Bokeh
di, Geoffrey Orthswein, Andrew Sullivan
con, Matt O’Leary, Maika Monroe, Arnar Jónsson
USA 2017
genere, drammatico, fantascienza
durata, 93’
The sun shines out our behinds
No, it’s not like any other love
This one is different because it’s us
- The Smiths -
Se, oggi come oggi, il punto non è - come ci è stato accortamente suggerito - cosa possiamo fare noi con la Tecnica, bensì cosa la Tecnica può fare di noi - dove si arriverebbe, allargando in via ulteriore i confini di questo assunto già radicale, qualora dovessimo prendere in considerazione l’ipotesi di interrogarci circa il nostro stesso destino su un pianeta che ci vede unici esponenti del genere sapiens ? E’ l’esatto dilemma che in parte provano a sciogliere Riley/O’Leary e Jenai/(la Monroe di “The 5th wave” e “It follows”) al momento di fare la sconcertante scoperta di essere letteralmente e irrimediabilmente soli al mondo.
Giunti a suo tempo in Islanda per una settimana di vacanza, i due dapprima si dedicano alla routine turistica che accomuna qualunque coppia di giovani innamorati. A dire: visitano cittadine, partecipano a escursioni, saggiano le celebri piscine alimentate da sorgenti calde, osservano stupefatti le meraviglie naturali di lande ancora in grado di emettere una vibrazione primordiale, cenano in ristoranti caratteristici, fanno acquisti, scattano molte fotografie (Riley è un professionista del ramo, uno di quelli che preferisce utilizzare apparecchi pre-digitali)… Sennonché alle 03,24 di una notte che l’estate artica fa somigliare a un eterno pomeriggio Jenai si sveglia, sbircia dalla finestra e per qualche secondo vede un muto bagliore stendersi all’orizzonte. Perplessa, più che turbata, torna a dormire. Il giorno seguente, insieme a un Riley che pare ignaro dell’accaduto, è pronta per un nuovo giro di giostra ma, in città, non c’è anima viva. L’iniziale apprensione diventa ansia e quindi angoscia quando i notiziari spariscono dai palinsesti per oscurarsi assieme agli altri programmi, nessuno risponde alle chiamate via telefono, dalla Rete rimbalzano immagini di luoghi silenziosi e deserti.
In un contesto che, almeno all’inizio, l’inerzia tecnologica mantiene in funzione come una sorta di gigantesco motore al minimo, cosa fare, allora ? Riley possibilista e più incline ad adattarsi via via volge l’ovvio smarrimento in un ingenuo seppur cauto ottimismo, l’intento quello di cercare il modo più indolore per ricominciare, bene o male, a vivere. Jenai, combattuta tra ambivalenti spinte interiori e non rassegnandosi mai del tutto all’impossibilità di fare ritorno a casa, prende a dare sfogo a crucci spirituali inerenti la volontà divina la quale, e nello specifico attraverso il sovvertimento di ogni parametro esistenziale, avrebbe sottoposto lei e il suo compagno a una fatidica prova. In mezzo, la desolazione, talmente totale, unanime e onnicomprensiva da fornire presto il destro all’unica euforia concessa all’animale umano moderno, quella da esercitare sugli oggetti, meglio ancora se in forma gratuita e indiscriminata. Ecco, allora, spoliazioni sfrenate nei supermercati e nei centri commerciali; abiti indossati e rubati solo per il brivido di poterlo fare impunemente; colazioni e pasti consumati in esercizi di cui si sa essere gli unici avventori; automobili a disposizione ai lati di ogni strada; appartamenti da visitare (e abitare) assecondando l’estro del momento, all’interno di scorci urbani mai così incongrui e indifesi, et… a sovrapporre la trepidazione deferente e la sudditanza irriflessa della contemporaneità verso il moloch delle Merci a una reminiscenza giocosamente ludico-dissipativa tipica, per dire, delle teen comedy anni ’80. Aspetto in quanto tale di scarso rilievo, il predetto, se non risaltasse, per contrasto e non isolatamente, entro un tessuto drammaturgico per lo più improntato - nonostante le sottolineature e le diversioni imposte da una colonna sonora tanto insinuante quanto, a volte, fin troppo evocativa - alla registrazione, sovente puntuale (in particolare quando è affidata all’amarezza disarmata di uno sguardo o a un gesto accolto o frainteso), del disgregarsi progressivo del legame tra Riley e Jenai, della difficoltà destinata a farsi insormontabile e a stagnare poi nel disgusto e nel rimpianto, di rimettere a fuoco (il bokeh del titolo allude appunto alle sezioni fuori fuoco di un’immagine fotografica) le coordinate fisiche ed emotive di un rapporto le cui risonanze esulano dai rispettivi universi personali proprio in ragione del fatto di abbracciare per intero, date le circostanze, i presupposti fondamentali e l’eventuale nuovo senso da cementare intorno a vite che, private di qualunque termine di paragone compatibile, necessitano di una vera e propria riformulazione ontologica (non viene mostrato a integrazione della fugace visione iniziale di Jenai alcun elemento tale da inquadrare la corrente fine-dei-tempi in un ambito razionale, scientifico o metafisico), in un sistematico ribaltamento delle prospettive per cui, quando a prevalere - ossia, di nuovo, a stare a fuoco - è, mettiamo, la fiducia quasi adolescenziale di Riley o la sempre più cupa nostalgia di Jenai o, anche, l’attrito come somma difettosa dell’incontro fra tali opposte istanze, il paesaggio materiale (teniamo a mente che parliamo dell’Islanda, terra eternamente vergine appunto perché scrigno di forze originarie che ne rimodellano senza posa la fisionomia) retrocede a fondale occasionale, se non a quinta cartolinesca; parimenti, quando la magnificenza della Natura s’impone allo sguardo, davvero l’impressione è quella di spiare un pianeta appena stabilizzato in cui la presenza umana non è contemplata e probabilmente nemmeno necessaria, a testimonianza di un equilibrio tra Uomo e Mondo che con umiltà e dedizione deve essere ricostruito da zero, se lo scopo è quello di ritagliarsi una possibilità autentica di sopravvivenza.
Il tentativo della coppia Orthswein e Sullivan si concentra quindi - a partire da un canovaccio narrativo assai frequentato, tanto da costituire oramai quasi un genere a sé - nello sforzo di imprimere al film un respiro sia meditativo che vagamente trascendentale (impronta, questa, che funziona meno all’interno di una struttura di suo già piuttosto caratterizzata, come vieppiù appesantita dalla liminare e sporadica apparizione di un terzo interlocutore - Nils/Jónsson - incaricato di diluire la malinconia inquieta del racconto con scampoli di sentenzioso fatalismo), un passo a tratti cerebrale e anti-spettacolare che dia conto tanto dei mai pacificati fantasmi millenaristici a spasso nello sfinito subconscio di massa, quanto dei confini comuni a ogni sentimento passionale che presume di tarare solo sulla propria esclusività la fondatezza di una adesione armonica alla realtà. L’esito è, come accennato, un insieme di suggestioni (forse) fatalmente contraddittorie, eppure talora felici e non di rado invitanti dal punto di vista strettamente visuale, in specie quando a muoverle è l’impazienza dei corpi - la parziale o totale nudità come liberazione estrema ma, ahimè, tardiva - che sembra scalfire la millenaria indifferenza dell’azzurro e delle pietre; o l’abbandono nervoso che il vento esige e a cui la malìa sovrumana dei rari fiori invita, per accordarsi al “battito cardiaco del mondo”, prima che il solito, velenoso impasto di irresolutezza e recriminazioni trasformi la magia di istanti promettenti nel rammarico per un futuro passato.
TFK
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