giovedì 27 dicembre 2018

7 UOMINI A MOLLO


7 uomini a mollo
di Gilles Lellouche
con Mathieu Amalric, Guillaume Canet, Jean-Hugues Anglade, Benoît Poelvoorde, Virginie Efira
Francia, 2018
genere, commedia
durata, 122'



“La Francia è la Francia”, diceva qualche tempo fa Jean-Claude Junker presidente della Commissione europea rispondendo in merito alle presunte agevolazioni nei confronti della manovra di bilancio messa in atto dai cugini d’oltralpe. Se in campo economico un’affermazione del genere non può non far discutere, in quello cinematografico calza a pennello con la diversità di un movimento che, a differenza del nostro (e non solo), può contare su un’industria in grado di supportare e dare lustro tanto ai prodotti commerciali quanto alle espressioni più alte e sofisticate della settima arte senza dimenticare la continua osmosi tra cinema e teatro - altra peculiarità autoctona - con il primo che non smette di attingere dal secondo attori e attrici destinati ad alzare il livello della posta in palio anche nell’ambito di produzioni in apparenza meno ambiziose di altre. A dispetto della nomea di gravità e pesantezza ereditata da un cinema (quello parigino) oramai estinto, la maggior parte dei titoli arrivati sui nostri schermi e, in particolare, i generi meno impegnativi, sono attraversati da un’aria di normalità e da una voglia di non prendersi sul serio che permette loro di affrontare con leggerezza temi anche molto drammatici senza perdere nulla in termini di profondità e riflessione.

Alla categoria in questione appartiene - ultimo in ordine di tempo - “7 uomini a mollo” di Gilles Lellouche, il quale, giunto alla regia del suo terzo film, il primo girato senza essere affiancato da un altro collega, racconta caduta e riscatto di un gruppo di quarantenni afflitti e depressi (ai sette del titolo bisogna aggiungere anche i due personaggi interpretati da Virginie Efira e Marina Foïs, esponenti di una compagine femminile altrettanto giù di corda), che prova a risalire la china entrando a far parte di una squadra di nuoto sincronizzato destinata a rappresentare il paese in un’importante competizione internazionale. La presenza dell’elemento acquatico come simbolo di purificazione e di rinascita si addice con il tema del film ma va detto che Lellouche se ne serve in maniera “passiva”, ovverosia non mettendo mai lo spettatore in condizione di rendersene conto, se non come conseguenza del rapporto di causa-effetto stabilito tra l’apprendimento dello sport e i miglioramenti scaturiti dall’applicazione sistematica dei suoi principi, nonché la progressiva riconquista della propria autostima da parte dei protagonisti. Particolare, questo, indicativo di una regia schematica ma efficace anche quando si tratta di mettere insieme da una parte i codici del cinema sportivo, primo fra tutti quello che fa dei sacrifici e della tenzone agonistica una sorta di palestra della vita e, dall’altra, quelli tipici della commedia in cui, come nelle versioni migliori, comico e drammatico si intrecciano in maniera indissolubile.

Senza mai stravolgere del tutto le condizioni di partenza, nel senso che i nostri erano e - nonostante tutto - restano dei nerd anche se in una variante più matura - “7 uomini a mollo” guarda sì al cinema americano (più che a quello di tradizione francese) ma non vi aderisce fino in fondo, soprattutto per quanto riguarda la retorica della vittoria che non rende di colpo i personaggi più accettabili né belli bensì più sicuri di sé stessi e meno vittime della realtà che li circonda. Da questo punto di vista spicca il contrasto tra l’apparato formale costituito da un corredo di hit musicali (a stelle e strisce) energetici e vitali, di quelli normalmente usati dal cinema mainstream per commentare l’eleganza del gesto o la riuscita di imprese epocali, e la prosaicità dei corpi e del contesto ambientale: i primi, ripresi in tutta la loro improbabile decadenza fisica, resa ancora più evidente dal fatto che gli attori sovrappeso e fuori forma sono spesso in costume; il secondo, ridotto a (non)luogo ordinario e anodino, spesso inquadrato per apparire simile a quello di certo cinema exploitation - rivelato dall’uso dello zoom al posto della carrellata in avanti - e a cenni di parossismi tarantiniani,  nella seconda parte, quella dedicata al risveglio dal torpore della routine quotidiana. Tutto ciò nonostante il film rimanga profondamente francese nell’anima dei personaggi, interpretati in modo da restare sempre due passi indietro rispetto ai ritmi dell’esistenza e delle mode e immersi in uno spleen agrodolce a cui si addicono le facce sdrucite di moschettieri del calibro di Mathieu Almaric, Guillaume Canet, Benoît Poelvoorde, Jean-Hugues Anglade. Bastano, infatti, loro a rendere godibile e a giustificare l’intera operazione.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su ondacinema.it)

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