martedì 25 aprile 2017

LA TARTARUGA ROSSA

La tartaruga rossa
di, Michaël Dudok de Wit
Francia, Belgio, Giappone ,2016
genere, animazione
durata, 80'


"Though now this better life
has brought a different understanding
And through these endless days
shall come a broader sympathy..."
- King Crimson -



Febbrilmente a riparo di noi stessi per il tramite di un cinismo in forma di corazza tanto spessa quanto di scarso pregio e mai indifferente alle lusinghe dell'opportunismo, con ogni probabilità scrolleremo le spalle dinanzi al mistero antico che si fa largo dal carapace spalancato di un'opera come "La tartaruga rossa", animazione soavemente impassibile nell'essenzialità geometrica delle sue linee in felice equilibrio fra le sottrazioni di certi estri di matita nord-europei e la misura stilizzata d'impronta giapponese, e come maternamente irridente, per contrasto, nei confronti della stoltezza con cui la condizione umana si limita a riproporre sé stessa senza che questo comporti quasi mai modificazioni apprezzabili alla sua essenza, tanto da originare scarse o nulle ricadute in una prassi già da par suo avvilente.

Proprio la scelta narrativa di un frangente al contempo avventuroso e archetipico, trasfigurato pressoché senza attrito negli spazi aperti di un apologo esemplare - un uomo solo in mezzo all'oceano trova per caso salvezza dai flutti su un'isola di certo più piccola delle sue presunzioni (più volte egli tenta di abbandonarla, negando l'evidenza di dover fare i conti con una nuova dimensione psicologica e materiale della realtà), epperò salda nella irriducibilità tranquilla della sua naturalezza - regala al lavoro di de Wit (a cui non è estraneo, e non solo per via della co-produzione, il respiro ampio e meditativo, l'attenzione sia minuziosa che stupita per i dettagli, l'ineffabile senso di perdita e la dignitosa malinconia che ad esso s'accompagna, ossia il magistero compiuto dello Studio Ghibli, qui nella persona di Takahata Isao, genius loci in veste di supervisore artistico) il sapore raro delle cose ultime, delle piccole/grandi verità nude, scevre della retorica e dell'apparato interpretativo con cui in genere la cosiddetta modernità tenta di circoscriverle, vuoi perché oramai incapace di stabilire con esse un dialogo fecondo, vuoi perché persuasa, nel trionfo terminale del materialismo, del loro ruolo di cascame irrazionale che a ritorni successivi rallenta il corso fatale del capitale e delle merci.

A qualche raro mendicante d'azzurro, a cui s'aggiungerà col tempo il novello Robinson del film e il suo sparuto seguito di granchi dispettosi (trasfusione quasi indolore del micromondo animista miyazakiano), sarà forse sufficiente a conciliare un sentore d'intolleranza al pragmatismo acritico e alla monetizzazione di ogni istante del suo quotidiano, la minuta granulosità pastello dei cieli e delle vastità marine vicine a Seurat e a talune intuizioni di Signac; il verde nuovo e vispo che fiorisce, degrada e rinasce per nessuno, della vegetazione dell'isola; la distante persistenza bruna delle pietre; lo splendore argenteo della sabbia notturna, così simile ai bagliori opachi della neve appena caduta. Lo stesso per il silenzioso squarcio dell'aria rappresentato dal volo degli uccelli; per la chioma rossa come lo scafo di Nerval della femmina/Natura pronta a donare dolcezza e spessore a una solitudine senza scampo o per l'antracite espanso punteggiato di stelle, del firmamento. Ogni cosa a ruotare all'interno dell'unico eterno presente tollerabile, quello circadiano, campo limitato ma esperibile da cui attingere aspettative, ricevere rifiuti o impreviste ricompense, su cui fantasticare o da torcere in allucinazione, attendendo il balsamo della morte: per una volta senza bisogno di parole. 

TFK

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