domenica 19 giugno 2016

GLI INVISIBILI: HIGH RISE - SECONDA PARTE


High rise
di Ben Wheatley
con, Tom Hiddleston, Jeremy Irons, Luke Evans, Elisabeth Moss, Sienna Miller, James Purefoy.
UK, 2015 
genere, 
durata, 115'




Proprio intorno a questa ibridazione animale/materiale si muove, frammentato e asettico, laconico e brutale, ciclotimico e sospeso, il resoconto cinematografico di Wheatley. Abbastanza aderente all'intreccio originale che prevede come casus belli la serie d'inesplicabili avarie elettriche che un giorno via l'altro precipita il grattacielo nell'inefficienza paralizzandone le funzioni di sostentamento [e lasciando in breve campo libero al caos nella forma di un homo homini lupus versione XX secolo all'interno del quale, complice una statistica divisione per ceti che si espande man mano verso i piani alti dello stabile - nel cui attico troneggia, progettista e ispiratore di una sorta di neo-Utopia, Anthony Royal (interpretato con la solita eleganza controllata da Jeremy Irons) - i duemila inquilini, tra un party e l'altro, un'orgia e l'altra, una puntata in piscina o al fornitissimo supermercato interno, prendono prima a boicottarsi vicendevolmente, poi a riunirsi in gruppi per impadronirsi e controllare i residui sistemi funzionanti e gli approvvigionamenti divenuti presto sporadici e di fortuna, quindi a bloccare gli accessi tra i vari livelli, in modo da formare isolate enclave in cui rinchiudersi sul tipo di compartimenti tribali gestiti per mezzo di rigidi codici gerarchici e di condotta: ogni passo di questa irresistibile disgregazione segnato dal collante di episodi violenti, saccheggi, devastazioni, abusi... '... è un errore pensare che stiamo tutti spostandoci verso uno stato di felice primitivismo. Qui il modello non sembra essere il buon selvaggio, piuttosto, direi, il nostro sé post-freudiano e nient'affatto innocente, violentato da un'educazione all'evacuazione troppo indulgente, dalla devozione per il nutrimento al seno e dall'amore genitoriale... Una miscela ovviamente più pericolosa di qualsiasi cosa abbiano dovuto sopportare i nostri antenati vittoriani. I nostri vicini hanno avuto tutti un'infanzia che più felice non si poteva, ma sono comunque arrabbiati. Forse è perchè non hanno mai avuto la possibilità di diventare dei perversi...'], "High rise" è altresì attraversato da alcuni (ovvi) cambiamenti di registro [per dire, una delle figure principali, il dr. Robert Laing - un garbato ma sotto sotto ben più che inquieto Tom Hiddleston - giovane insegnate di Fisiologia alla Facoltà di Medicina, ricopre nel film un più marcato ruolo di arbiter di quanto non emerga dalle pagine; l'attribuire minore enfasi sui disservizi prodottisi nel grattacielo può alimentare in chi guarda, magari a digiuno del riferimento letterario, il sospetto circa una qual gratuità della disintegrazione lenta ma sistematica delle barriere sociali e di classe periodicamente ricondotte da Ballard, invece, entro lo stringente binomio erosione (della tenuta complessiva della struttura)/regressione (della popolazione in essa ospitata/reclusa); s’abbozza, ed è un tratteggio, l'instaurazione di un matriarcato arcaico ventilata dallo scrittore britannico come compendio e punto di congiuntura delle nevrosi, delle frustrazioni di una variegata galassia femminile - tanto più o meno privilegiata quanto insoddisfatta - qui esemplificata da una lasciva e avvilita Charlotte Melville/S.Miller; da una sprezzante e ondivaga Ann Royal/K.Hawes e da una solo in apparenza arrendevole e vittima designata Helen Wilder/E.Moss; et.] e da talune variazioni per ciò che attiene i legami che uniscono i personaggi. L'opera prova a spostarsi, così, e a cercare un proprio assetto, sullo scivoloso terreno di confine che accoglie, al tempo, il tentativo di materializzare in modo adeguato un immaginario complesso e sfaccettato, oltreché assai personale (quello di Ballard) e le necessità espressive di un Cinema (quello di Wheatley) aduso alla riproposizione quasi lineare di un realismo incline al nonsense crudele, nonché percorso da sprazzi di follia cieca - sottile ma persistente, guarnita spesso di elementi horror che quel realismo sostengono e vivificano - capaci di lacerare il tessuto molle di consuetudini e dipendenze tenuti insieme dal trito denominatore comune dell'indifferenza e della rassegnazione. Tale accidentata progressione si stabilizza a tratti, ed in genere risulta più salda e coinvolgente sul versante figurativo che non su quello drammaturgico.


In altre parole: se, come è stato da più parti sottolineato (e, magari, ai tempi del romanzo in questione, era ancora possibile illudersi riguardo esiti diversi), la lotta di classe è finita e l'ha vinta il Capitale, ecco che Wheatley affronta uno dei grumi metaforici e preveggenti della narrazione ballardiana - smarrendone, in sostanza, parte del fascino straniante e tacendo il cupo revanscismo incarnato dalla figura di Richard Wilder (restituito con indubbia energia iconoclasta da Luke Evans), autore televisivo deciso ad inerpicarsi tra rifiuti e rottami fino all'eremo del niveo Royal per un risolutivo faccia-a-faccia, diluito in un dispersivo cocktail di furore e velleitarismo - al modo di una serie di rapide e sgargianti scene inframmezzate da dialoghi via via più disincantati e sarcastici, caratterizzate da tonalità cromatiche ora sul filo di una appropriata psichedelia, ora compresse in una specie di bizzarra staticità satura (pareti, ambienti, suppellettili e abbigliamenti affastellano nuance disparate, dall'ocra, al rosa, al pesca, passando per il verde mela, il rosso scuro e il bianco accecante, in un caleidoscopio di proposito contundente, esaltato dalla mdp che volentieri ne coglie il nitore, la prepotenza o l'opacità dal punto di vista di inquadrature sghembe o morbidamente sospese) e nelle quali la classe lavoratrice, quella borghese delle professioni e quella dell'aristocrazia del denaro, fanno sfoggio delle rispettive miserie come fossero il portato di un improvvido, quasi casuale imbarbarimento, mentre in realtà riflettono il silenzioso ma inesorabile lavorìo di un contesto particolare (a sua volta allegoria di un sistema globale che non prevede più vie d'uscita) che ne forgia intenzioni e scopi, ossia di una vera e propria personalità dispotica in grado di forzare l'individuo a mostrare cosa davvero stagna al fondo di ritualità sociali onnicomprensive ma meramente formali (Parlava del grattacielo come fosse una specie d'immensa presenza animata che incombeva su di loro e teneva lo sguardo autoritario fisso sugli avvenimenti. O anche: Era costantemente consapevole dell'immenso peso del cemento sopra di lui, e aveva la sensazione che il suo corpo fosse al centro delle linee di forza che attraversavano l'edificio), al punto da esigere sottomissione e fedeltà imperiture (... appena fuori dalla porta a vetri, fu immediatamente colpito dalla luce e dall'aria più fresca, come se respirasse l'aspra atmosfera di un pianeta alieno. Un senso di estraneità, molto più tangibile di qualsiasi cosa si trovasse nel grattacielo, circondava da ogni lato il condominio. E: L'assenza di qualsiasi rigida struttura rettilinea sintetizzava per Laing tutti i rischi del mondo che stava al di là del grattacielo). D'altro canto, è altrettanto vero che, a fronte di incisivi andirivieni della mdp di reminiscenza kubrickiana paralleli agli spostamenti tanto decisi quanto fittizi degl'inquilini da e verso l'edificio, attraverso gli ambienti sempre più impraticabili, parimenti flagrante si nota una perplessità - destinata a rimanere tale - al momento di optare per un taglio dichiaratamente visionario (impressionante, a tal proposito, la prospettiva da cui si osserva il giardino privato di Royal, squarcio vegetale impossibile incastrato direttamente fra la pietra e il cielo) o per uno che privilegi, pur tenendoli in costante frizione, la parvenza convenzionale di rapporti impostati secondo il metro ideale di una acquisita civilizzazione e il substrato surreale, dionisiaco, onirico che quella misura intende solo distruggere (A quel punto anche le violenze si erano totalmente stilizzate, erano diventate fredde e casuali spasmi di aggressività. In un certo senso, la vita nel grattacielo aveva cominciato ad assomigliare a quella del mondo esterno: le stesse crudeltà e violenza celate entro una serie di cortesi convenzioni. E: Anche il disfacimento del grattacielo era un modello del mondo in cui sarebbero vissuti in futuro. Era uno scenario post-tecnologico, dove ogni cosa era o in abbandono o, più ambiguamente, rivista secondo modalità inaspettate e più significative). L'esito prevalente di "High rise" pare essere allora il risultato non del tutto armonico di una circolarità a volte alquanto suggestiva ma come ostaggio di un'irresolutezza che ne frena le ambizioni - sebbene solo intraviste, tutt'altro che banali - sull'instabile piano tracciato per accogliere sia lo slancio immaginativo che gli evidenti scrupoli di ortodossia filologica, un po' come se anche Wheatley, al pari di Ballard in un dato frangente della sua avventura creativa, si fosse fermato, avesse preso tempo e indugiato prima di scegliere which way to inter space.
TFK

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