Mio figlio
di Christian Carion
con Guillaume Canet, Melanie Lautent
Francia, Belgio, 2018
durata, 84'
Ambientato in alta montagna e costruito per la maggior parte sulla presenza di un unico personaggio, Mio figlio di Christian Carion è quello che si dice un film fuori dalla norma. Altrove abusata, l’espressione appare per una volta proporzionale alla qualità dei risultati, nonostante un contesto cinematografico e produttivo che almeno in apparenza farebbe pensare al contrario. Accade, infatti, che il regista francese per raccontare l’odissea di un padre alla ricerca di una pista utile a fargli ritrovare il figlio appena rapito organizzi la narrazione attraverso una fitta rete di pedinamenti e depistaggi che oltre a tradurre sul piano pratico l’investigazione messa in piedi dall’uomo rivelano – nella mancanza di un filo conduttore che non sia quello di ritrovare il bambino – il caos interiore che ne accompagna le azioni.
Laddove il cinema hollywoodiano avrebbe trasformato il dolore in spettacolo e la detection nell’occasione per trasformare il protagonista in un eroe da fotoromanzo, Mio figlio fa della normalità il metro con cui ogni elemento del film si deve confrontare, a cominciare dal personaggio principale, chiamato a sopravvivere a una situazione più grande di lui senza venire meno a uno status iniziale che lo non lo fa essere essere differente dallo spettatore seduto in platea.
In questo modo, l’ansia e la tensione trasmessi dalla storia non derivano dalla somma inconsulta degli elementi narrativi, scenografici e visivi messi a disposizione del regista quanto piuttosto da un processo di sottrazione (delle risorse) che lascia come unico riferimento possibile quello di ritrovarsi a contatto con la realtà vissuta dal protagonista, impegnato per tutto il tempo a lottare nella speranza di strappare il figlio a un destino già scritto.
E qui veniamo all’eccezionalità del lavoro compiuto da Carion, poiché la credibilità dell’operazione e l’assoluta verosimiglianza di ciò che vediamo dipendono dalla flessibilità di un dispositivo capace di filmare in tempi brevissimi (la sinossi parla di sei giorni di riprese) sulla base di una sceneggiatura ridotto all’osso e con il bravo Guillaume Canet (affiancato in qualche scena dalla “moglie” Melanie Laurent) lasciato all’oscuro di ciò che lo avrebbe aspettato sul set e, dunque costretto a reagire senza poter utilizzare gli artifici del mestiere. In tempi in cui la tecnica e i soldi la fanno da padrone, un film come Nostro figlio si propone allo spettatore con un’essenzialità che sembrava perduta. Da vedere!
Carlo Cerofolini
(pubblicata su taxidrivers.it)
0 commenti:
Posta un commento