venerdì 16 dicembre 2016

I PADRONI DELLA NOTTE

I padroni della notte
di James Gray
Joaquin Phoenix, Mark Whalberg, Robert Duvall
genere, drammatico
Usa, 2016
durata, 117'




Le sequenze iniziali sono emblematiche: nella prima, a premessa dei titoli di testa una serie di foto in bianco e nero ci mostrano poliziotti intenti a compiere il proprio dovere, poi, dopo uno stacco breve ma significativo, il film si sposta sui due amanti impegnati a procurarsi piacere. Apparentemente inconciliabili, in realtà entrambe appartengono allo stesso album di famiglia e sono poste in sequenza per evidenziare la distanza, fisica e psicologica dei suoi componenti: da una parte un padre ed un figlio che hanno fatto le scelte “giuste” (lui, Robert Duvall,è una leggenda vivente della polizia mentre il figlio, Mark Whalberg è avviato a seguirne le orme) decidendo di sacrificare la propria vita nella lotta contro il crimine, dall’altra la progenie “sciagurata” (a differenza del fratello, Bobby gestisce con successo un locale notturno che è anche un ricettacolo di malavitosi), quella senza coscienza, che sembra fregarsene delle umane sorti e dedita all’ edonismo che caratterizzò gli anni 80.

I primi due si sono annullati all’interno di quell’idea (e le facce anonime degli sbirri ad inizio film ne sono una testimonianza), l’altro invece è deciso ad affermare il proprio io (ed infatti il regista dopo l’anonimato di quelle foto si sofferma sulla sua faccia in primo piano nei secondi che precedono l’amplesso). Due modi di essere solidamente radicati da scelte che non possono tornare sui propri passi e che invece sono messe in discussione dall’importanza dell’accompagnamento musicale: esplicitamente in quello iniziale, dolce e vagamente malinconico, come se la sconfitta del male raffigurato da quelle istantanee fosse uno “stato di grazia” destinato a non durare e poi in maniera subdola ma non meno rappresentativa, in quello cantato da Debbie Harry nel suo hit “Heart of glass” (in cui si narra di un amore che era gas cioè fantastico e che invece si è rivelato un illusione), dove lo spazio più intimo e privato è costretto a fare i conti con l’insistenza del mondo esterno. Esistenze asimmetricamente siderali ma accomunate da certezze raggiunte attraverso compromessi –Bobby per arrivare ha dovuto rinnegare le proprie origini mentre il padre ed il fratello fanno i conti ogni giorno con il rischio di perdere la vita - destinati ad essere messi in discussione dall’ escalation di violenza scateneta dall’ 

irruzione degli agenti all’interno del locale e dal successivo arresto di un potente narcotrafficante . Ancora una volta James Gray sceglie il modello della Crime story per continuare a con/sconfessare la violenza dei rapporti familiari ma questa volta affonda il colpo perché dal confronto con gli altri modelli famigliari (da quello istituzionale della polizia a quello clanico della mafia russa) è quello biologico e tutto americano dei fratelli Green ad uscirne sconfitto. Lo spazio dell’amore gratuito in cui si forma quell’autostima che è segno tangibile di vera libertà diventa un luogo di costrizione e di dolore, in cui affetto e comprensione sono subordinati al rispetto delle regole. Una foresta tentacolare di legami e sensi di colpa che la morte riesce solo a rafforzare (gli esiti del tragico inseguimento fanno di Bobby/Phoenix l’incarnazione di quel figlio che il padre aveva sempre sperato). Per Gray quello che avviene al di fuori di essa è accessorio perché è solo una conseguenza di un impostazione disumana e malefica. Inseguimenti, sparatorie, tradimenti, deragliamento dei sensi appaiono solo pagliativi per evitare di guardare in faccia a quel patto scellerato che è il vero peccato originale dell’intera umanità. In questo senso appaiono fuori luogo certe accuse ideologiche (ma il valore di un opera può prescindere da questo) ed anche il ritardo nella distribuzione (ma dopo Redacted anche queste dilazioni appaiono sopportabili) di un film che nonostante qualche incertezza di sceneggiatura (l’arruolamento in polizia e la trasformazione in Dirty Harry appaiono un po’ forzate e quasi appiccicate al resto della vicenda) ci restituisce il cinema “maschile” di un autore dallo stile rigoroso e che, rispetto al clamoroso esordio di Little Odessa (imperdibile), riesce a dare sfogo con più continuità alle implosioni che attraversano le sue storie con una serie di sequenze (l’inseguimento sotto la pioggia, l’amplesso iniziale, ma anche quella di lynchiana oscurità che ci introduce nelle stanze dove viene lavorata la droga) che rimangono nella memoria. Il fatto poi di collocare la vicenda nei famigerati anni 80, come a ricordarci che il male può prescindere dal fatidico 11/9, da modo allo spettatore di apprezzare un repertorio musicale ingiustamente dimenticato.

0 commenti:

Posta un commento