giovedì 7 luglio 2016

IT FOLLOWS

It follows
di, David Robert Mitchell
con, Maika Monroe, Keir Gilchrist, Daniel Zovatto
Usa, 2014 
genere, horror
durata, 94'




Osteggiato da un particolarmente accorto Tarantino per il suo voler perseguire un ideale di horror vecchio 
stampo in contrasto con l’affossamento dell’iniziale buona idea, pur nel lodevole tentativo perseguito dal regista di virare verso la novità, It Follows apre il sipario sul palco imbastito da David Robert Mitchell con un incipit incalzante nel suo climax ansiogeno. La macchina da presa carrella circolarmente in piano sequenza su una ragazza atterrita in fuga dalla propria casa, la segue in strada e nel suo rientro nella propria dimora, fino ad anticiparne le mosse successive con grande classe, illuminandola al freddo della spiaggia in un campo lungo che ci permette di cogliere ogni sfumatura del terrore che l’attanaglia, la solitudine riempie lo spazio vuoto dello schermo, un’ultima telefonata a chi l’ha vista dileguarsi sotto i propri occhi ed una posa mortuale che sconfina nello scultoreo, con le prime luci dell’alba a preavvisarci dell’imminente cambio di rotta. Abbandonato il lido iniziale l’azione si tuffa in piscina assieme ai veri protagonisti della vicenda, la quale avrà sviluppi interessanti per particolari innovazioni narrative, alternandosi a situazioni trite opportunamente revisionate. It Follows basa la propria forza sull’assunto fondamentale della maledizione intesa come un’infinita catena i cui trasferimenti ed interruzioni sono possibili grazie al contatto sessuale con un altro individuo, una condanna sessualmente trasmissibile che si propaga come una pestilenza, grazie alla capacità tutta umana di mettere l’io in primo piano rispetto alla persona altra, anteporre l’ego al bene collettivo, istinto di sopravvivenza usano chiamarlo. Risalire al primo contagiato e alla motivazione dell’infezione sembra essere poco utile per i futuri snodi narrativi, mostrare i meccanismi psicologici che conducono un adolescente al baratro della follia e poi rinsavirlo momentaneamente con lo scopo unico di permettergli di scrollarsi di dosso tale fardello e lasciarlo in gestione ad una malcapitata amante, invece, pare essere la strada corretta da seguire. Così Mitchell dà uno scossone alla monotonia del genere, scrutando con attenzione ma senza l’esasperazione del voyeur i propri pargoli cinematografici, concede lungo respiro alle sequenze sfruttando il carrello con l’abilità di un maestro navigato, limitando all’essenziale i movimenti della macchina da presa e permettendo ai fotogrammi di soccombere al tremendo carico di tensione accumulatosi durante la visione. L’intento innovatore si rivela nella sequenza ambientata all’interno del teatro, dove l’ingenua ed ancora intonsa protagonista incontra un ragazzo per un appuntamento; all’attivazione di un innocente gioco di scambio di identità immaginario con gli astanti spettatori, uno dei due rivela inavvertitamente il proprio soggiogamento alla presenza colpevole di tale, necessario, contagio e costringe entrambi a lasciare l’edificio ad inizio proiezione. L’ansia si accumula progressivamente, senza interruzione di alcuna sorta venendo, inquadratura dopo inquadratura, a coagularsi in un grumo di difficile digestione in corrispondenza dell’atto sessuale consumato nell’auto dove avviene il pericoloso contagio. 



La carica metaforica di cui pare coscienzioso difensore Mitchell è intensa, la maledizione dalla trasmissibilità sessuale è sopportata dalla protagonista alla stregua di una malattia – la devastazione psicologica che segue l’infezione è tremenda. Jay ispeziona ed analizza la propria intimità con timore crescente, tiene a bada i nervi continuamente tesi e tenta di razionalizzare le visioni che la tengono ostaggio, aiutata concretamente dal proprio parterre amicale. La presenza che inizia a perseguitarla assume forme differenti, muta la propria essenza esteriore e le impedisce  il suo corretto riconoscimento, lasciandola spesso nel dubbio e nella trepidazione causate dai fenomeni che le occorrono, pronta a “dar di matto” al minimo scricchiolio. La situazione in cui si ritrova sembra essere un paradossale rovesciamento della medaglia: la costrizione al contagio di tale male piuttosto che la ricerca di una cura allo stesso, una moltiplicazione potenziale degli infetti invece del suo debellamento totale. Jay è reticente alla reiterazione e si ritrova costretta in un limbo dal quale ogni via di fuga appare come occlusa, continuamente in balia di un male invisibile agli altri ma avvertito prepotentemente sulla propria pelle e fiero nemico della sua psiche. Mitchell ci lascia navigare in mare aperto senza fornirci appigli, distrugge emotivamente la protagonista per permetterle di avanzare nella narrazione, filma il tutto evitando di intromettersi eccessivamente nella storia. L’immersione tensiva è notevole, frutto di accortezze registiche degne di nota – una su tutte la sequenza in cui la camera è montata frontalmente alla ragazza, costretta dal suo amante su di una carrozzina, e fotografia e regia camminano di pari passo permettendo una visione congiunta della paura, per lo più inedita, lasciandoci godere una pellicola di genere piacevolmente originale che, pur con qualche limitazione ritmica nella parte centrale, risulta ugualmente degna di menzione. 
Alessandro Sisti

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