Dafne
di Federico Bondi
con Carolina Raspanti, Antonio Piovanelli
Italia, 2019
genere, drammatico
durata, 94'
Pur nella sua semplicità, il secondo lungometraggio di Federico Bondi è un progetto di cinema complesso e allo stesso tempo necessario. Nel far coincidere le caratteristiche fisiche della sua interprete con quelle della protagonista, entrambe portatrici di sindrome di Down, il regista si ritrova tra le mani un personaggio già fatto, nel senso che dalle prime immagini si capisce come la vitale simpatia e l’esperienza personale di Carolina Raspanti travasino quasi per intero, nella gestualità e nell’energia messe in campo dalla neo attrice per dare vita a Dafne, il ruolo da cui il film prende il titolo. Una peculiarità, questa, che Biondi valorizza con una trama minimale in cui, fatta eccezione per il drammatico avvenimento con cui si apre la storia, ovvero la morte improvvisa della madre di Dafne, abbiamo a che fare con una successione di sequenze la cui urgenza consiste nel definire l’esistenza della protagonista attraverso il rapporto con gli altri e, quindi, di mettere Dafne nella condizione di partecipare alla vita mediante un continuo scambio di idee e modi di essere. Ad andare in scena, dunque, è una quotidianità priva di eventi che non siano quelli legati all’integrazione della protagonista con il mondo circostante e con le persone che ne fanno parte.
In questo modo, il film esce dall’univocità della sua natura cinematografica, costruendosi una seconda via in cui l’affermazione identitaria della protagonista rispetto alla problematicità del reale diventa una dichiarazioni d’intenti alla quale chiunque – e lo spettatore prima di altri – si può riconoscere e persino appellare. In apparenza a-problematico per l’ottimismo che la protagonista infonde nelle varie situazioni del film, Dafne, al contrario, non si nasconde dietro facili semplificazioni e, anzi, si dimostra consapevole delle difficoltà implicite nella condizione della protagonista, così come in quelle del suo genitore, presentandole al pubblico, nella seconda parte della storia, quella occupata quasi interamente dal viaggio on the road compiuto da padre e figlia nella campagna toscana. Una cognizione della gioia e del dolore destinata a diventare una riflessione (a tratti anche drammatica) che non si limita a lavorare all’interno dell’inquadratura nella (sua) funzione di tema cardine del film, ma che coinvolge cittadini e società in una considerazione più amplia del problema, partendo dalle toccanti e sofferte scene poste a conclusione della vicenda. Di fronte a un simile messaggio è un peccato che la mancanza di retorica con cui Bondi porta avanti la sua regia non sia accompagnata da una struttura narrativa capace di giustificare l’eccezionalità della protagonista e di ciò che essa racconta, affidandone le gesta a un’aneddotica non sempre all’altezza del presupposto tematico.
Carlo Cerofolini(pubblicato su taxidrivers.it)
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