Évolution
di, Lucile Hadzihalilovic
con, Max Brebant, Roxane Duran, Julie-Marie Permantier
con, Max Brebant, Roxane Duran, Julie-Marie Permantier
genere, drammatico
Francia, Spagna, Belgio, 2015
durata, 82’
Francia, Spagna, Belgio, 2015
durata, 82’
C’è una dimensione arcaica del tempo, dei gesti, dei legami, che pulsa relapsa ma tenace - nella sua impertinenza a rimanere - tra le pieghe dell’estenuata assennatezza moderna, nelle circonvoluzioni terminali del contundente andirivieni dei capitali e delle merci, a margine del frastuono compiaciuto, nella propria apparente indefettibilità, della comunicazione contemporanea. Essa è innanzitutto una discontinuità - certo quantificabile ed esperibile - ma più ancora è una possibilità pre-razionale, quindi emotiva, sentimentale, in grado di costruire (e difendere), nello spessore privilegiato che il silenzio tesse attorno a ogni manifestazione vitale, fondamenta estetiche a sostegno di rituali ciclici di un’istituzione organizzata a cui s’informano i codici d’un particolare edificio morale, ossia tanto le premesse di un’utopia realizzata, quanto le condizioni autentiche e i bersagli reali per l’esercizio della volontà d’un ipotetico individuo riottoso, diffidente, incoercibile all’insidiosa fascinazione di un sistema ideale, scelta, questa, a noi, sudditi d’un fantasmatico e frainteso ordine globale, oramai preclusa.
Le linee di forza e i vortici centripeti di questo mondo-fuori-dal-mondo s’incrociano, alimentandosi e rinnovandosi in un presente immoto ritmato dal respiro lungo degli elementi naturali (primo, per consistenza, l’Acqua, che tutto contiene e pervade), nella comunità matriarcale posta al centro di questo lavoro, opera della Hadzihalilovic a nome “Èvolution”, reperto impassibile nella sua levigata stilizzazione, come testimonianza inquieta di ciò che forse non è stato ma non è affatto escluso possa, prima o poi, essere.
Se le giornate del piccolo Nicolas/Brebant, infatti, nell’insulare villaggio/alveare di cubicoli bianchi incastrati fra le pietre di una remota insenatura vulcanica, trascorrono solitarie e silenti secondo le regole semplici ma rigorose tarate su un tacito decalogo/apprendistato (somministrazione quotidiana di un preparato in gocce; dieta a base di pasti costituiti da un amalgama vegetale di presumibile origine marina) a cui sottende il mistero di una metamorfosi biologica facilitata dall’applicazione di una tecnica radicale atta a garantire la stabilità della popolazione residente (composta in via esclusiva da maschi impuberi e da giovani donne/madri/ancelle dall’incarnato madreperlaceo e dai lineamenti androgini, cui sovrintende un gineceo ristretto con competenze mediche, depositario e latore d’una alternativa ipotesi di evoluzione), simmetrico e inesorabile si ripete il rosario dei compiti delle femmine-guida (tra cui la sedicente madre di Nicolas/Permantier), culminante nelle cerimonie notturne di fronte al Mare con le quali si ribadisce l’eccezionalità della propria condizione e la comune appartenenza a un nucleo senziente primigenio e arcano. Nulla vieta, cioè, che l’instaurazione di questo ordo rerum muliebre abbia in sé le prerogative per cristallizzare gli attimi di un’immanenza condotta sul sentiero d’un’inedita normalità nell’orizzonte vergine d’un eterno quasi indifferenziato. Sennonché l’altrettanto irriducibile segno della singolarità, della spinta a conoscere - Nicolas, con modi timidi ma risoluti, presto comincia a manifestare quella curiosità indagatrice che non s’accontenta della superficie pacificata/addomesticata delle cose, delle domande aggirate con repliche omertose o artatamente allusive, delle cure sempre più simili a intrusioni invadenti - annuncia l’emergere di quel movimento della coscienza (complice, qui, l’intervento di Stella/Duran infermiera forse esclusa dal ruolo di madre, deputata all’accompagnamento di Nicolas verso l’estremo stadio della sua pianificata evoluzione) che pretende la verifica della propria legittimità a esistere solo per il tramite di un rapporto senza mediazioni col mondo.
Lo scarto operato dalla Hadzihalilovic su un tessuto narrativo così volutamente enigmatico, a volte sinistramente paradossale, giocato com’è su un reticolo pressoché inestricabile di sottintesi (anche al limite del morboso), di rimandi metaforici, di simboli ricorrenti (l’Acqua, per l’appunto, la figura della Stella, la Donna madre/educatrice/carnefice e altri, alcuni dei quali s’inseguono persino da un film all’altro, vedi “Innocence” del 2004), di vere e proprie oscurità, giace su un pugno di scelte stilistiche audaci e in gran parte suggestive. In primis, la meticolosa costruzione delle inquadrature - per altro intrise di variegate reminiscenze pittoriche - a mo’ di luoghi entro cui le figure umane, colte senza la minima ridondanza nella gloria nascente dei corpi, nella scabra esaltazione del loro fulgore, tornano a essere costretti a uno scambio immediato e non tragicamente estraneo con la materia (gl’interni calcinati delle abitazioni, l’essenziale mobilia, le rare finestre che danno su un cielo occhieggiante ma muto. E il degrado malato degli ambienti ospedalieri, i rari oggetti d’uso quotidiano, et.). Di contro, l’accorta motilità della mdp, l’estro dinamico della quale è riservato all’inesausto rimescolarsi della masse liquide e all’emergere delle inquietudini del protagonista, in una simbiosi associativa che pare stabilire una connessione diretta tra le agitazioni elementali e quelle interiori.
Quindi la severa - e impercettibilmente ominosa - fissità dei volti e degli sguardi, sovente scrutati da primi/primissimi piani, pronti a indulgere anche su precise porzioni anatomiche, persistenza che finisce per lasciar allignare la sottile angoscia collegata al sospetto di una mutazione non solo colta nella progressione organica del suo divenire ma in tutto e per tutto compatibile con la fisiologia umana. Ogni scelta espressiva calata nella cadenza dilatata eppure febbrile del racconto (“Évolution” dura un’ottantina di minuti), a riprova di uno sforzo calibrato sull’esigenza d’imprimere nelle immagini il senso di una possibilità inespressa, di una promessa ancora da mantenere, di un presagio giunto a compimento, magari quello secondo cui l’unico modo di progredire è tornare indietro, anche se, a oggi - ha aggiunto la Modernità, stoltamente ilare - tornare indietro non è possibile e il rifiuto-del-(suo)-mondo da parte di Nicolas rischia di coincidere con un beffardo arrendersi-al-(nostro)-mondo.
TFK
0 commenti:
Posta un commento