Cars 3
di Brian Fee
animazione
USA 2017
durata, 102’
USA 2017
durata, 102’
E’ sensato definire, non tralasciando un giusto grado d’approssimazione, la serialità cinematografica come una trappola (sovente) remunerativa. Il dispettoso ossimoro, al di là della sua accezione sarcastica, può avvalersi di riscontri verificabili allorquando, sine ira et studio, si prenda a percorrere a ritroso l’immenso archivio disponibile d’immagini in movimento. Senza andare troppo indietro nel tempo e troppo a fondo nelle pieghe del corpus della celluloide o del digitale, s’arriverà presto a constatare - certo empiricamente ma con sufficiente attendibilità vista la mole dei campioni accumulati - una relazione quasi consequenziale tra lo sviluppo originale d’un’idea, la sua relativa o clamorosa affermazione, e la pressoché inderogabile riproposizione della medesima una volta messe a punto varianti minime o presunte alternative rifondazioni (secondo i canoni mobili del sequel, prequel, reboot, follow up, et.). Le regole del Mercato - si sa ed è banale - al tempo consentono e impongono, tra le tante logiche, quella per cui il compimento d’un progetto si presta quasi di-per-sé, in un ambiente regolato dal profitto, alla commercializzazione slegata dalla mera epifania d’un esordio. In particolare nel Cinema, si diceva, gli esempi sotto mano sono tali da consentire a chiunque lo svago - o il malcelato fastidio - d’una catalogazione personale. Se, quindi, tutto ciò è, alla grossa, vero, lo diventa ancora di più se posto in rapporto a una fucina creativa come quella della Pixar, casa delle meraviglie a cavallo di due millenni che - come illustrato altrove - ha fatto del connubio tra innovazione tecnologica associata alla rielaborazione in chiave moderna e problematica di filoni narrativi classici (con i loro bravi risvolti storici, sociali, psicologici e identitari) e oculata quanto sistematica strategia finanziaria e merceologica (a dire squisitamente capitalistica), una delle travi portanti del suo edificio popolato d’ingegni e incline alle più estrose fantasmagorie. D’altro canto, senza nulla togliere ai risultati raggiunti, è magari perfino metaforico notare ora come la suddetta tendenza alla standardizzazione e alla riconoscibilità estrema d’un prodotto (a ben vedere già di suo parecchio caratterizzato, avendo segnato proprio la Pixar alcune delle più significative tappe nel campo del disegno animato, ovvero della sua estetica e della sua modalità di fruizione), prassi peraltro ormai invalsa nel Cinema ad alta potenzialità d’intrattenimento, abbia col tempo sollecitato e in parte irretito i talenti della galassia di Emeryville i quali, accanto a indubbi prodigi (la trilogia di “Toy Story”), delicate novelle morali (le avventure di Nemo e Dory), sottili goliardie (“Monsters, inc.”) e riletture di noti stereotipi della società a stelle e strisce (proprio la saga di “Cars” è una di queste), hanno preso a proporre, a fronte di recenti prove interlocutorie (“Oceania”, produzione targata Disney Animation Studios ma riconducibile per toni e sfumature espressive alla fantasiosa associata), l’azzardo sicuro di soluzioni già sperimentate (si parla e si parlerà ancora di “Toy Story”, de “Gli Incredibili”, di nuovo di “Cars”) a testimoniare, da un lato, l’intento - mai negato, peraltro - di capitalizzare in profondità intrecci e simboli entrati a far parte del quotidiano di milioni di persone; dall’altro, ed è l’aspetto più interessante, palesando un fermento da saturazione dacrescita, se così si può dire, tale da non escludere in prospettiva il ripensamento radicale degli orizzonti d’un intero mondo, il proprio, ossia quello del fantastico che in parte s’è concorso a rivitalizzare.
All’interno d’una simile contraddizione va perciò inquadrata la terza (e, come accennato, quasi certamente non ultima) incursione di Lasseter e soci nel mondo a parte costituito dai prototipi capitanati da Saetta Mc Queen, qui di nuovo chiamato a comporre la sua baldanza anni Cinquanta (si torna, per riflettere su sé stessi e il proprio avvenire, a Radiator Springs, con i suoi circuiti polverosi e i suoi richiami pubblicitari verniciati su legno) al cospetto d’una delle varianti della condizione eroica, quella tripartita in sconfitta/maturazione (accettazione dei propri limiti)/riscatto, deuteragonisticamente incarnata dal rovescio imposto dalla prepotenza modernista di Jackson Storm (epitome delle nuove generazioni impazienti e, più in generale, del tempo che passa), a riproporre uno dei tipici schemi Pixar, a dire la rappresentazione d’una realtà in costante tensione fra un passato non esente da venature nostalgiche (la, almeno in superficie, placida e soddisfatta America eisenhoweriana, con i suoi addentellati di ruvido e schietto provincialismo) e un futuro latore tanto d’incognite (l’arroganza come grimaldello; l’invadenza del denaro) quanto di stimolanti promesse (in primis quelle legate al benessere e al progresso tecnologico). A temperare i vari attriti di questo universo e di questo immaginario esclusivamente industriale da cui è stata espunta (eliminata ?), in una singolare assonanza cronenberghian-ballardiana, la componente umana, pur conservando forme e proporzioni che a essa irresistibilmente rimandano (alludendo magari in modo criptico a una eventuale e fulminea catastrofe su larga scala), interviene Cruz Ramirez, ammiccante e intraprendente beginner in grado di somministrare a Saetta salutari iniezioni di coraggio, come di proporre un contraltare edificante ma persuasivo a un’irruenza a volte autolesionista (il protagonista non esita a correre rischi enormi pur d’aggiudicarsi una gara del Campionato Piston Cup) vissuta forse quasi fosse la scoria irriflessa d’un percepirsi oramai come un anacronismo.
Se il tono tutto sommato crepuscolare della vicenda emerge a tratti nel racconto conferendo a esso la scansione e la facile sentenzionsità d’un apologo adulto, ilari e ludici restano i momenti di pura progressione cinetica scanditi dalle gare ufficiali e dal percorso d’allenamento intrapreso da Saetta una volta perduta la sicumera da primo-della-classe e riconosciuta l’utilità della presenza maieutica dellarookie Cruz. E’ pur vero, d’altra parte che, alla lunga, si rivela un tanto stucchevole la caratterizzazione etnica dei personaggi (oltremodo sottolineata nella versione italiana), quasi a sostituire l’apertura libertaria e progressista comune a un’intera filmografia col semplice accumulo della sua presenza. Uguale impressione suscita, poi, l’ennesimo accento ad hoc scolasticamente posto sulla dimensione solidale d’un nucleo d’individui stretti in comunità, da sempre leva resiliente da opporre alle piccole e alle grandi vicissitudini. In entrambi i casi, comunque, si conferma - di pari passo con il fascino dell’inorganico preconizzato da Benjamin e nello specifico prevedibilmente enfatizzato nei suoi tratti più infantili - l’incanto di base d’una stilizzazione e d’una approssimazione alla fluidità assoluta come premessa privilegiata per l’accesso alla meraviglia: prerogativa che, se per un verso rafforza i traguardi di padronanza raggiunti nell’ideazione e nella resa delle Tecniche, per l’altro e in questo caso, tradisce - e a maggior ragione in un contesto non appieno supportato da uno slancio originale - la primitiva antinomia secondo cui dietro l’afflato perfezionista della Macchina spesso è possibile intravedere il profilo d’un volto austero, non necessariamente benevolo.
TFK
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