Ride
di Valerio Mastandrea
con Chiara Martefgiani, Renato Carpenieri, Stefano Dionisi
Italia 2018
genere, drammatico
durata, 95'
Che il tema della morte sul lavoro sia tra quelli che stanno a cuore a Valerio Mastandrea lo si era capito ai tempi del suo esordio alla regia, avvenuto nel 2005 con "Trevirgolaottantasette", cortometraggio dai toni surreali nel quale gli istanti del trapasso di un operaio colpito dalla caduta di un pezzo di impalcatura diventavano nella trasfigurazione filmica un congedo dolce amaro dalle infinite possibilità della vita. Queste poche note sono sufficienti per aiutarci a ragionare su quello che può essere considerato l'esordio ufficiale dell'attore romano dietro la mdp, peraltro coinciso con la selezione del lungometraggio nel concorso ufficiale - unico film italiano - della 36esima edizione del Torino Film Festival. Del corto sopra menzionato "Ride" può considerarsi l'ideale seguito perché la vicenda legata al dramma di Carolina e a quello della sua famiglia incomincia laddove si era concluso "Trentavirgolaottantasette", ovvero dal lutto di coloro che hanno subito la perdita. Dunque, "Ride", come sottolineato nella dedica che precede i titoli di coda, è la storia di chi in un modo o nell'altro è chiamato ad andare oltre il dolore per ricominciare a vivere: per dirla come Mastandrea, è un film su quelli che sono rimasti. Se la necessità di poter contare su un punto di vista esterno alla tragedia era stata urgenza della prima ora, a suo tempo risolta con una sorta di sdoppiamento del personaggio interpretato da Elio Germano a cui si assegnava la doppia veste di vittima e testimone, nel caso di "Ride" esso diventa innanzitutto il mezzo deputato a fissare le coordinate spazio temporali della storia, dislocandola nella realtà in modo certo e inequivocabile visto che gli avvenimenti raccontati si svolgono nell'arco della vigilia dei funerale di Mauro, il marito di Carolina, deceduto una settimana prima nel cantiere in cui stava lavorando.
Inoltre, la collocazione post-mortem della storia segnala la volontà del regista di evitare la retorica che scaturisce dalla necessità di far coincidere la cronaca dei fatti con il seguito di stigmatizzazione e di critica conseguente al fatto di ragionarci sopra. In linea con il carattere dei personaggi interpretati, sempre a disagio, sempre fuori posto, ma puri rispetto ai protocolli e alle ipocrisie delle consuetudini sociali, Mastrandrea fa di Carolina il suo alter ego, prigioniera di uno spaesamento interiore che, oltre a non permetterle di vivere il dolore in maniera consueta ("Io voglio e devo stare male. E' un mio diritto!" esclama nel momento del massimo sconforto), la fa sentire attiva e in ottima forma, come risponde al figlio che la rimprovera per non averla mai vista piangere, funzionando - nella sua manifesta alterità - come contrappunto tragicomico all'esasperato ritualismo delle persone che di volta in volta la vanno a trovare per farle le condoglianze. In tal senso la peculiarità estetica e gestuale conferita alla figura di Carolina (le cui movenze aristocratiche e l'algida bellezza marcano le distanze che la separano dalla straripante e talvolta sgangherato estro dell'umanità che la circonda) ben si addice alla volontà del regista di fare del filone narrativo che la riguarda una cosa a se stante rispetto alle storie complementari, quelle in cui il film da conto delle reazioni di Bruno, il figlio dodicenne di Carolina impegnato insieme al compagno di giochi a simulare le risposte da dare alle eventuali domande dei giornalisti presenti al funerale e poi di Cesare e Nicola (Stefano Dionisi restituito al cinema con un ruolo vicino a quelli creati per lui da Pasquale Pozzessere), rispettivamente padre fratello di Mauro, pronti a rinfacciarsi le colpe di un passato che non ha ancora smesso di tormentarli.
Un unicum, quello della protagonista (Chiara Martegiani, brava in un ruolo in cui, il più delle volte, è costretta a recitare con il corpo e con lo sguardo), conferitogli sia dallo status di personaggio principale della storia - nonostante quelli dei personaggi sopra citati non siano da meno - come pure dallo sguardo rivoltole dal regista, capace di farne ambasciatrice di suggestioni e metafore che senza appesantire la narrazione ne accentuano le prerogative antinaturaliste con una elegia visiva volta a costruire - pezzetto dopo pezzetto - una poetica dell'assenza intesa non solo come privazione spirituale e fisica ma anche fattuale. Senza rischio di esagerazioni si potrebbe dire che "Ride" racconti principalmente questa cosa, declinandola sotto le forme più svariate: da quella narrativa ed eclatante delle sequenze finali, dove Mastandrea la rende manifesta in maniera esplicita e diretta attraverso ciò che (non) succede nel giorno del funerale; a quella metaforica, rappresentata dalla scena in cui Nicola si mette a tavola nel posto di solito occupato dal fratello e inizia a mangiare affondando la forchetta dentro un piatto vuoto; confessionale, affidata alle parole di Cesare che attraverso la voce (non a caso) fuori campo si scusa per essere stato un padre assente nei confronti dei figli, congedandosi dal pubblico al termine di un excursus che per forma, contenuti e personaggi può considerasi un omaggio di Mastandrea al compianto Claudio Caligari, mentore e amico del neo regista. Ambientato in una Nettuno sottratta ai segni della mondanità turistico-balneare e trasfigurata quel tanto che basta per farne un vero e proprio luogo dell'anima, "Ride" appartiene alla categoria di film che raccontano l'insostenibile leggerezza dell'essere riuscendo a unire nella medesima visione il cinefilo incallito e lo spettatore occasionale. Certo non tutto è perfetto e qualche addebito si potrebbe sollevare al regista riguardo al fatto che, allontanandosi dal nucleo centrale costituito da Carolina e dal suo habitat domestico, si ha sensazione di una narrazione più debole e meno compatta ma si tratta di inezie se confrontate al soffio di vita e alla bellezza regalataci dal regista e dai suoi meritevoli complici.
Carlo Cerofolini
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