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13 hours/the secret soldiers of Benghazi
di Michael Bay.
conJohn Krasinski, Pablo Schreiber, David Denman
genere, guerra, drammatico
USA 2016
durata, 145'
Quando le cose sembrano essere
solo quel che sembrano, presto
sembreranno essere ancora meno.
- N.G.Dàvila -
Vetusti rancori, nuovissime crudeltà, recrudescenze sparse di un'attualità che pare aver trovato nel conflitto perenne una delle forme di stabilità più duratura (oltreché, per i soliti pochi, remunerativa. Sebbene: per quanto ancora ?). E, in simil guisa, riverberi, echi, presentimenti - in questo nostro imminente sempre più prossimo - di un futuro oramai privo anche della romantica riserva dell'aleatorietà, promesso com'è ad impazienti catastrofi in risultanza d'inevitabili trasformazioni. Nell'umana difficoltà di discernere (ancora), all'interno di una velocità dei tempi che non concede tregua, il bandolo possibile che accomuna la materia già logora dei primi alla persistenza inquieta dei secondi - per non parlare dell'imponderabilità probabilmente tragica verso cui convergeranno reciproche affinità e simmetriche divergenze - ecco che il rapporto esistente fra spinte così grandi e solo in apparenza lontane, assume aspetti vieppiù interessanti, se non proprio sorprendenti, al momento di constatare una qual attinenza tra la ricorsività propria delle suddette contingenze/avvisaglie storiche e - ad esempio e per ciò che preme in questa sede - le reazioni interne che scaturiscono dall' organismo in espansione, sempre reattivo e ipercinetico (quindi propriamente e completamente moderno) del Cinema di Michael Bay, autore californiano artefice di conglomerati spettacolari totali, ossia, certo, scopici e sonori ma - e non è un paradosso - addirittura quasi tattili nella loro insopprimibile esuberanza ad esistere e sistematica tendenza al riempimento di ogni spazio e istante della fruizione. Corpi, al tempo, appena sbozzati (polarità elementari, caratterizzazioni di norma rigide, piglio reazionario a volte talmente esibito da rasentare il sublime) ed insidiosamente presaghi (i disastri al sapore di dannazione di "Armageddon"; le manipolazioni genetiche ad uso totalitario di "The Island": le molteplici e ancor sfuggenti frontiere della carne nella saga umano-metallica dei Transformers), quand'anche - ed è curioso, visto l'afflato prevalente - inclini alla postura grottesca (il melò anabolizzato, a dilatare in via ulteriore le fattezze di una singolarità già satura, di "Pearl Harbor"), se non al demenziale e al deforme (le perversioni muscolari del sogno capitalistico ben oltre le contorsioni di un orrore che strizza l'occhio tanto al macabro quanto all'idiozia e alla sventatezza, di "Pain and gain"). Secrezioni, stimoli e suggestioni che riaffiorano - in un quadro generale di rimarchevole compostezza e cupo disincanto - in questo "13 hours...", protesi impercettibile (almeno a paragone di altri gesti ed altre epifanie, ben più vistosi e tonitruanti), scivolata senza troppo clamore nel cupio dissolvi dell'immenso apparato digerente dell'intrattenimento globale, in modo non dissimile - a ben vedere - dal terribile fatto che narra - l'attacco terroristico patito dall'"avamposto diplomatico temporaneo" USA in territorio libico nella data simbolo dell'11 set. 2012 che costò la vita, tra gli altri, all'ambasciatore Christopher Stevens - anch'esso già sepolto o, per meglio dire, rimosso dall'incalzare di tanti episodi analoghi in una scansione sempre più frenetica e stordente, da un lato e, su scala prossima alla totalità, dalla certosina educazione/condanna all'oblio assurta, per gradi ma quasi senza ostacoli, a rango di spirito-del-tempo, dall'altro.
"Siamo ospiti indesiderati in questo paese... Non solo fa un caldo boia ma non si riesce a distinguere i buoni dai cattivi. Benvenuto a Bengasi". La notazione offerta da uno degli operatori speciali protagonista del film ad un commilitone appena unitosi al gruppo designato a compiti di "scorta e difesa", al di là della semplice evidenza del suo sarcasmo cameratesco, rivela da subito e in trasparenza - anzi, in controluce, dal momento che l'intero nuovo corpo di Bay si muove sempre su un crinale impreciso fatto di chiaroscuri improvvisi, volti sorpresi da un sole ostinatamente alto all'orizzonte e altrettanto fulminee oscurità, sguardi e parole inghiottiti da un buio ominoso - l'intento di privilegiare l'approccio cauto, diffidente e lo slancio stanco di singoli chiamati ad eseguire un incarico pericoloso in uno dei tanti rettilari della contemporaneità, rispetto ai retroscena geopolitico-spionistico- affaristici che pure, ed è ovvio, gravitano e s'intrecciano là, da qualche parte, sul solito sfondo indistinto, tanto alacre nell'ordire le proprie infinite e complicatissime trame, quanto a volte quasi inerte al momento di replicare ad un contesto che recalcitra alla logica delle simulazioni e degli scenari, al cospetto del quale, poi, infatti, precisamente i singoli finiscono per trovarsi con l'obbligo di agire, supportati solo dall'addestramento e da un disilluso stoicismo ("Tutti gli dei, tutti i paradisi, tutti gl'inferni, sono dentro di te"). In altre parole, Bay prova qui e sovente riesce a tenersi alla larga sia dalla retorica dei nostri ragazzi (retorica che egli non ha lesinato altrove, beninteso, quantunque, a farci caso, orientandola volentieri su un tono sardonico se non caricaturale, comunque di segno contrario a quella più ortodossa profusa, per dire, da uno come P.Berg), sia dall'esemplarità della missione impossibile, come dalla smaccata apologia propagandistica (non a caso i soldati del titolo sono segreti, ossia, più che altro, figure fantasmatiche, di fatto neglette perché sacrificabili alla ragion di stato, all'interno di un episodio della Storia per molti aspetti ancora avvolto da interrogativi), rendendo ancor più manifesta nel suo Cinema - per molti tutto adrenalina e spacconate - l'esemplarità di una componente scettica autolesionisticamente - verrebbe da dire, a rigore - antieroica, venata qua e là da sincero pessimismo e, nello specifico, messa in scena senza esitazioni ("Sei nel mio mondo, ora").
In un'opprimente atmosfera da stato d'assedio, attraversata da luci bluastre e opalescenti, dai bagliori fosforescenti dei visori notturni indossati come emblemi di un raziocinio residuo preso nonostante tutto nello sforzo di vederci chiaro, da spettrali vampe arboree e punteggiata da secchi dialoghi tecnici o da contrappunti tra l'ironico e l'incredulo ("Avete allertato il Pentagono e la CIA ? Eh ? Parlano tra loro ?"), secondo un ritmo sostenuto che ad ogni scarto e sospensione della mdp fa corrispondere il sospetto di una minaccia non più rimediabile, "13 hours..." corre deciso su una direttrice sì parallela ma non estranea alle atonie metaforiche degli uomini scissi tra senso del dovere e progressiva dipendenza da una dimensione di costante prossimità alla Morte che alimenta dal profondo - seppur per contrasto - una sensazione di pienezza di Vita da tempo inattingibile nella cosiddetta normalità, viste di recente ad esempio nelle opere militari della Bigelow e, in parte, desumibili dai rovelli interiori dello sniper eastwoodiano. Direttrice pure non aliena, per altri versi, alla frustrazione fisica per un impasse la cui esizialità corre sul filo dei secondi, riconducibile - nelle forme di un simil-western metropolitano - tanto al furore disperato degli scontri nel sempre attuale "Black Hawk down" di Scott, quanto alle attese cariche di tensione e alle angosce senza volto cadenzate nel "Distretto 13" di Carpenter.
Affiora così, quindi, facendosi ora chiara evidenza, quello scarto elusivo in base al quale il Cinema di superficie di Bay ("La superficie, la superficie, la superficie", ammoniva Patrick Bateman in "American psyco" di Ellis circa un quarto di secolo fa, e mai profezia fu più lungimirante, "Ecco l'unica cosa in cui ciascuno trovava un qualche significato... questa era la civiltà dal mio punto di vista, colossale, frastagliata"), nel suo incessante protendersi verso ciò-che-potrebbe-essere, nella sua ribadita vocazione popolare e plateale, non esclude affatto ma al contrario palesa al suo interno l'esistenza di fratture, di pieghe scabre, appoggi (forse) imprevisti ma utili con cui integrare più ampi punti di vista, nel tentativo di anticipare, prima che tutto sommerga, ciò-che-non-c'è- ancora.
TFK
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