Most Beautiful Island, esordio alla regia dell'attrice Ana Asensio, è un film indipendente che utilizza i generi cinematografici per raccontare la storia della protagonista e quella della città di New York, emblema di un sogno americano che forse non esiste più. Taxi Drivers ha incontrato la regista spagnola
Il tuo è un film molto duro, soprattutto dal punto di vista delle relazioni umane. Non c’è amicizia nella storia che non sia destinata a essere tradita e la rapacità sociale è il tratto dominante di New York City. Era questo un modo per creare uno sfondo più verosimile possibile alla vicenda della protagonista o, invece, era una maniera per esprimere una visione politica sul mondo e sulla città di New York?
Quello che mi premeva mostrare era il modo in cui gli stranieri irregolari fossero più predisposti a diventare prede del sottobosco della società capitalistica. Quando non puoi predisporre di beni necessari, sei costretto a prendere decisioni giorno per giorno, proprio per evitare di essere divorato dalla città. I rapporti che si costituiscono in questi casi sono quindi basati sul bisogno più che su un’autentica e comune visione del mondo. Per questo motivo, non credo che tali rapporti possano essere considerati veri e propri tradimenti, quanto un comportamento basato sulla sopravvivenza. Situazioni di vulnerabilità aumentano la possibilità di commettere errori; alcuni di questi sono pericolosi proprio come vediamo nel film.
A proposito di impegno, Most Beautiful Island è girato in 16mm, che è la pellicola usata dai documentaristi, mentre il film affronta con originalità il problema dell’immigrazione attraverso le vicissitudini di Luciana. Se uno non avesse visto letto il tuo nome sui titoli di testa sembrerebbe di vedere un film di Ken Loach.
Aver paragonato in qualche modo Most Beautiful Island a un film di Ken Loach è uno dei più grandi complimenti che avessi potuto ricevere. Apprezzo il realismo sociale nei film e quello che cercavo era il modo di esprimerlo. Ho usato persone reali nella parte di se stesse, l’intero film è stato girato con la camera a mano per cogliere la crudezza della città e il primo montatore del film lavora esclusivamente sui documentari. Nella prima metà del film la gran parte delle scene si basano sull’improvvisazione: sia per ciò che attiene l’azione che per i movimenti della cinepresa. Ho lasciato che gli attori (e l’ho concesso anche a me stessa) di interpretare le scene in modo libero rispetto alle parole che avevo scritto e ai movimenti di camera che avevo originariamente predisposto. Questo funziona specialmente quando lavori con i bambini o interagisci con i passanti newyorkesi.
Nonostante quello che abbiamo, detto Most Beautiful Island è prima di tutto un thriller con venature horror. Essendo il tuo primo film in assoluto, ti volevo chiedere com’è nata la storia e perché la scelta di esordire con un film di genere.
Non avevo previsto, infatti, di fare film di genere. Volevo fare un dramma realistico con qualche elemento di mistero. Volevo aumentare l’incertezza e l’ansietà del personaggio principale e desideravo che lo spettatore facesse la stessa esperienza. Credo che il film sia un ibrido e penso di aver inserito elementi tipici di ogni genere di film. Molti di questi nascono da decisioni prese in sala di montaggio, fuori da qualunque previsione.
Olga, l’amica di Luciana, ad un certo punto le dice che “A New York tutto è possibile”. Ti chiedo se per te è davvero così e in caso di risposta positiva da dove viene questa convinzione.
Credo doveroso che sia così. Questa città attrae persone che cercano di trovare i propri limiti e questo può accadere in modi diversi.
Tra gli interpreti del film c’è un cameo di Larry Fassbenden (presente anche in veste di produttore), figura imprescindibile dell’indie horror statunitense. Ti volevo chiedere se la sua presenza fosse in qualche modo anche una dichiarazione di ammirazione nei confronti del suo lavoro.
Ammiro davvero molto Larry, per molte ragioni. Devo dire che la più importante di queste sono la sua morale, tanto nel lavoro quanto nella vita privata. Lui è un sognatore, un anticonformista. Nel suo primo film, Habit, ha dimostrato di essere anche un visionario. Ha creato una filmografia attraverso la Glass Eye Pix, che prende sotto la propria ala molti nuovi cineasti in cerca di un luogo dove mettere a punto le loro prime opere. Questo è veramente generoso da parte sua! Dopo aver letto la sceneggiatura, Larry mi ha offerto il suo aiuto e io ne sono stata onorata. Sapeva che la mia intenzione era quella di fare un film molto personale e io non potevo promettere che sarebbe stato un film di genere. Lui ha abbracciato la mia visione ed è stato anche così gentile da parteciparvi.
La sequenza clou del film, quella che si svolge nello scantinato, è davvero efficace per tensione e drammaticità. Nella prima parte della stessa lavori con il fuori campo, nascondendo ai personaggi e allo spettatore il destino che attende Luciana dentro la stanza in cui dovrà entrare. Ci puoi raccontare come hai lavorato per realizzarla?
Tutto si basava sulla possibilità di creare tensione senza parlare. Non mi interessava che i personaggi parlassero, così gli attori dovevano vivere quella particolare situazione attraverso i loro respiri… tutte quelle ragazze si tengono tutto dentro e lo fanno per davvero. Abbiamo girato in un luogo oscuro e freddo e loro sono dovute rimanere sui tacchi alti per molte ore e ciò ha permesso loro di immedesimarsi con il disagio e la tensione della storia. Ho isolato dei dettagli per rilevare la loro apprensione (tipo le mani e i piedi) ma sono stata attenta a non esagerare. Mi sono concentrata sui loro volti, tutti molto belli eppure colmi d’angoscia. Il silenzio è stato poi riempito in post produzione con dei rumori creati nella sound design room. Quando i personaggi non parlavano non ci sono soprassalti, lo spettatore assorbe davvero la tensione e i minuti scorrono davvero piano…
Nei primi minuti del film inserisci alcune sequenze che funzionano come presagio di ciò che sta per succedere: mi riferisco a quella iniziale dove ci fai vedere diverse ragazze che sembrano essere le protagoniste del film e che invece ritroveremo solo in un secondo momento e poi agli scarafaggi che escono dal muro del bagno e si posano sul corpo di Luciana. Il fatto di lasciarle aperte e senza una spiegazione immediata concorre a creare un clima di incertezza e di disagio allo spettatore. Le hai pensate per ottenere questo effetto?
La sequenza d’apertura del film è una delle cose di cui mi sento più orgogliosa e tra l’altro non era nella sceneggiatura originale. È stato quando ho finito l’ultima scena del film che ho capito di aver bisogno di una nuova introduzione, qualcosa che stabilisse il tono della storia e allo stesso tempo l’ampliasse. È la storia di Luciana, ma poteva essere quella di qualunque delle donne precedentemente viste. Non avevamo più soldi per girare, così io e Noah Greenberg, il direttore della fotografia, siamo scesi in strada e abbiamo cominciato a girare con la sua camera digitale. Non c’era nessun altro con noi e le attrici hanno acconsentito di lavorare gratis per queste scene addizionali. Mi è piaciuto molto riprenderle, mi sono sentita molto libera. Inoltre volevo introdurre la città come il personaggio principale della storia. Il tema musicale più importante è stata la chiave per gettare ulteriore incertezza che si prolunga attraverso il resto del film.
Carlo Cerofolini
(pubblicata su taxidrivers.it)
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