Jane got a gun
di Gavin O'Connor.
con Natalie Portman, Joel Edgerton, Noah Emmerich, Ewan McGregor, Rodrigo Santoro.
USA 2016
genere, western
durata, 98'
Il western, per certi versi e per un certo tempo, approssimazione coerente per immagini del grande romanzo americano, levita da qualche decennio - tra abbandoni quasi liberatori e recuperi in apparenza similmente febbrili - all'interno di una assai personale agonia della Fine, scissa tra l'irriducibilità all'elegia (prosciugata peraltro da ogni residuo nostalgico e propria di un mondo che ad essa comunque aveva saputo preparare il terreno) e la tentazione di sottrarsi alla transitorietà occasionale (commerciale, congiunturale) da cui gran parte di ciò che resta di quella elegia proviene.
Situate al di là o al di qua di un discrimine oggi come oggi più sentimentale che analitico-descrittivo - eppure non per questo meno esigente - diverse opere, vario il tenore e lo spessore, si sono imbattute a monte delle loro ambizioni in quella che un cavaliere pallido d'eccezione (Eastwood), al culmine d'infinite peregrinazioni all'interno del genere (quindi anche della sua mitologia, ingrediente speciale, quest'ultimo, per ampliare i contorni di una qualunque elegia), ha sintetizzato nella forma di una laconica quanto ineludibile epigrafe, attribuibile per estensione e metaforicamente al western stesso: "Loro però lo meritavano (di morire). Eh, Munny ?". "Tutti lo meritiamo" - "The unforgiven", 1992 - Tale vibrazione, stridula ed estrema, infatti, non ha poi impiegato molto a riverberarsi, con un effetto simile a quello dei proverbiali cerchi concentrici nello specchio d'acqua, sui tentativi finalizzati più o meno deliberatamente a misurare sul campo (cinematografico) la possibilità/impossibilità di quell'elegia (intesa, qui, nel senso più generale e ampio ammissibile, a dire come riflesso di un mondo fisicamente morto ma emotivamente in grado di risuonare). Solo per fare due esempi restando nell'ambito di un passato recente e a testimonianza ulteriore della radicalità di un itinerario - quello eastwoodiano - giunto da par suo a scorgere il punto-di-non-ritorno di un intero immaginario, vale la pena ricordare, secondo la logica della sopraccitata ambivalenza, da un lato, il Jesse James di Dominik (2007), in cui il freddo contemplativo della messinscena è già una presa di congedo oltre che dalla Vita (nello specifico, quella di Jesse, quella cioè di un mito), anche dalla prospettiva leggendaria di un mondo, indi dall'ipotetica sua elegia, minata nel profondo dalla menzogna e dalla manipolazione (Robert Ford è, prima ancora che assassino, un codardo); dall'altro, il fortino agreste di "The keeping room" di Barber (2014), entro cui il canto dimesso ma indomito innalzato a partire da un episodio brutale (anche in tal caso centrato su un personaggio femminile, nello specifico tripartito in altrettante figure-specchio) ma periferico nel corpo enorme e lacerato di un conflitto - la Secessione - programmaticamente indifferente al destino del singolo, tenta di scommettere di nuovo sulle corrispondenze, le analogie e le empatie eventuali con un'elegia a cui ritiene di doversi, nonostante tutto, proclamare affine.
In una posizione intermedia a quelle appena compendiate, è sensato collocare un lavoro come "Jane got a gun", di G.O'Connor (poco prolifico ma interessante autore: il pensiero va agli attriti e alle controverse dinamiche parentali indagati in film come "Pride and glory", del 2008 e "Warrior", del 2011), protagonista la giovane donna del titolo (Jane Ballard/N.Portman), raminga con prole assieme al compagno poco di buono (Bill Hammond/N.Emmerich, attore assiduo in O'Connor) - comunque avveduto e caritatevole quel tanto da sottrarla ad un destino infame - per gli aspri territori del Nuovo Messico, in quei tempi confusi (siamo nel 1871) a ridosso della conclusione della Grande Guerra Americana, durante i quali persino i più senza scrupoli ma decisi (il John Bishop di Ewan McGregor) potevano rivestire le già equivoche sembianze dei garanti e dei procacciatori di futuro, lucrando su un'appena ritrovata fiducia nelle cose tutta presa nello sforzo di disperdere al più presto "l'odore di guerra e morte, ovunque...", rimuovendo, al tempo - e parliamo di Jane - il cruccio di un amore perduto quasi al suo nascere (Dan Frost/J.Edgerton), inghiottito dalle giravolte della Storia e da quelle bene o male infine risputato, almeno per giocare il ruolo di àncora di salvezza un attimo prima del disastro.
Indubitabilmente, l'intenzione di O'Connor, sin quando si concentra sul respiro lungo di un passato che non cessa di far sentire il proprio affanno su un presente ostilmente incerto (ben reso dalle numerose inquadrature che spiano l'opacità ialina della realtà attraverso sguardi annebbiati - quelli di Bill ferito - che non riescono più a mettere a fuoco ciò che vedono o per l'interporsi diretto di superfici trasparenti - specchi, vetri, finestre - che ne alterano la fisionomia), come pure sul contraddittorio viluppo di affetti e incomprensioni incrociate, restituisce, sebbene tratti e per lo più in quei momenti in cui prende il sopravvento una solitudine che non necessita di parole o una desolazione che non è solo la semplice estensione di una vastità disadorna, la fascinazione di quel mondo-a-parte che è/è stato ciò che chiamiamo western, intriso di valori e codici propri (non ultimi, lo stoicismo e la perpetuazione di rapporti oblativi), facendo balenare, di conseguenza e in controluce, la fiamma e la promessa stessa di un'elegia al momento tutta da costruire ma esperibile perchè risultato di un insieme autosufficiente di vicende, di riflessioni, di metamorfosi interiori. D'altro canto, è pur vero che tale intenzione si diluisce presto in un numero risicato di rivoli minori convergenti senza errore nelle medesime acque sovente poco profonde del revenge movie, a cui neanche il fulmineo addestramento alle armi - Jane prese il fucile, appunto, come Johnny quasi cinquant'anni prima, sebbene con ben altri esiti - tra l'altro già ampiamente dissacrato proprio da Eastwood nel senso di una sua progressiva riduzione a gesto anchilosato, fallace, ad avvilente goffaggine atta a sancire l'imminente smobilitazione di un solido arsenale poetico, tecnico, figurativo, retorico, musicale, et., conferisce, oltre alla funzione di elementare intermezzo spettacolare, non si sarebbe preteso una connotazione epica ma neppure l'assenza della minima dimensione tragica. In relazione a ciò, non giova nemmeno la scarsa aderenza o, se vogliamo, la percettibile incongruenza tra la dolcezza moderna dei lineamenti della Portman, la sua complessione minuta, il suo incedere vistosamente sacrificato in abiti rigidi e pesanti e il profilo scabro e sabbioso di vallate e alture (peraltro utilizzate quasi solo come sfondi muti), la quotidianità arcigna di una prassi soprattutto materiale, l'approssimazione architettonica e il luridume di agglomerati (Lullaby, nel caso, ed è un'antifrasi azzeccata) a metà fra qualcosa ab aeterno di-là-da-venire e città nate fantasma. Inoltre, se Edgerton (anche co-sceneggiatore) prova a metterci un po' del suo per rinsanguare la stanchezza-dell'eroe - schiena curva, capo spesso chino, sguardo lontano e reiterato borbottio semi-etilico - ecco che non travalica mai il limite di una partecipazione esornativa lo spietato di turno interpretato con malcelata indolenza da McGregor.
Prevale, in sintesi, su un mondo d'isolamenti tenaci e simmetriche coriacee resistenze, violenze dal sapore arcaico, biblico e speranze quasi fanciullesche, l'inerzia di una spinta daccapo meramente riepilogativo-attualizzante nei toni di un crepuscolarismo talvolta oleografico, che sostanzia se stessa drenando nutrimento dalla suggestione di un'elegia già di per sé residuale, rendendola, di fatto, sempre meno attingibile. Tu quoque, (sweet) Jane.
TFK
0 commenti:
Posta un commento