La casa di Jack
di Lars con Trier
con Matt Dillon, Bruno Ganz, Uma Thurman
Francia, 2018
genere, drammatico
durata, 155’
Siamo negli USA degli anni '70. Jack è un serial killer dall'intelligenza elevata: lo seguiamo nel corso di quelli che lui definisce 5 incidenti. La storia viene letta dal suo punto di vista: egli ritiene che ogni omicidio debba essere un'opera d'arte conclusa in se stessa. Jack espone le sue teorie e racconta i suoi atti allo sconosciuto Verge, il quale non si astiene dal commentarli.
A quattro anni di distanza da “Nymphomaniac - Volume 2”, Lars Von Trier torna con il suo cinema, in cui genio e follia continuano a contendersi lo schermo.
Per leggere questo film, tuttavia, è necessario andare molto più indietro, fino al 2007, quando a Von Trier e a una trentina di altri suoi colleghi venne chiesto di girare un cortometraggio in occasione del 60esimo del Festival di Cannes legato all'idea di cinema. Il regista danese immaginò se stesso a una prima cannesiana di un suo film con accanto uno spettatore americano e spocchioso che, dopo aver continuamente disturbato la visione con i suoi commenti, gli chiedeva che lavoro facesse e Lars, imperturbabile, rispondeva: "Uccido!". Estraeva un'ascia e gli spaccava la testa per poi riprendere a vedere il suo film.
"Io uccido" è la stessa frase che pronuncia Jack a un certo punto del film in un'esternazione che vorrebbe essere liberatoria. Jack è un ingegnere che avrebbe voluto essere architetto perché, per lui, i secondi scrivono la musica mentre i primi si limitano a leggerla. Von Trier in questo film, ancora una volta, si sdoppia: si potrebbe affermare che vuole essere architetto e ingegnere dell'esistenza e lo fa attraverso le due figure di Jack e di Verge, così come in “Melancholia” si identificava nelle due protagoniste, una razionale e l'altra umorale.
Come il negativo della pellicola rappresenta per lui il lato oscuro della luce, così da sempre con i suoi film si spinge a guardare in quell'oscurità che si nasconde nell'animo umano e che può essere ammantata di quella razionalità perversa che ha fatto commettere all'umanità i crimini di massa più efferati.
L'arte può esprimersi nella sensibilità estrema di Glenn Gould, come nell'estetica delle rovine di Albert Speer: tuttavia, quando si traduce in corpi in decomposizione non c'è paragone con la vinificazione che tenga. Von Trier, come sempre, non ha mezze misure: ci mette davanti all'orrore, al sangue, alla putrefazione della carne. Fa poi uccidere delle donne a Jack per poter ironicamente rispondere ai commenti di chi lo legge come un misogino all'ennesima potenza.
Soprattutto, però, fa propria, pessimisticamente, la lettura sartriana dell'esistenza, implicitamente, citando il finale di "A porte chiuse" con quel "L'inferno sono gli altri" che viene esplicitato nella sequenza in cui Jack chiede a una sua vittima di gridare per ricevere aiuto.
C'è questo e molto altro (finale compreso) in un film che, però, fa risuonare un campanello d'allarme. Von Trier rischia di diventare il manierista di se stesso: le citazioni colte, il divertissement con i cartelli sorretti da Dillon, lo stesso uso della camera a mano ricalcano, senza davvero innovarlo, il già visto. Le pur sempre stimolanti strutture che Lars costruisce sullo schermo necessitano di materiali nuovi e vivi.
Riccardo Supino
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