mercoledì 14 febbraio 2018

LOVING VINCENT

Loving Vincent
di, Dorota Kobiela e Hugh Welchman
con, Robert Gulaczyk, Douglas Booth, Eleanor Tomlinson, Saoirse Ronan, Jerome Flynn
Pol, Gb 2017
durata, 95’


Nel giorno del compleanno del fratello Theo, Vincent van Gogh scrive e indirizza a lui una delle tante lettere entrate poi a far parte d’un celebre epistolario. E’ il primo Maggio 1888. Tra le altre cose, il pittore di Groot Zundert parla della sua nuova casa di Arles (Provenza), in cui da qualche tempo risiede: … I muri sono di un viola pallido. Il pavimento è ricoperto di mattoni rossi, le testate di legno del letto e le seggiole sono gialle come il burro fresco, le lenzuola e i cuscini sono di un giallo limone chiarissimo. La coperta è rosso scarlatto. La finestra verde. Il tavolo di toilette color arancio, il catino blu. Le porte lilla… Tale breve descrizione, al di là dell’ovvio riferimento autobiografico e delle impressioni estemporanee che a esso sottendono, può tornare utile per inquadrare l’ispirazione di fondo e l’impronta stilistica prevalente di un lavoro come “Loving Vincent” del duo Kobiela/Welchman centrato, dal punto di vista narrativo, sul collaudato canovaccio che muove il protagonista della vicenda - qui l’irrequieto Armand Roulin/Booth, figlio del funzionario del Dipartimento Postale, Joseph/O’Dowd, amico di Vincent/Gulaczyk - incaricato di ripercorrere, a distanza d’un anno dai fatti, gli ultimi frammenti di vita di una personalità eccentrica quanto sfuggente, sulla linea esile tracciata da un’ultima missiva non spedita che la paziente solerzia di un terzo (nel caso, l’anziano Joseph) briga affinché non vada perduta. L'incrocio di queste circostanze risolverà il riluttante Armand a intraprendere un viaggio sulle tracce materiali e artistiche di Vincent, che da Arles lo condurrà, prima a Parigi poi, a una trentina di chilometri dalla capitale, nella cittadina di Auvers sur Oise ove, a forza di tentativi ma con sempre maggiore slancio, cercherà di fare luce sulle motivazioni che spinsero il suo problematico interlocutore a tentare il suicidio un giorno di fine Luglio del 1890 per mezzo d’un colpo di pistola al ventre, gesto quarantott'ore dopo rivelatosi fatale per la chiusura di una parabola cominciata poco più di trentasette anni prima.


A fronte di uno sviluppo drammaturgico convenzionale e prevedibile, ancorato com’è a un’aneddotica ampiamente storicizzata su cui la sottotrama investigativa s’appoggia con una certa abilità allo scopo di tener comunque sempre desto, per contrasto, il santino anticonformista e derelitto di van Gogh - di certo più familiare e digeribile per l’immaginario di massa - ciò che rappresenta una singolarità autentica, eliminando in parte le scorie d’un oramai patetico maledettismo e approssimando il tono del film a quello delle parole dell’artista riportate in apertura, è la drastica scelta stilistica di utilizzare il mezzo cinematografico come prodigiosa appendice in movimento di un intero e personalissimo universo pittorico: ossia forzare la rappresentazione in un contesto che preveda, sul calco originario di attori in carne e ossa, la coloritura integrale a mo’ di dipinto di ogni fotogramma secondo la tavolozza molteplice di Vincent. Il risultato è un’opera d’arte allo tesso tempo curiosa e straniante, che vive dello sforzo di oltre cento talenti diversi (gran parte di scuola polacca: mano che si riconosce in particolare negli inserti in bianco e nero, quelli relativi alla rievocazione, da parte di chi lo conobbe, del passato del genio olandese. Parliamo, tra gli altri, di Julien père Tanguy/Sessions; Adeline Ravoux/Tomlinsen; Louise Chevalier/McCrory; del Dottor Gachet/Flynn e di sua figlia Marguerite/Ronan) e che nei momenti migliori, vedi il paesaggio agreste francese, i cieli estivi agitati da vortici cangianti, la pienezza carnale di fiori e oggetti, non si limita a un mero travaso di forme, volumi e cromie dalla tela all’inquadratura ma, grazie a una costante sinfonia di minuti spostamenti in progressione o esitazioni retrograde, forza il linguaggio filmico a farsi interprete d’una possibile e unitaria vita alternativa dei quadri che s’avvicendano nel racconto oltre il limite delle singole cornici, in una deviazione lisergica tutt’uno con le pennellate incerte e i grumi sparsi a replicare la tecnica a tessera di mosaico - ora sfondo pulsante in cui mostrare un colpo di scena o introdurre un nuovo personaggio, ora coronamento partecipe d’uno stato d’animo o d’una rivelazione - nel tentativo di restituire la suggestione d’un tormentato ma anelante mondo interiore. Il mondo tenero e disperato di un uomo che, se si fosse concesso altro tempo, avrebbe davvero raggiunto le stelle a piedi.
TFK

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