“Non resto colpito dai fatti in se ma dalla sensazione di misteriosa reticenza che mi provocano. Come se tutto non fosse scritto sulla carta, eppure presente con pesantezza.”
In Favolacce le parole della voce narrante sono quelle che introducono lo spettatore alla storia. Ma non solo.
Se è vero che ciò che stiamo per vedere scaturisce dalla continuazione di un racconto interrotto, quello che l’io narrante a letto poco prima sulle pagine di un diario abbandonato, è chiaro che ci troviamo di fronte a una duplice lettura.
Da una parte c’è quella relativa alla vicenda che sta per iniziare, con la presentazione dell’ambiente e dei personaggi. Dall’altra è come se i fratelli D’Innocenzo parlassero di come intendono il cinema e di quale funzione gli assegnano. La prima, come dice la frase di cui sopra è la sua capacità di andare oltre il visibile, raccontando innanzitutto la”misteriosa reticenza dei fatti”. Favolacce lo farà con un impianto in cui l’elemento sensoriale sarà la chiave per scoprire cosa si annida nella testa e nel cuore dei protagonisti. Al di là delle apparenze. Insomma scoprirà un poco alla volta il cosiddetto l’arcano della storia. E come vedrete sarà davvero sorprendente.
Si parla ancora del cinema: della sua natura vojeuristica, (la lettura segreta del diario è uguale alla visione del film nel buio della sala), del fatto che quando andiamo al cinema è come se spiassimo le vite dei personaggi a loro insaputa.
E, ancora del suo potere immaginifico, e in particolare del meccanismo che porta il pubblico a interpretare le immagini, per completare egli stesso la storia, attribuendogli significati derivati dalla propria esperienza.
Insomma Favolacce si mette dalla parte del pubblico elevandolo a suo unico confidente. Stabilisce con esso un’intimità privilegiata confidandogli anche il modo in cui lo farà, senza inganni e appunto reticenze
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Come già successo ne La Terra dell’abbastanza anche Favolacce fa della concentrazione spaziale il principio regolatore della sua messinscena. In entrambi i casi la parte diventa rappresentativa del tutto, dunque anche dell’esistenza dello spettatore, spinto ad immedesimarsi in una condizione in qualche modo simile alla propria. A differenza del film d’esordio, in Favolacce la periferia romana, dapprima localizzata con precisione toponomastica, viene con gradualità svuotata delle sue caratteristiche principali attraverso un processo d’astrazione che la trasforma in un qualunque sobborgo del mondo.
All’accresciuta universalità della storia concorrono diversi elementi, a cominciare dalla mancata insistenza nell’utilizzo del gergo dialettale, in alcuni casi, e per esempio nelle scene dedicate ai bambini, del tutto assente, come pure la restituzione dell’ambiente, neutralizzato da inquadrature volte a valorizzare la simmetria degli elementi, come succede nelle panoramiche sulle villette a schiera, volte a costruire un immagine di ordine e precisione in contraddizione con il caos che all’interno vi alberga. E infine la fisionomica dei piccoli protagonisti, asciugata si, dall’apatica rassegnazione alla mancanza di orizzonti delle proprie esistenze, ma segnata in partenza dalla scelta di volti non riconducibili a un preciso modello italiano.
Continua 2.
La cattiveria e la ferinità sarebbero già sufficienti a definirne la peculiarità del tratto. Favolacce però va oltre, rimettendo al centro del discorso uno dei rimossi del cinema italiano, ovvero una tipologia di fanciullezza raccontata con una complessità per nulla empatica e a tratti persino scomoda.
A farne parte non è solo il corpo, esposto anche laddove di solito si rinuncia a entrare, ovvero nella sfera delle pulsioni e degli istinti. Gli sguardi attoniti e l’apatia dei più piccoli non sono come al solito il risultato di un benessere borghese, invasivo ma mai scandaloso, bensì il frutto di una consapevolezza superiore, data dall’aver colto - al contrario dei genitori -, la mancanza di orizzonti dell’esistenza a loro offerta.
Quello che ne viene fuori è una disperazione fredda, di fronte alla quale il film non si tira indietro ma anzi la percorre fino al termine della notte. L’esplosione di violenza e l’anarchia a tutto campo sono solo una logica conseguenza. In sede di presentazione i fratelli D’Innocenzo hanno parlato dei loro riferimenti, citando Charlie Shultz e scrittori americani del calibro di Carver, Cheever e Faulkner. Durante la visione a noi è venuto in mente certo cinema indie: in ordine sparso quello dei vari Solondz, Clark, Korine ma anche di Van Sant e dello Jeremiah Zgar di Quando eravamo fratelli.
Carlo Cerofolini
pubblicato su facebook/taxidrivers 3000
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