Chiamami con il tuo nome
di Luca Guadagnino
con Timothée Chalamet, Armie Hammer, Michael Stuhlbarg,
Italia, Francia, Brasile, Stati Uniti d’America, 2018
genere, drammatico, sentimentale
durata, 132’
L’educazione sentimentale di Elio, efebico liceale ancora acerbo di sentimenti troppo forti, dura sei settimane. Tempo e luogo sono definiti nel loro essere atemporali e aspaziali – da qualche parte nel nord Italia (ndr.: la campagna cremasca), durante un 1983 scipito che affiora con nonchalance da un abbigliamento tiepidamente vintage. Come d’abitudine Elio (Timothée Chalamet) si reca assieme ai genitori (Michael Stuhlbarg e Amira Casar), due colti ebrei sefarditi, in quell’oasi di cultura dove passa le giornate nell’otium decadente della letteratura e della musica, fra bagni in piscine assolate e panismi creativi. Come ogni anno il padre, insigne professore, ospita un giovane dottorando per aiutarlo nelle sue ricerche. Astuto stratagemma, quello dell’estraneo che piomba all’improvviso in un contesto cristallizzato da una liturgia immobile, specie se l’estraneo in questione ha le sembianze di Armie Hammer, ora nei panni di uno scultoreo studente di filologia classica. Bell’espediente, soprattutto perché il nuovo venuto non acuisce tensioni già esistenti o disequilibri intestini, ma contribuisce a mettere il protagonista spalle al muro con sensibilità che non pensava gli appartenessero.
La pulsione che si innesca tra i due, tanto turgida e languida da mal sopportare l’etichetta di “omosessuale”, è scenograficamente valorizzata dalla presenza fisica dei suoi attori, gracile e apollineo l’uno, un fascio di muscoli di fidiana memoria l’altro. Non a caso i riferimenti alla classicità si rincorrono senza sosta, dalle querelle etimologiche fra Oliver e il Professore, alle immagini di statue classiche che aprono i titoli di testa. Dopo Io Sono L’Amore e A Bigger Splash, il regista completa il suo trittico del desiderio, rendendo onore alla sceneggiatura non originale che il Premio Oscar James Ivory trasse dal romanzo autobiografico del 2006 di André Aciman, e non senza difficoltà lasciò alla paternità del solo Guadagnino. Ottima la scelta di eliminare la narrazione via flashback in favore di un narratore emotivo musicale (candidato all’Oscar Sufjan Stevens con The Mystery of Love), che riesce ad arricchire il pansessualismo multisensoriale che fa da cornice al viaggio sentimentale del giovane protagonista. Se i tempi lunghi e le atmosfere ovattate ci rimandano a Io Ballo da Sola di Bertolucci, l’idea della parentesi di evasione in uno scenario che fisicamente e temporalmente si fa altro (a poco valgono i continui rimandi a Craxi e alla resistenza) ci porta alla memoria il Racconto d’Estate di Romher. Dopo La Vita è Bella (Benigni - 1997 ) e L’Ultimo imperatore (Bertolucci, 1987), Call me by your name entra nella triade delle presenza italiane record agli Oscar, reduce da un tour de force di consensi internazionali pressoché unanimi (Festival di Berlino,Sundance Film Festival, Golden Globe), che si spera possano emancipare la critica italiana dal binomio Guadagnino-Melissa P.
Erica Belluzzi
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