martedì 17 ottobre 2017

L'UOMO DI NEVE

L'uomo di neve
di Tomas Alfredson
con Michael Fassbender, Rebecca Fergusson, Charlotte Gainsbourg
genere, drammatico
Gran Bretagna, 2017
durata, 125'



In "Lasciami entrare", i dispiaceri del giovane protagonista erano il frutto delle vessazioni subite da parte dei compagni di scuola, i quali, superiori per numero ed età, non perdevano occasione per metterlo alla berlina; ne "La talpa", invece, le disfunzioni dei servizi segreti britannici derivavano dal tradimento del gruppo di uomini che un tempo li aveva resi famosi e invincibili. In entrambi i casi il male viene da lontano, ed ha a che fare con la violazione di un unione inizialmente sancita dalle regole comuni e da un patto di amicizia fondato sulla reciproca fedeltà della parti. Non sappiamo se sia un semplice coincidenza, o se dietro la scelta di portare sullo schermo la trasposizione dell'omonimo romanzo di Jo Nesbo ci sia, da parte di Tomas Alfredson, il desiderio di continuare a raccontare un certo tipo di storie. Fatto sta, che, anche ne "L'uomo di neve", a fare da motore alle vicende della trama è la necessità di fare i conti con i fantasmi del proprio passato, allo scopo di liberarsene una volta per tutte.
Ne "L'uomo di neve" questo assunto è così importante che il regista decide di piazzarlo all'inizio del film, all'interno della scena che fa da antefatto alle nevrosi del futuro serial killer. Senza scendere nel dettaglio, ciò che interessa al cineasta (anche a costo di giocarsi la possibilità di aumentare il mistero, svelandone le ragioni un poco alla volta) è cristallizzare le caratteristiche di una tragedia che, alla pari degli altri suoi lavori, si colloca all'interno del sodalizio famigliare e in uno spazio-tempo antecedente al presente della storia.
In più, nel corso della vicenda, dominata dalle indagini del detective Harry Hole impegnato in una corsa contro il tempo nel tentativo di scongiurare l'ennesimo delitto, il tema del passato come luogo di tormento del quale disfarsi - anche a costo di spargere altro sangue - è presente, oltre che nel modus operandi dell'assassino, anche in altri rivoli della storia, impressa con il fuoco nelle motivazioni (private) che spingono la recluta interpretata da Rebecca Ferguson a gettarsi a capofitto nella ricerca dello spietato criminale.

La continuità offerta alla cinematografia del regista da un titolo come "L'uomo di neve" non si risolve nella presenza del tema principale ma si estende alle peculiarità produttive, a cominciare dalla scelta di scrivere la sceneggiatura sulla base di un romanzo di consolidato successo, così come nella possibilità di ritornare a girare in Scandinavia, usufruendo del vantaggio di ritrovare atmosfere e paesaggi già incontrati nell'opera d'esordio. E, ancora, di lavorare con una star del calibro di Michael Fassbender che, alla pari dei vari Gary Oldman, Colin Firth e Tom Hardy, dota il film di un surplus di notorietà (e glamour, per la fascinazione del pubblico femminile nei confronti di Fassbender) ancor prima di iniziare a girare. Questo per significare come, arrivati al nastro di partenza, non mancassero al regista gli strumenti - economici ed artistici - per ripetere e, perché no, migliorare il buon esito dei lungometraggi che si era lasciato alle spalle.
A questo proposito bisogna dire che l'intento di incidere sulla materia, elevandola al di sopra della mera routine, è come sempre visibile nel lavoro di Alfredson. Senza smontare i meccanismi del thriller, ne utilizzarli come pretesto per raccontare altro, il regista si rivolge al testo di Nesbo mondato dalle convulsioni e dalla fretta tipica di un certo cinema hollywoodiano.

Ciò si traduce - come già era accaduto per gli altri film - in una narrazione che si prende il tempo necessario per scavare nello stato d'animo dei personaggi, concedendo alle traiettorie esistenziali la stessa importanza di quelle relative alle procedure investigative. Le atmosfere, cupe e depresse, il paesaggio, invernale e gelido come si addice a una storia di amori non corrisposti, passano tutt'altro che inosservati, eppure "L'uomo della neve" non riesce a fare suoi i cliché tipici del genere, lasciando che siano quelli - e non la profondità dello sguardo - a fare la parte del leone. A risentirne sono dunque il pathos e la tensione derivanti dal gioco di scacchi tra bene e male, e l'adrenalina che di solito scaturisce dal fatto di non sapere se il detective riuscirà a leggere le mosse dell'avversario.
Nel caso in questione, il senso dell'imponderabile viene influenzato, e diremmo quasi, sminuito, dalla sensazione di deja vù prodotta dagli elementi che gli fanno da contorno; a partire dal mix di genio e sregolatezza presenti nella personalità di Hole, cane sciolto segnato dai fallimenti sentimentali e fiaccato dalla dipendenza alcolica che lo ha ridotto a una sorta di reietto, e continuando con le attitudini e gli umori di chi ne condivide parte della vita, tutti, nessuno escluso, ingabbiati in una commedia umana dove gli imprevisti dell'esistenza faticano a uscire fuori.

"L'uomo della neve" sembra non accorgersi dei suoi difetti, distratto com'è dalla ricerca di qualità formali e drammaturgiche in grado di legittimarne l'autorialità. Filmato in maniera anti naturalistica e provvisto di alcuni degli stilemi tipici del regista (su tutti le inquadrature con i protagonisti ripresi attraverso le finestre delle loro abitazioni) "L'uomo della neve" punta le sue fiche su un' artificiosità (per esempio quella di alcune riprese montane e delle scene girate a bordo dell'automobile in cui strapiombi e paesaggio sono filmati a parte e integrati in un secondo momento), che vuole essere lo specchio delle distorsioni mentali dell'assassino o, forse, la rappresentazione di un mondo beffardo e grottesco come la faccia del pupazzo di neve che annuncia il compimento dei delitti. Spiace dirlo, ma anche da questo punto di vista il risultato non è all'altezza delle aspettative, frustrate da un'incompiutezza che rasenta la banalità.
A conti fatti, il vero rebus de "L'uomo della neve" non è dato dal tentativo di capire l'identità dell'assassino ma risiede piuttosto nel mistero che ha spinto registi come Martin Scorsese - che avrebbe dovuto girare il film - e Tomas Alfredson a interessarsi al romanzo di Nesbo. Ciò che abbiamo visto non giustifica questo tipo d' attenzione.
Carlo Cerofolini

(pubblicata su ondacinema.it)

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