The Myth of the American Sleepover
di, David Robert Mitchell
con Nikita Ramsey, Jade Ramsey, Amy Seimetz
Usa, 2009
genere, commedia
durata, 97'
Il mito americano del pigiama party (sleepover in lingua inglese), nottetempo importato anche nelle abitazioni nostrane, ha alimentato le adolescenze di milioni di ragazzi, punto di riferimento di intere generazioni a cavallo tra l’infanzia e l’età matura. Riunioni notturne e pseudo - segrete di individui dello stesso sesso, organizzate in case prive di sorveglianza genitoriale, durante le quali il divertimento sovverte ogni regola usuale, comportando utilizzi fuori norma di alcool e stupefacenti, il tutto solitamente accompagnato a diletto sessuale senza freni. Il lungo d’esordio di David Robert Mitchell si propone di analizzare le fondamenta di tale mitologia, istituzionalizzata nell’immaginario collettivo a vero e proprio rituale di passaggio adolescenziale, esplorando queste feste con occhio clinico ed indiscreto, allungando sullo stesso un velo malinconico ed avvicinandovisi con fare nostalgico. Le storie d’amore che si intrecciano sul finire dell’estate sono effimere come il periodo di transizione a cui vanno incontro i protagonisti, fuochi di paglia destinati a spegnersi col sopraggiungere dell’autunno e con il ritorno, forzoso e mai veramente accettato, alla vita scolastica.
Ci sono coppie di amici in cerca di un’avventura, sconsolati all’inseguimento di amori iniziati in età infantile, ragazzi alla deriva sentimentale, colpi di fulmine improvvisi ed il tutto è abilmente connesso, intrecciato in una trama quasi invisibile, impercettibile nei suoi minimi slittamenti narrativi. Mitchell si muove cauto lungo il canovaccio estivo da lui orchestrato, relega la macchina da presa ad una perenne condizione di staticità, limitandone i movimenti all’inverosimile e lasciando sviluppare gli eventi autonomamente, perseguendo un’impronta stilistica che non abbandonerà nel suo lavoro successivo. Ed è proprio ad It Follows che sembra ricollegarsi questo primo lavoro del filmaker americano, presentato a suo tempo alla Semaine de la Critique del Festival di Cannes; l’adolescenza ed i suoi strascichi nostalgici per i momenti che non torneranno, la costante consapevolezza di un futuro rimpianto per attimi all’apparenza indelebili, ma pronti a dissolversi come neve al primo sole invernale, sono il collante tra due pellicole all’apparenza costruite come un unico trattato audiovisivo sull’età giovanile, privo di sentimentalismi o abusati percorsi psico-sociologici.
Il grande piacere di Mitchell nel calarsi nell’età rappresentata sullo schermo fa il paio con la voglia di evasione di Maggie, Marcus, delle gemelle Abbey e di tutto l’universo periferico di Detroit in cui transitiamo; il regista getta l’ancora del presagio di una imminente nostalgia, impossibile da distruggere, e riesce nel tentativo di non lasciarla cadere nel vuoto, ma incagliandocela nell’animo e impedendone il distacco. Questo perché, alla fine, l’adolescenza è l’epoca dello svago incontrastato a cui tutti ambiamo regredire, il periodo delle follie organizzate con gli amici, le notti trascorse nelle abitazioni altrui consumate tra leccornie proibite e segreti insvelabili, un momento d’oro e ricco di spunti narrativi che Mitchell raccoglie solo in parte, consegnandoci un lavoro che tratteggia adeguatamente questa tematica, dimenticandosi, contrariamente, l’importanza del ritmo in una esposizione così particolare. Laddove termina The myth of the American Sleepover si riallaccia il successivo lavoro di Mitchell, una dissezione minuziosa della paura che segue le orme della precedente analisi sul timore dell’imminente età adulta, un sentimento costante di apprensione per il futuro in cui, ognuno di noi, è sprofondato almeno una volta nella sua vita.
Alessandro Sisti
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