lunedì 15 gennaio 2018

BENEDETTA FOLLIA


Benedetta follia 
di Carlo Verdone
con Carlo Verdone, Ilenia Pastorelli, Maria Pia Calzone
Italia, 2018
genere, commedia 
durata, 109’


Guglielmo Pantalei, proprietario di un negozio di articoli religiosi, non si rassegna all'abbandono da parte della moglie dopo 25 anni di matrimonio apparentemente felice. Nella sua depressione quotidiana irrompe Luna, giovane romana, che si candida per il ruolo di commessa, nonostante il suo aspetto e i suoi modi facciano più pensare alla lap dance che alle navate di una chiesa. Questa “benedetta follia” strapperà il sessantenne al declino annunciato verso una senilità rinunciataria e mortifera, aiutandolo ad aprire nuove porte al futuro.
"Io ci sono", afferma ad un certo punto della storia Carlo Verdone, e i pregi principali del suo 26esimo film da regista, attore e sceneggiatore sono proprio la sua presenza e il suo esporre pubblicamente paure e fantasmi che appartengono alla nostra storia di italiani medi.
In “Benedetta follia” Verdone riversa tutto l'immaginario costruito intorno alla sua persona, condensato nella scena in cui Guglielmo si confronta allo specchio con il proprio sé giovanile, quel sé coatto e tracotante che gli spettatori ricordano benissimo per averlo già visto in alcuni precedenti verdoniani: solo Nanni Moretti è altrettanto efficace nel coinvolgerci nella sua autobiografia e nel fare di sé un'icona cinematografica nostrana. 
Ci sono momenti di autentica poesia, soprattutto nella prima parte: ad esempio la narrazione delicata e struggente della solitudine di un uomo al terzo tempo della sua vita, accompagnata dalle note de "La stagione dell'amore" di Franco Battiato, che contiene in sé la nostalgia non solo per quel tempo che "non tornerà, non ritornerà più", ma nello specifico per quegli anni Ottanta in cui Verdone e molti altri sono stati giovani convinti di avere il mondo in mano. L'altro pregio di “Benedetta follia” è l'interazione comica fra Verdone e Ilenia Pastorelli che contrasta piacevolmente l'imbarazzo esistenziale, da sempre cifra espressiva dell'autore, con l'inarginabilità popolana della ragazza di Tor Tre Teste, alla sua seconda prova di attrice dopo il David di Donatello per Lo chiamavano Jeeg Robot.


Il difetto del film è, invece, la concessione ad un certo tipo di commedia che vuole il lieto fine a tutti i costi, che forza le sceneggiature passando sopra a buchi di senso e di stile, che confonde la superficialità con la leggerezza. Limiti che emergono soprattutto negli ultimi venti minuti del film. Persino l'ottimo montaggio di Pietro Morana, che fino a quel momento era ritmato ma fluido, nelle ultime scene diventa impacciato. 
Riccardo Supino

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