Where to invade next
di Michael Moore.
USA 2015
genere, documentario
durata, 120'
Essendo, oggi in particolare, discernere pietanza grama da preparare (nonché da assimilare, a volte), intruppati come siamo in tempi sempre più avvezzi a privilegiare istanze sedicenti salutiste sotto forma di piatti a base di accessibilità e divulgazione - e tralasciando le sempre presenti e inflessibili regole fissate dalla dieta dello spettacolo - non è inusuale imbattersi in menu confezionati all'insegna della sapida leggerezza, della speziata essenzialità che invece, dopo qualche assaggio, si rivelano dispensatori di sapori poco gradevoli, oltreché fin troppo noti al palato. Tra i casi tipici di questa sorta di equivoco nutrizionale, è possibile annoverare l'ultima creazione dello chef M.Moore, alle prese stavolta con una ricognizione - Francia, Italia, Tunisia, Germania, Portogallo, Scandinavia, alcuni dei luoghi sotto osservazione - intrapresa allo scopo di analizzare-per-comparare particolari caratteristiche dei vari modi d'intendere ciò che resta (e già questo Moore pare ignorarlo) del cosiddetto stato sociale con la corrispondente declinazione vigente all'interno del sistema USA. Dalla mensa di una scuola elementare normanna, a quella rigorosamente a trazione mediterranea della Ducati; da un impeccabile liceo finlandese, alla Faber-Castell di Norimberga dove si lavora trenta ore la settimana ma si viene retribuiti per quaranta; dalla depenalizzazione totale delle droghe operata in Portogallo, passando per l'avanguardistica reclusione-a-misura-d'uomo nel modello norvegese e le innovative cliniche della fertilità tunisine, per arrivare al redde rationem islandese col proprio sistema bancario, Moore propone, dietro la consueta andatura da voluminoso americano in gita e l'aria in bilico tra il turista ammirato e l'esponente all'erta del fu ceto-medio-riflessivo, un campionario di esperimenti sociali riusciti (o in costante perfezionamento), pavlovianamente, verrebbe da dire, accostati allo sfascio senza appello della prassi a stelle e strisce "che pur parte di quelle idee aveva ispirato".
Ciò che ne scaturisce è un ritratto del regime di vita moderno tutto in orizzontale, in cui al fatale appiattimento di distanza e prospettiva non può che corrispondere un resoconto parziale e, a tratti, distorcente delle cose. Nel senso: se, ed è ovvio, nulla pone in discussione la verosimiglianza delle testimonianze raccolte, è pur vero che una contestualizzazione di fondo schematica e frammentaria (che risulta, tra l'altro, andare persino stretta a taluni casi specifici presi in oggetto, nonché sovente incline ad un elementare intento moralistico-pedagogico - seppur qua e là divertito - circa sorti e progressive caparbie e in azione nonostante tutto), rischia spesso di non far oltrepassare al materiale mostrato i confini sicuri di un consolatorio senso/luogo comune in base al quale, per dire, tutti o quasi, al di qua dell'Oceano, sembrano lavorare, mangiare, sorridere, insomma godersi la vita, mentre la contrapposizione, il conflitto - sale teorico di ogni frammento della realtà sul serio significativo e, maggior ragione, di lavori siffatti - viene perlopiù lasciato ad una sorta di vaga inesorabilità planetaria che trova sulle spalle dei responsabili da-prima-pagina magari comoda ma ridotta superficie d'appoggio, in un gioco di specchi reiterato e senza variazioni che alla lunga stimola più l'acquiescenza che l'indignazione. Se a ciò si aggiunge l'impianto dichiaratamente edificante della messinscena, con tanto di mdp che si sofferma e isola, ad esergo di ogni frammento, in primi piani icastici i volti delle donne e degli uomini, artefici normali di un'eccezionalità negletta, ecco che diventa ancora più evidente il processo di consunzione di un itinerario critico passato dalla desolazione industriale di Flint, Michigan (città natale dell'autore, documentata in "Roger and me" - al tempo con affettuosa ironia e occhio polemico - come teatro e laboratorio di tante crisi a venire e palestra di un linguaggio che, tra alti e bassi, avrebbe trovato nella commistione di provocazione allegra e sintesi - anche di parte - delle contraddizioni contemporanee, la sua cifra espressiva di riferimento), dalle derive psicologiche dei liceali della Columbine, dalla protervia e dallo smarrimento di una nazione intera prima e dopo il settembre fatale (opere, anche queste, tutto sommato non esenti da un certo didascalismo e parimenti segnate dalla presenza a volte eccessiva del loro autore), al ricorso via via sistematico a più che comuni strumenti affabulatori e contropropagandistici, fino alla resa apparente al folklore e ai proclama che, ad esempio, nella forma minima di lepidezze tipo "gli italiani hanno sempre l'aria di aver appena fatto sesso", sembra fare il paio, in veste di beffardo contrappasso e a mo' di polpetta avvelenata, con l'altrettanto pietosa "mission accomplished" del sempre detestato G.W.Bush.
TFK
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