Downsizing - vivere alla grande
di Alexander Payne
con Matt Damon, Kristen Wiig, Hong Chau, Christoph Waltz
USA, 2018
genere, commedia, drammatico, fantascienza
durata, 135'
Che i personaggi delle storie di Alexander Payne non siano il prototipo ideale della mascolinità americana c’è lo dice il manifesto di "Downsizing – Vivere alla grande". Nel lungometraggio in questione Matt Damon incarna il ruolo di un uomo di mezz’età che attraversa una crisi esistenziale dalla quale spera di uscire aderendo al programma di miniaturizzazione che rimpicciolisce le persone fino a farle diventare non più grandi dei lillipuziani de I viaggi di Gulliver. Peccato che nel prosieguo della vicenda la scoperta, nata per salvare il pianeta dal problema della sovrappopolazione, diventi (come sempre succede nelle storie del regista) il pretesto per mettere in scena la crisi del sogno americano, con la scoperta che anche nel mondo creato per ospitare i nuovi cittadini i problemi rimangono sempre gli stessi.
Tra gli espedienti utilizzati dal regista per far passare il messaggio c’è quello di prendere attori dotati di una certa prestanza fisica e con elevato fascino presso il pubblico femminile, per fargli interpretare personaggi agli antipodi delle caratteristiche di cui abbiamo appena scritto. La conferma ci viene, appunto, dalle strategie della produzione e, in particolare, dalla scelta della locandina, in cui il personaggio di Damon, invecchiato e fuori forma sullo schermo, vi appare come se fosse appena uscito da una clinica della salute, tornando ad aderire a quell’immaginario da super eroe americano che l’ordinarietà di Paul Safranek gli aveva tolto. Un’accorgimento, questo, che ha tutta l’aria di essere una sorta di compensazione delle libertà artistiche di cui Payne ha goduto sul set. Se, infatti, dal punto di vista artistico, l’espediente di normalizzare la fisiognomica degli interpreti è funzionale al minimalismo cinematografico tipico del cineasta di origine greche, da quello commerciale il fatto di non trarre vantaggio dall’appeal della star di turno è una scelta che in tempi di crisi economica nessuno Mogul hollywoodiano è in grado di sostenere.
In realtà sul grande schermo, eccezion fatta per la presenza in cartellone di nomi di richiamo (e tante volte, vedi Nebraska, neanche per quelli), i lavori di Payne rappresentano la quintessenza del cosiddetto cinema d’essai, a cominciare dalla peculiarità delle trame in cui a prevalere è l’impressione che non succeda mai nulla e che i protagonisti, seppur perennemente in viaggio, girino quasi sempre a vuoto. Da questo punto di vista Downsizing – Vivere alla grande sembra fare eccezione nella filmografia del regista. Lo diciamo non solo per una questione di budget (il film è costato oltre 60 milioni di dollari, una fortuna per un tipo come Payne) ma anche in virtù dell’evidente apertura verso forme cinematografiche in grado di dare un’impronta spettacolare alla ricognizione umana effettuata dall’autore.
In realtà Payne è sempre lo stesso, e la storia, pur concedendosi effetti speciali in grado di rappresentare la visione di un’America tanto luminosa quanto apocalittica, è permeata da quell’intimismo malinconico e un po’ depresso che costituisce il mood dei suoi film. Ciò detto, il mix tra vecchio e nuovo funziona nella prima parte, quando il film non ha ancora scoperto tutte le sue carte, mentre nella seconda la presenza di metafore, allusioni (non mancano i soliti riferimenti critici alla politica di Trump) e visioni salvifiche finisce per far perdere al regista (e non solo a lui) il bandolo della matassa, sfilacciando irrimediabilmente le maglie del tessuto narrativo.
Presentato in anteprima all’ultimo festival di Venezia, Downsizing – Vivere alla grande è passato nelle sale americane senza lasciare particolare traccia. La curiosità è quella di vedere se nel vecchio continente sarà oggetto di miglior fortuna.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su taxidrivers.it)
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