiatura di un film come egli stesso dichiara al suo amico. Del resto il giovane protagonista è sia una rappresentazione in prima persona dello scrittore Gombrowicz (fin dal nome Witold) sia una proiezione dello stesso Zulawski (che oltre a essere regista è anche uno scrittore di romanzi e racconti e molte delle sue opere concepite come sceneggiature sono poi nate come romanzi e viceversa). La spinta alla rappresentazione (o meglio alla sua impossibilità) è palese in tutto "Cosmos", ma non riesce mai a raggiungere una sua compiutezza simbolica-segnica né una rappresentazione per immagini (ad esempio, operazione invece riuscita a David Cronenberg con "Il pasto nudo") restando legato troppo a un logos che non si trasforma in eikon.


Non è l'unico limite di "Cosmos". Zulawski abbandona i toni di angoscia esistenziale focalizzati su attanti che agiscono all'interno di uno spazio filmico metafisico e irrealistico (e migliore espressione di questo tipo di cinema lo abbiamo con "Possession") per abbracciare un ambizioso progetto onnicomprensivo che ingloba, come abbiamo scritto, differenti fonti culturali: dal cinema alla letteratura, dalla pittura al teatro. La chiave filosofica della messa in scena risulta una composizione sì erudita ma che conduce a un intellettualismo fine a se stesso, autocompiacente, che pur basandosi su un processo espressionistico e irrazionale, nel momento stesso in cui diventa programmatico perde l'espressività emozionale. Oltretutto Zulawski in questo senso delude lo spettatore, rifugiandosi in temi e stilemi legati a una concezione del mondo d'interesse cinquant'anni fa, creando un film manierista, senza una contestualizzazione contemporanea e non aggiungendo nulla di nuovo all'arte cinematografica. "Cosmos" nella sua bulimia culturale non si eleva come soggetto/oggetto assoluto ma riproduce un cinema (d'autore) del passato.
Antonio Pettiere
(pubblicato su http://ift.tt/1OTkBh2 68 festival di Locarno)

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