In un momento di rinnovato interesse per il cinema classico giapponese (ne è dimostrazione il successo di pubblico della rassegna dedicata a Yasujirō Ozu in programmazione nelle sale cinematografiche italiane), la Cineteca Italiana di Milano ha realizzato, con intelligente tempestività, un omaggio, scegliendo sei opere degli anni 50, a Kenji Mizoguchi, altro grande maestro, che, insieme ad Akira Kurosawa, fa parte di quella imprescindibile triade di autori del cinema giapponese conosciuta da ogni cinefilo. L’occasione è ghiotta per i fortunati che ne possono approfittare per (ri)scoprire un autore immenso che ha regalato al cinema dei veri e propri capolavori, delle perle di pura bellezza estetica, e ha reso grande la Settima arte.
Kenji Mizoguchi nasce a Tokyo alla fine dell’Ottocento da una modesta famiglia di artigiani e muore a Kyoto nel 1956 per un attacco di leucemia fulminante, quando ancora era in piena attività. La sua sterminata filmografia ha inizio nel 1923 ed è composta da ottantacinque film che attraversano la storia del proprio paese e dell’evoluzione tecnica del cinema. Dei suoi primi quarantasette film (in gran parte del periodo del muto) solo due sono arrivati a noi, e se già negli anni 30 e 40 Mizoguchi era considerato un maestro in patria, nel resto del mondo s’inizia a conoscerlo dopo la vittoria di “Rashomon” di Akira Kurosawa alla Mostra Internazionale dell’arte cinematografica di Venezia nel 1951, che alza il sipario al pubblico occidentale sulla ricca filmografia giapponese. In effetti, negli anni seguenti, Mizoguchi partecipa alla Mostra lagunare con tre opere considerate universalmente dei capolavori (e compongono l’omaggio riservato dalla Cineteca): “Vita di O-Haru, donna galante” (1952), “I racconti della luna pallida d’agosto” (1953), “L’intendente Sanshō” (1954) che si aggiudicano il Leone d’argento a dimostrazione dell’attenzione riservata all’autore nipponico.
Nel cinema di Mizoguchi troviamo una rappresentazione delle vicende di quei ceti popolari, frequentati in prima persona dal regista, con personaggi soprattutto femminili che affrontano le avversità del destino a testa alta nella loro sofferenza. Le protagoniste delle sue storie sono forti ed eleganti nella rappresentazione delle proprie disgrazie, vissute sempre con grande dignità, siano esse nobildonne decadute o cortigiane, figlie e mogli con padri o mariti che in qualche modo le sfruttano come oggetto di possesso, ridotte a merce di scambio, dove il denaro diventa l’unico obiettivo di uomini che giocano un ruolo predominante in una società patriarcale e maschilista.
Un esempio di questi temi amati dal regista lo abbiamo con “Vita di O-Haru, donna galante”, tratto da un romanzo della letteratura giapponese del Seicento, dove viene messa in scena la vita di O-Haru che da dama di corte imperiale, per essersi innamorata di un modesto samurai senza il permesso della famiglia e della classe nobile, viene esiliata dalla capitale. La vediamo in diverse tappe della sua esistenza in una caduta continua, raccontata in un lungo flashback in soggettiva: prima venduta dal padre come concubina a un nobile per dare alla luce un discendente al clan; poi scacciata per motivi politici, gli ritocca la stessa sorte ma questa volta come cortigiana in una casa chiusa per pagare i debiti che nel frattempo il genitore aveva accumulato; a servizio come dama di compagnia presso un ricco mercante, da cui viene scacciata dopo aver scoperto il suo passato (non prima di averla posseduta); una breve parentesi di felicità, sposata a un giovane artigiano di ventagli, ma ben presto vedova e senza denaro; per finire raminga e infine prostituta di strada. La storia di O-Haru è esemplificativa di quel gusto del melodramma che Mizoguchi ricercava nelle sue storie, raccontate sempre con estrema eleganza formale, dalle emozioni sconvolgenti, da una lotta impari di figure femminili ritratte con un’empatia che travalicava lo schermo.
In “Vita di O-Haru” si può ammirare l’arte cinematografica di Mizoguchi e i suoi famosi piani sequenza espressivi: citiamo su tutti quello bellissimo in cui O-Haru scopre che il suo giovane amante samurai è stato giustiziato e scappando, per togliersi a sua volta la vita con un pugnale, viene inseguita dalla madre nel bosco vicino casa, utilizzando la scenografia naturale come sfondo per una danza di morte e dolore delle due donne. Non bisogna dimenticare i primi piani intensi sugli sguardi dei protagonisti e l’utilizzo di totali con una profondità di campo che permettono la messa in quadro di un mondo complesso e articolato (influenzato dalla pittura di Utamaro, autore del XVIII secolo, del periodo Ukiyoe, quel “mondo fluttuante” che rappresentava la vita quotidiana di mercanti e cortigiane). L’utilizzo innovativo di questa grammatica cinematografica lo rendono un precorritore intuitivo di un cinema moderno influenzatore di tanti autori europei e americani negli anni 60 e 70.
Del resto, l’indimenticabile interprete di O-Haru, Tanaka Kinuyo (attrice icona di altri film del periodo come ne “La signora Oyu” e “I racconti della luna pallida di agosto”) recita con i movimenti del corpo e dei ricchi costumi che diventano strumento espressivo delle emozioni con un gusto figurativo che Mizoguchi aveva sviluppato negli anni del suo apprendistato artistico come disegnatore e pittore.
E la bravura di Mizoguchi nel dirigere le attrici è un’altra caratteristica (una delle tante) di questo maestro del cinema mondiale da vedere anche negli altri film della rassegna organizzata dalla Cineteca Italiana, focalizzata sull’ultimo periodo, che, oltre ai già citati, comprendono anche “Il ritratto della signora Yuki” e “La strada della vergogna”, l’ultimo film del ‘56.
Antonio Pettierre
“Omaggio a Kenji Mizoguchi”, Fondazione Cineteca Italiana, Spazio Oberdan, Sala Alda Merini a Milano dall’ 11 agosto al 7 settembre 2015 http://ift.tt/1fzafH1/
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