NWR/La bellezza non ci salverà
"ero in uno strano viaggio
ma era
privo di senso".
- C.Bukowski -
Illusi circa l'aver disinnescato o, peggio ancora, fruttuosamente introiettato l'incubo ad aria condizionata in forma del sistema di vita globalizzato via via arenatosi in un più che scipito cretinismo di massa, ecco che ci tocca tentare di raschiar via dalle nostre assai idratate epidermidi un ulteriore - forse ultimativo - prurito, vale a dire quello che ci stimola il più recente scherzo di N.W. Refn (anzi, come si firma lui, NWR) a nome di demone al neon, diffuso al volgo nell'anodina formula di miraggio-della-bellezza, quella - sia chiaro - a misura dell'apparato mercantile-propagandistico che sulla manipolazione della stessa prolifera, per di più nutrendosene, secondo la peristalsi (tenuta ben oliata dal Capitale) consumo/deiezione, in un contesto, l'attuale (occidentale, sedicente moderno, nelle intenzioni - e non solo - da replicare ovunque e bla, bla...), che, a stringere, finisce per produrre, perverso paradosso, pressoché solo mostri (e non nel senso etimologico del termine).
Jesse invece è Altro (o forse la rifrazione danneggiata di una mania ai nostri giorni puramente fittizia ?). Jesse è appena arrivata nella città degli angeli. A new kid in town, novella Alice che si rimira negli sguardi golosi di tutti e scivola tra gli specchi di un immaginario sbriciolato i cui frantumi sembrano rimandare sempre e solo la sua figura (Elle Fanning, dunque, ancora Alice, come lo era stata, di nome, nel "Super 8" di Abrams). E' sola al mondo, Jesse. Così dice. "E' un unicum", sussurra divertito Refn. S'è lasciata alle spalle una scheggia anonima della Georgia e ha da poco compiuto sedici anni - Oh, sweet sixteen ! - ("Ma tu dì sempre che ne hai diciannove. Diciotto darebbe troppo nell'occhio"). Jesse irradia luce ("Quando tu entri in una stanza", si sente apostrofare, "è come se... in pieno inverno spuntasse il sole"), benché assediata da una volontà, quella del Denaro, quella dello Sviluppo, quella del Cinema, che per unico scopo ha quello di riprodurla, ossia di falsificarla nel senso di banalizzarla, di costringerla cioè entro un'idea sempre e comunque fruibile, qualcosa priva della più miserabile possibilità di trasfigurazione e quindi di alterità autentica (come nota, ad esempio, M.Belpoliti nel suo Crolli: "La banalità appare attualmente senza fine, o meglio: senza interruzioni di sorta, come se non esistessero luoghi o spazi sottratti ad essa". Banalità a cui non sfugge - volendo o no, non importa - nemmeno Refn. La scena d'apertura con Jesse distesa su un divano d'epoca per un servizio fotografico spiazzante reperta, infatti, scampoli di un'iconografia talmente vasta, talmente masticata nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, da La morte di Marat di David, passando per le deposizioni di Raffaello e di Caravaggio, per giungere a La morte di Chatterton di Wallis - Bevuta liscia la vita/E' un veleno migliore che in bottiglia, aggiunge Thomas nella poesia omonima - e solo per fare mente locale, da flirtare, oggi come oggi, inesorabilmente, col banale. A dire: proprio il languido strazio ritratto da Wallis, può prestarsi senza troppe forzature come immediata allegoria per cui nell'autoeliminazione romantica di un poeta pre-romantico è ipotizzabile leggere un altrettanto romantico suicidio della bellezza. E via banalizzando). Jesse ha altresì una grazia e uno splendore entrambi impareggiabili, perentori, insolenti. Jesse si mostra umile, ingenua, per certi aspetti davvero al-passo-coi-tempi ("Non so cantare. Non so ballare. Non so scrivere. Non ho alcun talento. Però sono carina e posso guadagnarci con questo") ma il desiderio che nutre - diventare la modella numero uno, quella contesa da ogni occhio e non una qualunque provinciale attraente che appassisce in un diner asciugando cucchiaini a vita - è a sua volta divorante e irresistibile, proprio di quel furore umbratile e spietato che solo il desiderio adolescente sa incarnare, al punto di doverlo manifestare, al dunque, senza remore: "So che sembro indifesa ma non lo sono". E: "Io sono una ragazza pericolosa". Dunque: chi è, anzi, cos'è Jesse ?
In questo mondo sublunare che tratta la Morte alla stregua di un esorcismo di terz'ordine - rifiutandosi addirittura di chiamarla per nome, tanto presuppone di averne allontanato l'inesorabilità dal suo orizzonte - Refn tratteggia, a nessuna edificazione e in perenne complicità, il proprio e personale trionfo della medesima, in perfetta linea con questo millennio e alla stregua dell'omonima visione di Breugel, già combinazione d'imperturbabile, disilluso ammonimento e opprimente, morboso realismo, partendo da quei territori delle fantasie contemporanee dove è maggiore - quindi ancor più patetico e grottesco - l'affannarsi attorno alla sua negazione, irrorata, quest'ultima, dal concime sterile della bellezza (ai-tempi-del-Denaro): ovvero la serra fredda della Moda come fabbrica di corpi e dei Corpi come variabile dipendente del Denaro, in un'estenuazione a ripetere (e a cibarsi della propria ripetizione) che assimila l'universo della bellezza ad una sorta di pornografia iper-stilizzata (che il Cinema, a sua volta, ritrae, stigmatizza magari ma contribuisce a tenere in circolo), così intimamente e tragicamente (?) nostra, e fatta anche - insiste Refn - di colori vistosi, fluorescenze; di squarci stroboscopici di un futuro già presente; di occhiate assorte presunte allusive; di staticità e pose plastiche protratte ad imitare/anticipare il rigor mortis o l'assurda asimmetria delle bambole disarticolate; di dialoghi al di là dell'inconsistenza a mo' di segmento sonoro casuale dell'inesausto rumore di fondo planetario...
Siffatta maniera in cui la modernità possiede e utilizza la bellezza, non può che implicare, allora, schizofrenie e derive (o sarebbe più coerente dire, a questo punto, logiche ?) di carattere vampiresco, antropofagico, necrofilo, che l'autore sfrutta, restituisce e letteralmente ri-vomita contro un occhio/sguardo - il nostro - allo stesso tempo lusingato/nauseato da una reiterazione senza approdo, eppure assuefatto ai dettami insondabili, tutt'interni al mistero di ciò che resta del desiderio, di questa malattia terminale stabilizzata - l'apparenza - di fatto elusiva e carente in farmacopee efficaci, degenerazione imponderabile che vaga senza posa di corpo in corpo ammiccando ad un annuncio di morte in grado oramai di far capolino persino dai gesti minimi e tradendo la misura del proprio stadio-di-avanzamento da qualche lucore annichilito (anch'esso - si badi bene - latore di una sua inumana fascinazione) che qui scruta dagli occhi crudeli ma avidi di J.Malone/Ruby inondata di sangue e che, moltiplicati senza fine, sono gli occhi con cui ci guata il-nostro-modo-di-vivere, indolente ma famelico, esausto ma ossessivo, frigido ma feroce e di cui Jesse - eccola, al fine - non è che il brandello più appetitoso e indigesto (nonché, a ben vedere, l'eccipiente dolciastro di altri resti, da quel dì ampiamente rigettati: la Democrazia, la Libertà, la Felicità, et.), quello da smembrare e smerciare nel rito deforme della più oscena delle eucarestie, in un silenzio senza tempo (tutto sembra accadere contemporaneamente all'interno di una vaga ma palpabile impressione di dislocazione) e in uno spazio algido e ostile (strade, piazze, corridoi, stanze, quasi senza vita) in cui la poltiglia del reale vibra al negativo di un'entropia laida e immemore, tra l'opulenza cadaverica delle sfilate, lo squallore aggressivo delle bettole, la levigatezza artificiosa dei lineamenti, gli stati emotivi incongrui, i profili taglienti degl'interni, mentre l'Occidente, landa crostosa, affonda muto in un tramonto inerte. Ancora una Fine, insomma. Alla prossima.
TFK
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