disponibile in DVD e Blu-ray, in un’imperdibile edizione doppio disco da collezione contenente due versione differenti del documentario: Sympathy for the devil e One plus one
di, Jean Luc Godard
con: Mick Jagger, Keith Richards, Chris Watts, Brian Wyman,
UK, 1968
durata, 100’
durata, 100’
Dice: Mi sa che si stava meglio quando si stava peggio. Risponde: Mi sa che è ora di piantarla con la nostalgia del passato (quella che, ad esempio, Simon Reynolds chiama retromania). Dice: Vuoi spenderla una lacrima a ragion veduta ? Dà un’occhiata alle uscite discografiche, chessò, del ’68. Così, un po’ per curiosità, un po’ per non lasciare nulla d’intentato, uno si mette a percorrere a ritroso la corrente degli anni e, con ogni probabilità non una lacrima, ma una qualche difficoltà a deglutire, a giro finito, la incontra. Fanno la loro comparsa, infatti, tra gli altri, in quello che è diventato uno spartiacque simbolico a tutti gli effetti: Wheels of fire/Cream; Electric Ladyland/J.Hendrix and the Experience; l’album bianco dei Beatles; We’re only in it for the money/F.Zappa and the Mother of Inventions; l’omonimo dei Traffic; Giles, Giles e Fripp con The cheerful insanity of… e, ciò che qui preme, Beggars banquet degli Stones, al cui interno spicca, appunto, Sympathy for the devil (vagamente ispirata a Il Maestro e Margherita), pretesto e motivo attorno a cui ruota l’occhio curioso e sarcasticamente militante di Godard, tanto in presa diretta con avvenimenti storici e sociali in pieno divenire - le agitazioni studentesche, le tensioni razziali, la geopolitica bellica, l’emancipazione femminile, la consacrazione dell’individualismo, l’incombere d’un’idea di comunità globale fondata sulla comunicazione, l’imporsi totalizzante del Mercato, et. - da fissarne con sorprendente intuito e non comune intento antiretorico lo svolgersi spesso irruento, come la sottostante trama non esente da ambiguità e contraddizioni rivelatesi, ai nostri giorni, pervasive e interdipendenti al limite dell’aporia.
Questo per osservare, in via preliminare, che l’affermazione di Faulkner in base alla quale Il passato, in fondo, non è mai del tutto passato, se calata di peso in un contesto come quello attuale - definibile tarda modernità - nei proclami e nelle propagande votato senza esitazione al futuro, quanto nella prassi infaticabile recuperatore del passato, assume sfumature ancor più grottesche, se non sinistre, non secondariamente perché il senso di frustrazione latente implicito in qualunque paragone evidenzia caratteri impietosi al momento di soppesare, con un minimo d’obiettività e senso delle proporzioni, la produzione corrente (non solo musicale) con quella di trascorsi più o meno recenti svelando, di contro, oltre l’antinomia di superficie d’una società devota al domani con lo sguardo però molto spesso puntato in direzione dello ieri (è praticamente infinita, restando sempre al generico ambito del rock, la serie di solisti e di gruppi che prima o dopo sono tornati sul palco e si sono riformati nelle line-up originali, qui e là impediti, tanto i primi quanto i secondi, solo dal naturale succedersi dei decessi), una sostanziale impasse creativa che va ben oltre un ecumenico e reiterato debito di riconoscenza.
Senso della stravaganza e attonito spaesamento permeati d’insofferenza con sorniona lucidità già ben presenti nel gesto godardiano organizzato attorno alle sessioni di registrazione che mano mano avrebbero trasformato la canzone del titolo da un abbozzo acustico, attraverso l’incedere d’un gospel ritmato, fino alla forma canonica d’un ibrido blues con coloriture caraibiche, allo stesso tempo, in una fulminante scheggia d’improvvisazione in bilico tra confini incerti e in un sibillino ma conturbante presagio delle cose a venire, collocando l’invenzione all’interno dell’unico congruo intervallo che dovrebbe prevederla: quello che vibra tra raziocinio e affronto, controllo ed effrazione, equilibrio ed eversione, senza dimenticare, aggiunge l’autore cogliendo la band al meglio della propria ispirazione, le trappole di ogni sua rappresentazione. A dire, il fascino puerile e morboso per il talento; la fuorviante indulgenza concessa all’alterità dell’artista; la magari inconscia ma comunque remunerativa manipolazione divistica et., tratti, del resto, evocati dalle stesse strofe che punteggiano il film: Pleased to meet you/hope you guess my name/But what’s confusing you/is just the nature of my game… Di fatto il meccanismo linguistico ed espressivo che il cineasta di retaggio svizzero scansiona e ribadisce interpolando, sovrapponendo, sfasando la performance dei musicisti lungo sequenze costruite vuoi come semi-circolari piani sequenza, vuoi come fluide panoramiche o morbidi zoom, per mezzo d’inserti (a volte quasi delle gag, vedi quello in cui una solerte ragazza lascia scritte e graffiti provocatori sui muri, intorno o sotto le vetrine dei negozi, lungo le fiancate delle automobili in sosta, per scomparire lesta dall’inquadratura; quindi un altro avente per protagonista, in un autodemolizione, un gruppo d’attivisti del Black Power armati di tutto punto e intenti a registrare o a declamare scampoli di testo che svariano dalla storia della musica afro-americana, corrotta dalla mercificazione progressiva del pop, alle duplicità dellanegritudine in eterna tensione fra assimilazione dei codici bianchi e il loro consapevole rigetto attraverso l’avvento d’un’agognata rivoluzione annunciata, in chiusura di frammento, dall’esecuzione sommaria di due ragazze appartenenti al nemico: e ancora quello relativo a una troupe cinematografica impegnata in un paesaggio agreste nel pedinamento intellettualistico di una giovane donna - Wiazemsky - la quale tenta di sottrarsi a quesiti del tipo Crede che la cultura abbia diminuito la credibilità artistica ? oMagari il Diavolo è Dio in esilio, attingendo alla soave lungimiranza dell’interlocuzione monosillabica evangelica del Sì/No) sottolineati da voci fuori campo che scandiscono estratti di dialogo diversi per tenore - ironico, disimpegnato, drammatico - e per tema - privato, sociale, politico, erotico/pornografico - in un continuo e calcolato gioco di decontestualizzazioni sul filo del nonsense, di giustapposizioni elusive e spiazzanti, di paradossali entr’acte, di siparietti (da ricordare quello della bambina che dopo aver preso la sua dose di riviste nel punto vendita alla moda che affianca alla saggistica e alla letteratura - data per agonizzante - le pubblicazioni del glamour e del sesso un tanto a pagina e il cui gestore legge ad alta voce il Mein Kampf, sfodera, come gli altri che l’hanno preceduta, un sorridente saluto nazista), al modo d’una sincopata partitura sentimentale tesa a scongiurare il più osceno degli spauracchi, quello della cristallizzazione in un significato digeribile al già devastato immaginario di massa a cui sottende, suggerisce beffardo Godard, la passiva acquiescenza d’un Cinema dei grandi numeri sempre più intrattenimento innocuo e anestetico blando che, in una dimensione più grande non a caso denominata Cuore dell’Occidente, non può non chiamare in causa l’inesorabilità montante del dominio tecnologico, la prepotenza invasiva dei media nelle scelte individuali, la conseguente disgregazione dei rapporti, tutto a favore dell’instaurazione dell’impero unico del Denaro e delle Merci.
Ecco, allora, che quel rapporto incestuoso tra ieri e oggi richiamato in apertura, capace di coinvolgere così d’appresso un intero modo di sentire e affrontare il mondo, si ammanta, retrospettivamente, sulle note d’un pezzo sfuggito al logorìo del suo stesso consumo per farsi istantanea d’un’epoca e nelle immagini d’un regista riottose all’inerzia d’una forma stabilizzata, dei toni mesti d’una inascoltata e dolorosa preveggenza (la morte delle ideologie, delle democrazie liberali: il ruolo del Cinema come complice, esegeta e curatore testamentario di tali accadimenti), d’un futuro possibile che è stato tradito in nome della continuità assicurata da un ingannevole eterno presente, nell’illusione che sottraendosi alla responsabilità di conoscere e di capire sarebbe stato comunque possibile ignorare che l’unico modo di essere un intellettuale rivoluzionario è smettere di essere un intellettuale e (vilmente) sfuggire alla desolata constatazione per cui è stata tutta una perdita di tempo. Devo fare qualcosa. Devo uscire da questo casino. Addio.
[La nuova versione DVD di “Sympathy for the devil” consta di due dischi, uno dei quali include il film (col titolo alternativo “One plus one”) sottoposto a minime revisioni di montaggio e un documento, “Voices”, a firma Richard Mordaunt, in cui a fasi della lavorazione vengono intercalati contributi tratti da interviste rilasciate dal regista].
TFK
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