domenica 27 gennaio 2019

INVISIBILI: DESTINATION WEDDING

Destination wedding
di, Victor Levin
con, Keanu Reeves, Winona Ryder, Dj Dallenbach
USA 2018
genere, commedia
durata, 85’


Take the space between us
Fill it up some way…
- The Police -


Sul serio il Cinema è un piccolo scrigno per la meraviglia. Al suo interno, infatti, cura con particolare dedizione un metodo tutto suo di offrire cittadinanza all’improbabile, tipo quello che avvicina due cherofobici conclamati - il Frank dalla prestanza stanca e lo sguardo in perenne tralice interpretato da Keanu Reeves a mo’ di un John Wick costretto a usare l’arma della dialettica al posto di quella da fuoco; la Lindsay dalla grazia nervosa e il tenue disincanto di Winona Ryder, precipitato contemporaneo dell’acqua cheta May Welland de “L’età dell’innocenza”, padrona magari delle proprie prerogative manipolatorie quanto oramai poco o punto persuasa della loro autentica efficacia - La coppia, nella cosiddetta realtà, impiegherebbe meno di tre minuti a recidersi vicendevolmente le giugulari ma, appunto, grazie alla peculiarità di cui sopra, cede alla curiosità di cimentarsi col rischio di misurare in prima persona l’esatta distanza che la separa, lasciando aperto un varco utile all’ipotesi d’instaurare una paradossale intesa al negativo.

Non si spiegherebbe altrimenti la palpabile prossimità che si avverte al cospetto di un’opera come “Destination wedding”, di Victor Levin (già produttore televisivo, sceneggiatore e autore di “5 to 7”, prima personale incursione nel ginepraio delle relazioni e dei sentimenti), scientemente e brillantemente compressa entro uno schema che mutua dal teatro leggero la costruzione per scene autosufficienti in ambienti d’immediata individuazione (il terminal di un aeroporto, l’interno di un taxi, il tavolo di un rinfresco, una camera da letto, et., a margine del ricevimento di nozze - casus belli e apriscatole della storia - organizzato da Keith, fratellastro di Frank, a cui non proprio per caso viene invitata anche Lindsay, vecchia fiamma di Keith), a formare una successione armonica di quadri che via via delineano e caratterizzano umore, gesti e parole dei protagonisti; mentre invece estremizza, dal Cinema, passandolo all’essiccatoio del cinismo impietoso dei nostri anni, quell’estro per il dialogo serrato e assertivo, arguto e capziosamente riflessivo, che abbiamo imparato a conoscere - e ad amare - almeno a partire dai sublimi battibecchi Hepburn/Grant (o Hepburn/Tracy) targati Hawks e Cukor, attraverso Wilder, giù fino a Simon, Edwards e al miglior Allen.

Le vicende incrociate di Frank - addetto al marketing per una grossa corporation dell’energia - e di Lindsay - che, letterale, persegue “compagnie e istituzioni per azioni e affermazioni non rispettose delle singole sensibilità culturali” - trovano così consistenza e interesse proprio nella messinscena d’una duplicità divenuta oggigiorno propellente spettacolare: l’esasperata centralità dell’io, la sua irrefrenabile esigenza di doversi sempre esporre come su un palcoscenico, da un lato; la simile e, per certi versi, conseguente mania per la razionalizzazione a trecentosessanta gradi, il gusto per la dissezione logica, la sottolineatura lessicale, l’asprezza retorica, dall’altra. Antagonismo/sodalizio precario cui sottende - e parliamo di un magma sepolto/represso molto instabile - il gigantesco punto interrogativo dell’identità moderna, di continuo sollecitata per le quattro direzioni, ognuna delle quali proposta - ma sarebbe più esatto dire venduta - come irrinunciabile, in un moto perpetuo di stimoli appetibili e tuttavia ambivalenti, al termine del quale sovrabbondanza, ansia da prestazione, esasperazione per aspettative spesso deluse, sostanziale equivalenza tra le scelte, si sciolgono in quell’unica frustrante vaghezza che mai tarda a volgersi in disillusione beffarda, in rancore malcelato, oltreché in un vischioso attendismo difensivo (“Apparteniamo a quello scampolo di società che non deve più preoccuparsi delle cose essenziali: il cibo, i vestiti, un tetto sopra alla testa, i mezzi di trasporto o l’eventualità di essere fatto fuori dalla Polizia… Noi siamo noiosi, banali, sordi e narcisisti”, puntualizza Frank).

In tal senso, l’operazione allestita da Levin - dal sapore, per una volta, ironicamente intellettualistico, vista la matrice testuale pronta a confessare inquadratura dopo inquadratura la propria controllata artificiosità - attorno a corpi cinematografici che a quel quesito identitario hanno offerto il loro contributo di legittimazione (Winona all’inizio degli anni ’90; Keanu fino al loro epilogo, culminato, tra l’altro, con l’avvio della saga di Matrix), nella lineare sovrapposizione tra momento esistenziale (una, per certi aspetti perfetta, anedonica solitudine: non a caso, il film stesso è un solo, ininterrotto gioco-a-due dal quale il mondo intero è escluso, retrocesso a fondale, seppur animato) e contesto (la tarda modernità), registra puntuale, avvalendosi dei toni della commedia come detto logorroica, sarcastica, punteggiata da un frasario implacabile, lo smacco ulteriore autoinfertosi da un mondo (e falegnameria umana acclusa) - a dire il nostro quotidiano ipnotizzato dal futuro come meta d’ogni pacificazione, irretito dagli stili di vita, persuaso dalla inesorabilità calcolante della tecnologia - a conti fatti terrorizzato proprio dalle passioni, cioè dalla vicinanza fisica ed emotiva con l’Altro ma, allo stesso tempo, incapace di proporre alternative soddisfacenti, anche perché alla fine resosi conto - non senza sconcerto, ci mancherebbe, e spaccato l’ultimo capello in quattro - che precisamente tale dimensione, per quanto fragile, non di rado meschina, per lo più incoerente, è quella chiamata da ciò che resta del vissuto a giocare il ruolo di argine alla mera dissoluzione. Dimensione di cui il Cinema si conferma uno dei custodi più intransigenti e affidabili.
TFK

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