"The deer hunter"/"Il cacciatore"
di: M.Cimino
USA - 1978
con: R. De Niro, C. Walken, M. Streep, J. Savage, J. Cazale
132'
Forse c'e ' stato un tempo in cui ci siamo trovati bene con noi stessi, in cui
abbiamo provato a vivere e ad amare. Ora questo tempo e' finito. "Adesso", come
ammonisce Henry Miller, "siamo soli e siamo morti. Non cambierà stagione".
Allora resteremo così, tra noi, ad intonare mesti "God bless America",
preparando la tavola di questa che sarà la nostra infinita ultima cena.
Tale e' l'apparente conclusione/epitaffio di una delle più controverse pietre
angolari della storia della cinematografia americana degli ultimi decenni, un
film che e' insieme romanzo di formazione e ritratto dell'amicizia virile, war-
movie e racconto intimista, corposo e dolente melodramma: "The deer hunter"/"Il
cacciatore" (1978) di Michael Cimino.
Controversa perché - al di la delle polemiche contingenti relative soprattutto
ad alcune sequenze in cui la violenza e' mostrata senza infingimenti o alle fin
troppo dibattute scene inerenti la macabra partita della "roulette russa",
(metafora con ogni probabilità del tutto indigesta di un paese che con la
guerra nel sud-est asiatico si pianta da sola la pistola alla testa) - Cimino
e' un regista che rappresenta un'anomalia anche all'interno di quella variegata
galassia di autori che impose nuove idee e nuovi schemi al cinema USA
dell'epoca e che fu ribattezzata New Hollywood.
Di formazione artistica, studi di architettura, di arti grafiche, un dottorato
in pittura a Yale, di carattere al tempo schivo e spregiudicato, Cimino guarda
San dagli inizi all'universo delle immagini e del cinema come ad un sistema di
segni che nella più ampia disinvoltura nell'utilizzo delle forme e dei
linguaggi può concorrere allo scopo di restituire - in una sorta di tela
immaginaria senza contorni - lo sforzo di libertà di una mente creativa.
Non a caso, a proposito del suo esordio,
"Thunderbolt and Lightfoot"/"Una calibro 20 per lo specialista" (1974), il
regista riflette sul fatto "che ciò che costituisce i ricordi più vividi, ciò
che ci appare ancora vivo, sono i momenti di libertà, la gioia di vivere".
Questo desiderio di scoperta, di esplorazione del mondo, di nuove possibilità
espressive senza mediazioni, soprattutto senza "prudenze", se da un lato lo
accomuna agli esponenti ormai celeberrimi della New Hollywood di fine anni '70
- Spileberg, Lucas, Coppola, Scorsese, De Palma, Milius, Bogdanovich, per
citarne alcuni - tutti, con ovvie sfumature stilistiche e contributi personali,
interessati ad esempio alla rivisitazione riveduta e corretta di certi "miti"
tipicamente americani (l'individuo, la comunità, l'amicizia, la giovinezza e il
rapporto con il tempo, l'afflato morale o moralistico, i riti d'iniziazione
alla vita, l'esperienza del sangue ne della morte); alla riscoperta in chiave
lirica del paesaggio; ancora, alla trasformazione dei canoni e dei modi di
fruizione del mezzo cinematografico; dall'altro, lentamente, ma con una
inesorabilità che nel tempo e' andata acuendosi, lo ha emarginato, escluso
dagli ingranaggi produttivi, proprio in ragione di questo suo irrequieto
aggirarsi tra i generi ( road- movie, melodramma, affresco storico, noir
metropolitano, western suo generis...) ma sarebbe più giusto dire nel cuore
stesso della più grande macchina deputata ala creazione dell'immaginario
collettivo mondiale mai esistita.
E sempre senza rete, con generosità, come un abbraccio.
Ad esempio, senza "zattere" produttive (vedi, per dire, l'abilità di Spielberg
e Lucas di giostrare a proprio favore l'innovazione tecnologica o la maestosa
"tirannia" esercitata da Coppola sul suo cinema adulto, seppur con esiti
autolesionisti, se non disastrosi: il fallimento della Zoetrope e il cronico
disagio a mettere in piedi nuovi progetti). Senza rielaborazioni teoriche,
riletture e aggiornamenti di capisaldi dottrinali (si pensi all'operazione
vasta e profonda sotto questo punto di vista portata avanti da cineasti come De
Palma e Bogdanovich, acutissimi conoscitori del cinema come strumento di
invenzione/reinterpretazione della realtà). Senza un retroterra socioculturale
fortemente caratterizzato da cui imparare e attingere suggestioni (si noti il
ruolo delle origini, della tradizione, della comunità italo-americana nella
storia di uno come Martin Scorsese, con tutto il suo corredo di ricordi, di
fervori e di attriti tra due culture; così come la precoce attrazione per il
cinema, la fascinazione per il mondo delle gang di strada, il basso continuo di
un ambiente religioso frequentato, ripudiato ma mai totalmente rimosso).
Ebben, la mancanza di tutto ciò, con tutti i limiti e le approssimazioni del
caso, le possibili complicità, inerzie e incapacità dello stesso autore, fa di
Cimino una sorta di strana escrescenza piantata - e non e' un paradosso - nel
bel mezzo del cinema americano, sorta di opacità di continuo ignorata, grumo
oscuro che nessuno nota più oramai da lire un quindicennio (l'ultima prova del
nostro, "Sunchaser"/"Verso il sole", fa male pure scriverlo, risale al 1996 !).
E l'approccio fornito alla materia di quello che resta il suo film di maggiore
impatto emotivo di massa e riscontro mediatico, "Il cacciatore" appunto, -
cinque Oscar, tra cui miglior film e miglior regia - non si discosta molto da
quanto detto.
Innanzitutto e' bene ricordare il periodo in cui la storia del film prende
corpo: più o meno il 1976.
Se si considera come data ufficiale d'inizio del conflitto vietnamita il 1964
e il cosiddetto "incidente" del Tonchino (sorvolando sul
A presenza nell'area di consiglieri militari statunitensi già dalla seconda
meta del decennio precedente); che il ritiro definitivo delle forze americane
e' del 1973 e che la caduta di Saigon risale al 30 aprile 1975 - "April is the
cruellest month..." ricorda Eliot e per gli USA e' un ricordo straziante - ci
si rende conto quanto sia per certi versi inquietante la proposta all'occhio e
al cuore americano medio di una pellicola come "Il cacciatore" nel 1978.
Data per acquisita la storica diffidenza della major hollywoodiane a trattare
temi di stretta attualità politica o sociale, dal momento che il sorgere di
contrasti, di tensioni, l'eventualità tutt'altro che remota al tempo di vere e
proprie forme di sabotaggio, influisce negativamente suo profitti, unico e solo
scopo da sempre dell'industria cinematografica a stelle e strisce, esisteva un
reale problema di come porsi di fronte a quella che giorno dopo giorno andava
sempre più assumendo i contorni di un'autentica tragedia nazionale, di una
sconfitta umana, civile e morale, al punto da essere da quel momento in poi
citata-evocata-esorcizzata ad ogni coinvolgimento in arme del paese.
Cimino - in compagnia del solo Coppola col suo quasi coevo (1979) "Apocalypse
now" gioca da subito la carta di un percorso obliquo rispetto agli stilemi
abbastanza consolidati del "war movie", in specie in salsa americana. Ovvero,
evita l'approccio naturalistico, eccessivamente ancorato alla realtà (il
Vietnam e' il primo conflitto seguito si può dire in diretta dalla televisione
e riproposto da tutti i mezzi di comunicazione di massa. "Realtà" ventiquattro
ore su ventiquattro, quindi) e opta per una scelta emblematica, simbolica,
spesso dagli accenti elegiaci e melodrammatici, addirittura - in Coppola -
grotteschi/allucinatori (in "Apocalypse now" la guerra e' una sorta di iper-
spettacolo insensato, fuori controllo, nonché sanguinoso).
Ciò che ispira Cimino e' più che altro la grande tradizione della letteratura
avventurosa e di formazione/scoperta del secolo precedente, spesso incentrata
sulla ricerca di una via di uscita dalla"civilizzazione" e sulla riconquista di
una variante della primitiva condizione "naturale". Già il titolo originale,
"The deer hunter", più o meno "Il cacciatore di cervi", richiama il James
Fenimore Cooper di "The deer slayer", "L'uccisore di cervi", romanzo del 1841
facente parte del ciclo detto "Leather stocking tales", in cui sono variamente
presenti spunti come l'analisi dell'individuo e il suo rapporto con la natura;
la passione per la caccia intesa come confronto leale; la fratellanza e
l'amicizia; la solidarietà nel lavoro; l'inscrizione della vita umana entro la
riproposizione di rituali come il matrimonio o l'esperienza bellica dalla quale
acquisire consapevolezza; tutti in buona parte riletto e rielaborati dal film
nelle figure del gruppo di amici che ne compone l'ossatura e il centro.
Mike (R. De Niro), Nick (C. Walken), Steven/Steve (J. Savage) Stanley/"Stosh"
(J. Cazale), John (G. Dzundza), e Axel (C. Aspergren), sono un gruppo di amici
che vive in un piccolo borgo siderurgico della Pennsylvania, Clairton. Quasi
tutti occupati nella locale acciaieria, trascorrono il tempo tra il lavoro,
qualche birra nel locale di John, occasionali battute di caccia al cervo,
timide avances alle ragazze del posto, tra cui Linda (M. Streep). Richiamati al
fronte per il conflitto in Vietnam nell'imminenza del matrimonio di uno di loro
(Steven), partiranno in tre, ognuno dei quali vedrà la propria vita cambiare da
cima a fondo. Mike tornerà coperto di decorazioni ma sempre più chiuso in se
stesso, attaccato alla propria disciplina interiore che lo ossessionerà
persuadendolo di non aver fatto abbastanza per riportare a casa il suo grande
amico Nick e che gli impedirà anche di vivere un rapporto sereno e magari
compensatorio con Linda, promessa sposa di Nick ma non indifferente al fascino
ombroso e controverso di Mike. Nick, il più mite, "puro" dei tre troverà la
morte in una Saigon in preda al caos della smobilitazione forzata e del
precipitoso quanto poco onorevole ritiro delle truppe americane, nel gorgo
passivo di un folle rilancio alla scommessa efferata della "roulette russa".
Steven, timido e timoroso, finirà i suoi giorni su ma sedia a rotelle
orribilmente mutilato. Nulla, insomma, sarà come prima. Per nessuno.
Suddiviso in tre grandi "blocchi" della durata di circa un'ora ciascuno, il
film si snoda in ampie e solenni sequenze dagli accenti alternativamente epico-
contemplativi (le scene relative alle battute di caccia in montagna);
descrittive/naturalistiche (le lunghe immagin del matrimonio di Steven riprese
secondo la geometria autentica di un rito ortodosso); malinconiche/
melodrammatiche ( le riflessioni in primis di Mike e Nick riguardo alle proprie
attese per il futuro; le loro perplessità sentimentali e la volontà ribadita di
rinsaldare l'aspra amicizia che li lega. "Non venissi tu a caccia, ci andrei da
solo", confessa Mike a Nick); goliardico-cameratesche ( le risate, i canti, e
le battute al bar davanti al biliardo; gli scherzi al promesso sposo Steven;
gli scambi a base di freddure e nonsense: "Ma tu dici solo d'accordissimo, Axel
?". "D'accordissimo", risponde Axel.
Denominatore comune, l'atteggiamento dei personaggi, in particolare quelli
principali, che sembrano assistere, quasi trascinati da una forza più grande di
loro, allo sbriciolamento delle loro esistenze. Forza che non e' solo il flusso
distruttivo centripeto della guerra ma pure e forse soprattutto una specie di
oscura dannazione che prima o poi raggiunge e travolge tutto, come non ci fosse
possibilità di scampo, una volta usciti da quella condizione originaria che
solo Mike - sorta di figura archetipica: eroe e asceta, guerriero e filosofo -
anche a costo di subire lo scherno degli amici, fa di tutto per preservare. Un
equilibrio ancestrale che si regge su l'amore e il rispetto per il mondo che ti
accoglie; sulla lealtà che "devi" a qualunque forma di vita esistente perché
anch'essa parte di un respiro più grande - tutta la piccola mistica del "colpo
solo" e' racchiusa in una laconica nota di Mike: "Il cervo non ha il fucile".
Eppero' anche e primariamente sull'essenza davvero drammatica e irriducibile
riconosciuta alla morte, che nella ritualità di un gesto letale ma sincero
trova la sua sacralità e in parte si ridimensiona, si "umanizza", mentre
lasciato all'arbitrio o al capriccio non e' che la banalità più vuota dentro
uno stupido gioco di annientamento (la roulette russa).
Recitato da attori in stato di grazia, su tutti fa piacere ricordare uno
splendido Christopher Walken - Oscar come migliore attore non protagonista -
che racchiude il suo Nick entro una bolla di magica beatitudine ("Mi piacciono
gli alberi in montagna. Perché... Sono diversi"), un alone d'imponderabilita
prima che il destino si incarichi di distruggerla, confinandolo in una febbrile
e assorta follia. Poi, un ottimo De Niro, nei panni di Mike il leader del
gruppo, lontano galassie dalla sbiadita indolenza che caratterizza quasi tutta
la seconda parte della sua carriera. Quindi, un'incantevole e introversa Meryl
Streep, dai lunghissimi capelli biondi e l'incarnato diafano, Madonna
rinascimentale incerta e profondamente infelice, in eterno divisa tra
l'intransigenza quasi monastica di Mike e la dolcezza disarmata di Nick.
Infine, una menzione particolare e' il gustoso John Cazale, sardonico e
attaccabrighe, sempre "con in mano quella stupida pistola, che non sa nemmeno
usare" (Mike), che - ahinoi - non vide mai l'uscita del film per via di un tu
ore alle ossa che lo porto via poco prima.
Impercettibilmente il film e' come avvolto dalla partitura musicale di Stanley
Myers che ogni volta diffonde sulle immagini una pellicola di una conturbante
quanto contagiosa tristezza. Fuso con essa, la mano esperta di Vilmos Zsigmond
ritrae con toni morbidi in cui prevalgono le gradazioni scure il capitolo delle
nozze di Steven; si avvale di lampi di colore più marcati nella parte centrale
dedicata alla guerra vera e propria e desatura il più possibile a luce
nell'epilogo, il momento del dolore e del silenzio.
"Il cacciatore" nelle mani di Michael Cimino finisce per comporsi come un
ingrato ma riuscito equilibrio di elegia ed epica; di ricostruzione storica e
gusto per la vita quotidiana di provincia; robusto dramma bellico e ostinazione
per l'avventura in un mondo che già non vuole più saperne; occhio partecipe
alle vicende individuali e interrogazione inesausta sulle aspirazioni e sui
destini di un'intera nazione: perché, dopotutto, sembra suggerirci questo
cineasta forzatamente scomparso dalla mappa del nostro immaginario, intorno a
quel tavolo, il tavolo del dolore e della disperazione, appesantiti, storditi o
vinti dalle sofferenze, dai rimpianti, dalle grettezze, un po' ci siamo anche
noi. E se vogliamo ricominciare, e' insieme che dobbiamo farlo.
(di TheFisherKing)
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