Yara
di Abbas Fahdel
con Michelle Wehbe, Elias Freifer, Mary Alkady, Elias Alkady
Libano, Iraq, Francia 2018
genere, drammatico
durata, 101'
Rispetto al dibattito sulla condizione femminile contemporanea la domanda a cui tenta di rispondere il festival di Locarno ragiona intorno alla possibilità di conciliare da una parte la determinazione e, in taluni casi, la durezza assunta dalle battaglie del nuovo corso femminista e, dall'altra, la necessità da parte delle donne di non perdere le prerogative della propria diversità, adeguandosi al temperamento e agli atteggiamenti della sua controparte: è quindi, in sostanza, un modo di chiedersi se il coraggio e l'eroismo messo in mostra in più di un'occasione possa andare di pari passo con gli slanci e la bellezza tipiche del proprio modo di essere. Se dovessimo tenere conto di quanto visto nel film del libanese Abbas Fahdel, la risposta oltre ad essere positiva lascerebbe intravedere un percorso di realizzazione che non ha bisogno di mezzi straordinari per potersi compiere. Un'affermazione, quest'ultima, strettamente collegata alla qualità del lungometraggio in questione, che fa della semplicità il suo tratto dominante. Si badi bene, però, che l'aggettivo è usato in termini tutt'altro che dispregiativi, sposandosi alla perfezione con il concetto di meraviglia e di purezza presenti nel cinema delle origini.
Ma non basta, poiché l'altra caratteristica di "Yara", titolo ricavato dal nome della ragazza libanese che insieme con la nonna vive in una vallata ubicata nel nord del paese, è quella di porsi in contrasto - estetico e di contenuti - con la maggior parte dei film provenienti dallo stesso territorio. Se, infatti, lo scenario usuale delle storie ambientate in medioriente non può fare a meno di mostrarci la guerra e le sue conseguenze, "Yara" riesce a farne a meno, sostituendola con le atmosfere edeniche e pacificate del paesaggio naturale e con gli atteggiamenti di amicizia e di condivisione di un'umanità che non per questo è esente dai problemi e dalle sofferenze della vita. La differenza, in "Yara" e nella filosofia che vi sta dietro, consiste nel considerare gli accadimenti come il risultato di esperienze inquadrate all'interno di una dimensione che esalta la dignità e l'armonia degli esseri umani, come accade con le gioie e i dolori conseguenti all'amore di Yara nei confronti del giovane escursionista capitato per caso nei pressi della sua casa. Nel raccontarli Fahdel si fa complice della sua eroina riflettendone i sentimenti nella sobrietà delle composizioni (piani-sequenza a camera fissa con elementi ridotti al minimo e figure per lo più statiche) e in particolare nella dialettica esistente tra le scene di vita quotidiana in cui è la ragazza ad essere protagonista e gli stacchi sul paesaggio (umano e animale) che la circonda, ameno quanto basta per rappresentare una visione del mondo che pur non riuscendo a proteggerla dai rovesci del destino quanto meno ne rende le conseguenze più sopportabili. Per stile e contesto ciò che vediamo ricorda certo cinema iraniano con la differenza che Fahdel riesce a sfuggire al rischio del bozzetto (come taluni sarebbero portati a pensare) con l'utilizzo di un linguaggio archetipico che gli consente di superare i limiti imposti alla storia della compartimentazione paesaggistica e dalle scelte formali della regia, per aprire le vicende del film a una poesia che risulta allo stesso tempo commovente e universale. Film e attrice (Michelle Wehbe) entrano di diritto nel novero dei pretendenti a uno dei premi del palmares.
Carlo Cerofolini
pubblicato su ondacinema.it)
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