lunedì 30 aprile 2018

THE AVENGERS: INFINITY WAR


The Avengers: infinity war 
di Joe Russo, Anthony Russo
con Robert Downey Jr., Chris Hemsworth, Mark Ruffalo
USA, 2018
genere, azione 
durata, 149’



Dalla nascita dell'universo, sei gemme elementari rappresentano i vari aspetti fondamentali del cosmo e chi le possedesse tutte raggiungerebbe l'onnipotenza. È questo l'obiettivo di Thanos, il titano pazzo che ritiene di poter rimediare alla sovrappopolazione universale e pensa di essere una misura necessaria e giusta, persino benevola: agli altri, però, il suo operato appare come una serie di genocidi. Gli Avengers e i Guardiani della Galassia dovranno cercare di fermarlo, ma come se non bastasse la sua inarrestabile potenza ci sono dalla sua armate aliene e quattro letali "figli", ognuno deciso a consegnargli le gemme dell'infinito.
A chiarire da subito il tono, l'incipit è una scena di un massacro e un personaggio importante in molti film Marvel perde la vita nei primi minuti.
La varietà dei poteri di tutti i personaggi in campo è presa in considerazione, gli avversari non trattengono i colpi e pure gli eroi sono costretti a scatenarsi. Il risultato è lontanissimo dai rocamboleschi inseguimenti di “Capitan America: Il soldato d'inverno” e pure dalla rissa del parcheggio dell'aeroporto di “Captain America: Civil War”. I Russo sembrano irriconoscibili ed è solo l'inizio.
Il secondo scontro in realtà è un passo indietro, con una battaglia in una specie di magazzino ben più terra a terra, e pure l'incontro tra Thor e i Guardiani della Galassia pare virare su uno humour troppo caricato e gratuito - sebbene in parte giustificato dal tono dei film dei “Guardiani” e in fondo pure dall'ultimo “Thor”. Si tratta, però, solo di una fase di riposo prima che arrivi la tragedia, una dimensione davvero cosmica e le leggi della fisica piegate in più modi della gemme dell'infinito. 

In fondo forse la principale novità è che per la prima volta c'è un villain di peso, capace non solo di manipolare gli Avengers come Loki, ma pure di affrontare anche i più potenti tra loro faccia a faccia e di uscirne vincitore. Il lavoro di motion capture realizzato su Thanos è così buono che, al di sotto dei lineamenti alieni, si coglie la recitazione di Josh Brolin, chiamato a interpretare un personaggio forte all’ennesima potenza eppure anche a mostrarne a tratti una inattesa umana fragilità. I luogotenenti di Thanos si rivelano, così, avversari potenti ma dimostrano personalità deboli. Le loro azioni e quelle del loro padre hanno più volte esiti imprevedibili e anche chi conosce bene la Marvel a fumetti avrà di che meravigliarsi di fronte a certi drammatici colpi di scena.
Riccardo Supino

domenica 29 aprile 2018

LA FOTO DELLA SETTIMANA

Damien Chazelle

ARNAUD DESPLECHIN: MASTERCLASS


Considerato tra i cineasti più importanti del cinema francese, Arnaud Desplechin è un autore ancora poco conosciuto nel nostro paese. Organizzata nell'ambito del Rendez Vous 2018 Festival del nuovo cinema francese, la Masterclass tenuta dal regista è stata l'occasione per approfondire stile e poetica
Ogni film che faccio va contro ciò che ho fatto prima. I miei giorni più belli per esempio parlava della giovinezza, del primo amore e gli interpreti erano totalmente sconosciuti perchè alcuni non avevamo mai recitato prima d’allora. Il successivo, ovverosia I fantasmi d’Ismael, parla forse dell’ultimo amore e vede la presenza di attori che sono quasi tutte delle star. Insomma, è esattamente l’opposto dell’altro, o, per meglio dire, una reazione al lavoro precedente.



Lavorare con gli stessi attori è qualcosa che ho fatto da subito. Dopo l’esordio con La vie des morts (1991) è stato naturale utilizzare gli stessi interpreti ne La sentinelle (1992). Le persone dicevano che tale scelta avrebbe fatto sembrare il film meno innovativo, ma il punto è che avevo talmente amato questi attori da voler girare di nuovo con loro. A parte la storia con Mathieu Almaric che merita un capitolo a parte, ho lavorato molto anche con Hippolyte Girardot, ma devo dire che il ritrovarsi sul set non agevola le cose, anzi le rende quasi più complicate. È come il terzo o quarto  appuntamento con una ragazza. La prima volta è più facile sorprenderla, poi sempre meno. Ogni volta che ci ritroviamo sul set sono nervoso perché mi domando sempre come riuscirò a coinvolgerli nel mio lavoro.


Il mio esordio è stato all’insegna di una grande incoscienza. La storia che avevo scelto per La vie des morts (1991) era molto forte. Si trattava di una riunione famigliare organizzata per dare sepoltura a qualcuno che non è ancora morto. Col passare delle ore l’attesa si trasforma in una sorta di vacanza e come regista la sfida consisteva nel combinare i sentimenti leggeri e divertenti di chi si ritrova in una situazione piacevole con il dolore provocato dall’attesa della fatidica notizia. Ai miei attori dicevo di immaginarsi in un western perché in questi film i luoghi e le comunità ci sembrano molto felici, ma in realtà sappiamo che i loro privilegi sono stati ottenuti a discapito dei nativi. Analogamente, immaginavo la famiglia in questione come una gruppo di persone felici, senza dimenticare che tale stato d’animo era costruito sul dolore e sulla sofferenza dei loro defunti.

Ne I re e la regina (2004) ogni uomo avvicinato dalla protagonista finisce per morire. Molte persone trovavano respingente il personaggio di Nora mentre Almaric e soprattutto l’interprete, Emmanuelle Devos, erano felici di avervi a che fare. Il mio pensiero potrà scandalizzare, ma credo che Nora sia la sintesi di una femminilità cosciente del proprio potere di seduzione e degli effetti mortali del suo eccesso.

Il privilegio del cinema è quello di dare una grande importanza ai personaggi femminili. Non a caso un grande filosofo americano ha detto che la nascita del cinema corrisponde con l’inizio dell’emancipazione della donna moderna. Lo segnalo per sottolineare come la settima arte da sempre abbia sostenuto tale cambiamento attraverso la creazione di grandi personaggi femminili. Anche io, nel mio piccolo, faccio la stessa cosa, attribuendo una valenza mitologica alle donne, e, nel contempo, enfatizzando gli aspetti più ridicoli della controparte. La sequenza di Rio Bravo in cui John Wayne indossa mutande da donna e una ragazza gli fischia dietro penso sia l’esempio del ridicolo di cui parlavo, anche in considerazione del fatto che a esserlo è un simbolo di virilità come Wayne. Ancora, l’importanza dei caratteri femminili ritorna anche ne I fantasmi di Ismael dove sono Carlotta e Sylvia a determinare il destino del protagonista e non il contrario.

In fase di scrittura elaboro frasi che neanche io capisco e che però si rivelano le più riuscite. Quando mi vengono in mente sono il primo a sorprendermi e, allo stesso tempo, so già che agli attori piacerà pronunciarle. Dire, come capita al protagonista de I fantasmi d’Ismael, “Tu sei la mia patria” è qualcosa di enorme e di gratificante per chi la pronuncia; la stessa cosa vale per Sylvia quando dice a Ismael “Ti strapperò la maschera e farò di te un principe”. Sono parole molto forti perché ci si chiede come lei riesca a vedere la grandezza dietro un uomo tanto debole, come pensi di trasformare in principe una persona allo sbando. Sono affermazioni come queste, più grandi dei personaggi a cui le metto in bocca, ad assicurare la riuscita dei miei lavori. Nel cinema realista i personaggi dicono delle frasi più piccole di loro mentre in nei film romanzati succede esattamente il contrario. Anche le sequenze seguono lo stesso procedimento delle parole. Le organizzo mentalmente, poi cerco di capire qual è il significato e come sono arrivate fino a li.

Adoro passare da un genere all’altro, utilizzando la commedia, il melodramma e persino il western. In Racconto di Natale (2008) c’è una scazzottata tra Almaric e Girardot accompagnata da una musica irlandese che non centra nulla con la zona della Francia in cui è ambientata questa situazione. Mi riesce difficile capire il motivo per cui l’ho inserita, forse è una rimembranza proveniente da certe atmosfere che si respirano nei pub d’oltremanica, fatto sta che pur nella sua anomalia il risultato funziona con il resto del film. Questo per dire quanto mi piace passare da un registro all’altro. Senza queste variazioni girare diventerebbe noioso.

Ho usato per la prima volta l’espediente di far parlare l’attore in faccia alla mdp con il personaggio di Esther, una delle protagoniste de Comment je me suis disputé… (ma vie sexuelle). Nella sequenza incriminata lei è arrivata a un punto morto della sua vita e ne sta per parlare al fidanzato attraverso la lettera che sta scrivendo. Non sapevamo come girare la scena, poi vedendo Emanuelle Devos rivolta verso la mdp ho capito come farla. Nel camera look gli attori non recitano per se stessi ma piuttosto con se stessi, mettendosi a nudo insieme ai personaggi. Di Emanuelle Devos adoro la qualità del viso che può essere bellissimo ma anche sgraziato; la sua bellezza non è sempre cosi evidente e questa sensazione la trovo molto affascinante.

Da giovane ho guardato tantissimo i film di Federico Fellini, poi ho dovuto smettere per riuscire a vedere altro. Cinque anni fa mi è capitato di rivederne l’intera filmografia e 8½ è risultato uno dei miei titoli preferiti. Quando inizio a scrivere una sceneggiatura stilo sempre l’elenco delle opere che possono essere attinenti alla mia. Ne I fantasmi d’Ismael, parlando di un regista che non riesce a finire il suo film è chiaro che in cima alla selezione ci sia il capolavoro di Fellini, come pure Il caimano e Providence di Alain Resnais.


Sono molto affezionato al personaggio di Sylvia. Quando Ismael le chiede come mai non abbia avuto figli lei risponde che è stata solo con uomini sposati, suggerendo di aver avuto fin lì un’esistenza vissuta alla finestra. In questo senso mi identifico molto con lei, anche se ritengo che a un certo punto ci si debba mettere in discussione. Sylvia è esitante a mettersi con Ismael perché lui è uomo che può mettere paura. Quando questo accade e le cose andranno male le è chiaro che non potrà più tornare indietro. La stessa cosa succede a Ester ne I miei giorni più belli. All’inizio la ragazza è piena di fidanzati e nella sua condizione di forza nulla sembra toccarla. Poi si innamora e diventa vulnerabile; pur infelice nella sua nuova condizione è troppo coinvolta per poter lasciare il fidanzato.

Il personaggio di Carlotta (Marion Cotillard) terrorizza perché lei è come una bambina, agisce con una coscienza e una libertà che sono quelle tipiche dell’infanzia. Quando il padre, in di vita, le chiede di farlo morire essa rifiuta proprio perché non concepisce l’idea della fine. Nella scena in cui balla sul pezzo di Bob Dylan o quando si presenta nuda davanti a Ismael è eccitante, elettrizzante ma allo stesso tempo sconvolge per il suo vitalismo.

Ho diversi dubbi sulla possibilità di adattare le opere dei grandi drammaturghi perché non credo di poter trovare una chiave originale per trattare questi lavori. Non ho studiato per cui non sono un accademico. Avendo iniziato a lavorare sul set a diciassette anni e sperimentato ogni tipo di mestiere, mi limito a prendere in prestito i testi dei grandi autori teatrali e letterari e cerco di inserirli nei film. Mi piace mettere in contrasto riferimenti così alti con questioni più prosaiche. Spero di non perdere mai la passione di combinare cose banali con argomenti più nobili. Ne I miei giorni più belli questa cosa è sintetizzata dalla sequenza in cui il protagonista per convincere la professoressa di greco a prenderlo nella sua classe le dice che con lui potrà avere almeno uno studente non all’altezza della situazione. Sono queste le situazioni che amo.

C’è una parola che ho conosciuto tardi ma che ho imparato a utilizzare, ed è Epifania. L’ho presa da James Joyce e mi serve per spiegare il miracolo che avviene durante il montaggio dei miei film. Si sta lì a cercare di mettere insieme una scena e di colpo questa emerge da sola, lasciandoti stupito. Dopo aver visto Gente di Dublino di John Huston comprai l’Ulisse senza però riuscire a leggerlo. Successivamente mi sono affidato a Nabokov che è capace di spiegarlo passo per passo e improvvisamente le difficoltà sono state superate. Leggendo il libro di Joyce mi sono imbattuto per la prima volta in un personaggio maschile che aveva un rapporto terribile con la madre. Per quanto ne sapevo io il cinema e la letteratura avevano preferito mettere le figlie contro le proprie madri; scoprire il contrario è stato davvero strepitoso.

Sono commosso di trovarmi nella sala di Nanni Moretti. Prima di diventare regista temevo che non sarei mai riuscito a trovare la mia voce. Poi sono successi due fatti miracolosi: il primo è stata la lettura di Philip Roth, il secondo la visione dei film di Nanni Moretti. Vederli mi ha illuminato perché ho capito la possibilità che avevo come regista di mascherarmi da me stesso. Nei suoi film lui è Moretti, lo vediamo come se stesso e come un altro che indossa la sua stessa maschera. Per me è stata un sorta di rivoluzione copernicana ed è per questo che gli sarò sempre grato per avermi indicato la strada che volevo seguire.
Carlo Cerofolini
(pubblicata su taxidrivers.it)


sabato 28 aprile 2018

INTERRUPTION


"Non solo questo governo ma tutti i governi
che sono stati in carica durante gli anni della crisi,
hanno dato false speranze alla gente...
I greci hanno votato Syriza perché erano disperati. 
Un popolo disperato non è mai lucido"
(Petros Markaris,  dal Fatto quotidiano del 22 Aprile 2018)



Nell'ambito della crisi finanziaria che ha colpito il mondo occidentale, quella che ha messo in ginocchio la Grecia ha assunto nel corso del tempo significati diversi e capaci di tirare in ballo gli aspetti più ancestrali della sua cultura. In particolare, se teniamo conto della sovrapposizione esistente tra la difesa della propria identità con quella dei confini territoriali, tipica del popolo ellenico, non si fatica a capire quale sia stata la portata dell'impatto causato dall'esplosione incontrollata del debito di questo paese. Chiamati a confrontarsi con la matematica inesorabile del PIL, vero e proprio braccio armato del capitalismo moderno, i discendenti di Pericle e Leonida hanno assistito impotenti (seppur in parte complici) all'espropriazione stessa della propria sovranità, concretizzatasi in un saccheggio materiale e morale delle prerogative che identificano l'esistenza di uno Stato in quanto tale. In altre parole, si potrebbe dire che laddove non è riuscita la satrapia persiana, ha avuto buon gioco la ragionieristica burocrazia europea, gettando nello sgomento ampie fasce di comuni cittadini, destinatari ultimi dell'apocalisse in corso.

Il cinema dal canto suo non è rimasto indifferente a questa che è una della tante declinazioni assunte dal tramonto dell'Occidente, regalandoci attraverso film - nello specifico - di registi come Lanthimos, Avranas e di Konstantatos visioni in grado di registrare l'abisso del reale attraverso storie centrate in primis sulla progressiva dissoluzione dell'istituto famigliare. A essere declinata in questo senso è stata la tragedia greca (nella costante che vede genitori uccidere i propri figli) attraverso trasposizioni in chiave moderna delle opere dei vari maestri della drammaturgia classica. Da questo punto di vista, "Interruption" di Yorgos Zois si presenta come una novità poiché, nonostante l'irruzione di un gruppo di sconosciuti nel teatro in cui si sta rappresentando "L'Orestea", con successivo stravolgimento della messa in scena (da quel punto in poi diretta dai presunti terroristi e interpretata da alcuni esponenti del pubblico), il film non teme di raccontarne l'evoluzione su un proscenio ma, soprattutto. il suo imporsi per il tramite degli elementi fondanti del pensiero filosofico e poetico appartenente alla tradizione. Se, infatti, il nucleo drammaturgico della pellicola ruota attorno al duplice stupore dello spettatore in sala, da un lato, e di quello che nel contesto della vicenda ne contempla la rappresentazione, dall'altro, di fronte agli improvvisi cambi di prospettiva e persino alle morti - vere o presunte non importa - degli attori, a inverarlo è l'atteggiamento assunto dai personaggi rispetto al senso delle parole scritte da Eschilo oltre duemila anni fa. Sorvolando sull'ovvia modernità del messaggio tramandatoci, "Interruption" pone al centro della sua dialettica il rapporto tra finzione e realtà, collegando la dissoluzione del regno di Argo con quello dell'odierna polis greca.


Sul piano stilistico, si nota una corrispondenza ancora più marcata tra una messinscena essenziale, quasi metafisica (il palco è immerso nel buio e al centro prevede una struttura cubica in vetro) e gli stilemi espressivi (analogie ricercate, immagini evocative e anti-realistiche) dell'opera eschilea, in un quadro generale in cui, a differenza di come si potrebbe pensare, è il Teatro a mettersi a disposizione del Cinema e non viceversa, dando vita a uno spettacolo per certi versi ostico quando si tratta di cogliere tutte le implicazioni presenti nel testo originale, quanto affascinante per il coraggio e la costanza con cui il regista persegue il suo obiettivo, vale a dire quello di mostrare la vertigine che procura la messa in discussione del confine che divide la regola dalla sua trasgressione. Ambizione ribadita nel sotto finale ambientato in una sala da ballo, in cui la presenza di personaggi deceduti anzitempo all'interno del teatro e la similitudine con cui viene organizzata la successione delle danze (anche qui a scandire le azioni è un uomo che dà ordini tramite un microfono) assolvono allo stesso tempo a funzione catartica pur non smarrendo un'ambiguità di fondo, quella propria di Eschilo, a dire una sostanziale impossibilità da parte dell'agire umano di sottrarsi al ripetersi delle cose. Se tale scena può essere anteposta (come lo spettatore avrà modo di constatare) ai fatti raccontati, contestualmente, la stessa, potrebbe segnalare il ripresentarsi della medesima situazione. A riprova di quanto affermato dall'autore eleusino.
Carlo Cerofolini
(pubblicato per ondacinema.it)

News: Il mistero delle comete di #Fortnite è arrivato a una svolta




Fonte

 

 


I Pinnacoli Pendenti di Fortnite potrebbero avere i giorni o addirittura le ore contate. Dopo averle viste avvicinare sempre di più al campo di battaglia nel corso delle ultime settimane, ora le comete si stanno effettivamente schiantando a terra.

Come riportato da diversi utenti sui social e Reddit (come il filmato che potrete vedere nel tweet qui sotto), delle piccole meteore stanno precipitando sulla mappa, distruggendo qualsiasi cosa sul loro cammino, sia le strutture del mondo di gioco che quelle create dal giocatore.

 

 Insomma questo sembra essere un antipasto di qualcosa di più grosso, che probabilmente porterà un cambiamento radicale alla mappa di Fortnite, magari distruggendo i Pinnacoli Pendenti come ipotizzato da molti utenti, o comunque apportando importanti novità per la Stagione 4. Non ci resta che attendere per ulteriori svolgimenti.





venerdì 27 aprile 2018

Ps4 i Giochi del Plus di maggio 2018 - Forse non sai che alcuni Giochi sono stati Migliorati per Ps4 - leggi quali


 

 

 

Come di consueto, Sony ha atteso l'ultima settimana del mese per annunciare l'elenco dei nuovi titoli Playstation Plus. Per il mese di maggio, gli utenti in possesso di una Playstation 4 potranno cimentarsi con Beyond: due anime e Rayman Legends, mentre i "vecchi" giocatori Playstation 3 dovranno accontentarsi Risen 3: TitanLord e Eat Them. Anche in questa occasione Sony non si è dimenticata nemmeno dei pochi fruitori di Playstation Vita, inserendo nell'offerta di maggio sia King Oddball che Furmins.

 

 

Ma dobbiamo dire qualcosina in Più specialmente sul Gioco Risen 3: TitanLord e Eat Them. forse non sapete che il gioco è stato riadattato e migliorato su Ps4

 

 

Risen 3: Titan Lords Enhanced Edition è stato rivisto per l'hardware PlayStation 4. I miglioramenti rispetto alle versioni old-gen sono evidenti e apprezzabili, dalla risoluzione aumentata a 1080p nativi alla qualità delle texture, ora paragonabili ai settaggi ultra su PC. Ma oltre a questo sono ravvisabili miglioramenti vari, come variazioni nella profondità di campo e alcuni effetti grafici, come il bloom. L'immagine risulta così molto morbida, dalle tonalità calde e dai colori saturi. Per l'occasione è stato rivisto anche il sistema delle nuvole, che adesso è interamente volumetrico. Purtroppo però non mancano vari problemi tecnici, come il frame rate sbloccato che però difficilmente riesce a tenere i trenta fotogrammi al secondo. I cali sono costanti e spesso severi nella loro gravità, influenzando il gameplay, mentre è ancora presente una serie di bug davvero fastidiosi. Graficamente si possono intravedere pregi e difetti del lavoro di una casa piccola come Piranha Bytes: è lodevole cercare uno stile visivo alla Fable, ma il budget è quello che è ed è impossibile chiudere un occhio sulla pochezza della direzione artistica. Nei limiti del possibile si è però cercato di realizzare ambienti il più possibile variegati, in certi frangenti anche piacevoli se non evocativi. 

 

 

Video: Sea of Thieves: Arriva la Modalità Single Player

Fonte

 

Sea of Thieves è diventato da poco l'IP di Rare degli ultimi 20 anni che ha venduto di più durante il primo mese di lancio e, come ormai saprete, il gioco propone un mondo condiviso dove l'avventura riesce a dare il suo meglio se giocata con un gruppo di persone.

Tuttavia, può risultare appagante e divertente anche se giocato in solitaria o con una sloop da due persone.

A tal proposito risulta interessante l'ultimo video condiviso dagli sviluppatori di Rare, Joe Neate e Shelley e Andrew Preston, che ci forniscono indicazioni e suggerimenti sulla componente single player per rendere più chiaro ai giocatori cosa devono aspettarsi da Sea of Thieves in questa modalità.

Ecco qui il video riportato da Dualshockers:

 

 

mercoledì 25 aprile 2018

JEANETTE D'ARC: INTERVISTA A BRUNO DUMONT



L’umanità dei suoi personaggi si è spesso espressa su due piani, quello del bene e del male. In questo caso Jeanette è un personaggio puro, senza macchia e, alla fine del film, senza paura. Può essere questo atteggiamento una risposta al timore che attraversa la Francia scossa dal terrorismo?

Mi piace riferirmi all’umanità delle persone ordinarie. Qui avevo a che fare con un vero mito francese, capace di contenere in sé tutto ciò che è il mio paese. Se prendessimo in esame gli schieramenti politici, si vedrebbe che Jeannette è amata tanto dall’estrema destra che dalla sinistra. A me però interessava la Jeannette bambina, quando ancora era una persona comune e il germoglio della sua icona si trovava già dentro di lei. Da  questo punto di vista, il film dimostra proprio questo, e cioè che la grazia comincia alla fine della vita profana, dell’esistenza ordinaria. Nessuno ne è privo, però io volevo raccontare la fase di germinazione, quando appunto la grazia inizia a fare i primi passi dentro la protagonista.

L’interesse verso i bambini attraversa tutto il suo cinema (per esempio con P’Tit Quinquin). I giovani sono spesso al centro della sua opera, forse perché le offrono la possibilità di guardare il reale da una prospettiva priva di sovrastrutture? 
Perché è la fonte della miseria e della violenza. Quello dei bambini è il terreno primario, il luogo dove tutto è ancora possibile. Ciò che mi affascina è che nella gioventù si trovino allo stesso tempo la peggior vigliaccheria e la migliore santità per cui ognuno può decidere se diventare santo o diavolo. Questa cosa succede anche quando siamo vecchi perché il nostro bambino interiore continua a essere lì. Gli studiosi dicono che ogni cosa si decide entro i dodici anni, per cui l’uomo che ne ha sessanta e come un bambino di dodici. Si accorge di invecchiare solo perché si guarda allo specchio, altrimenti penserebbe di essere ancora un giovinetto.

Jeannette è un icona della cultura francese, ma il suo stile di vita è uguale a quella di un bambino siriano o libanese che fa il pastore e vive le sue giornate immerso nella natura. In questo senso Jeannette – L’enfance de Jeanne d’Arc è anche un film universale.
È la storia di tutti quelli che vanno in Siria e poi fanno esplodere le bombe, qui è là. Ed è un po’ l’ambiguità di Jeannette, che è una brava persona, ma è anche una matta scatenata perché riesce a cacciare gli inglesi in nome di Dio, e a me quelli che agiscono in nome di Dio mi sembrano tutti matti.

Capita infatti che la stessa bambina innocente e pura possa essere anche quella che, manipolata dagli adulti, diventi uno strumento di morte.
Ma il cinema serve proprio a questo. In realtà la settima arte deve fare un lavoro di catarsi. Jeannette – L’enfance de Jeanne d’Arc lo fa rispetto alle persone che fanno coincidere la violenza e il sangue, facendosi esplodere in Europa e uccidendo degli innocenti. La sua visione ci impedisce di farlo ma il problema è che la gente di questo tipo non va al cinema.

Jeannette dice che per fermare la guerra bisogna ammazzare la guerra. Volevo chiederle: anche per lei non ci sono alternative in questo senso?
Secondo me il cinema è l’unico modo di uccidere la guerra. Noi siamo dei potenziali guerriglieri, tutti noi, per cui ognuno è chiamato a epurarsi da questo istinto omicida attraverso il cinema, la musica, la cultura. Non bisogna dimenticare che siamo tutti assassini, tutti molto pericolosi. Io non lo sono perché riesco a fare arte, ed è ciò che mi protegge, come per lei la sua cultura, che le impedisce di essere un poco di buono.

Però anche l’arte può essere pericolosa.
Si, ma è un pericolo mistificato dall’arte, per cui è una forma di illusione. Hadewijch (2009), per esempio, non era un film pericoloso, perché eroicizzare il male era la catarsi necessaria per liberarsene. Il problema delle persone che mettono le bombe è che non hanno cultura, sono dei cretini. Tutti quelli che la sfuggono sono pericolosissimi perché considerano il reale come una sorta di spettacolo. Oggi, quest’ultimo non coincide con il cinema ma con la televisione. Non esiste più separazione tra realtà e finzione, per cui si guarda la TV come se ciò che mostra esistesse davvero.

Lei guarda spesso la realtà attraverso gli occhi delle persone umili come Jeannette, capaci di reagire alle sollecitazioni esterne senza mezzi termini.  Questo le consente un’osservazione scevra da ogni infingimento. Il fatto che le sue storie siano collocate nella natura, tra boschi, dune e stagni, mi sembra che vada in questa direzione, così come la corrispondenza tra ambiente e personaggi.
Nel cinema la natura corrisponde all’interiorità dell’essere umano. Quando la piccola Jeannette salta nella sabbia è come se balzasse sulla nostra testa. Il reale nel cinema è trasfigurato. La rappresentazione della realtà sullo schermo non è mai qualcosa di esterno ma è l’interno esteriorizzato. D’altronde quando si vede un film lo si fa all’interno di se stessi, non nel mondo circostante.

Il suo è un cinema antagonista. Negli anni novanta si opponeva all’ottimismo dei tempi, presagendone lo spettro della fine. Nelle sue ultime opere, invece, mi sembra accada il contrario, con barlumi di speranza che si oppongono al dilagante pessimismo attaule. Anche la scelta della forma musicale sembra andare in questa direzione.
Ha ragione, è un mezzo di lotta sempre più esacerbato contro il reale. La miscela tra tragico e comico è un modo per affrontare il nostro tempo che è oramai disincantato dal cambiamento delle abitudini politiche. A questa disfunzione ne corrisponde sempre, e dico sempre, un’altra di ordine estetico. Se si guarda lo stato del cinema italiano in rapporto alla grandezza passata, questo è proporzionale a quello della politica perché è lei che ne influenza l’estetica. A tal proposito si potrebbe dire che avete l’estetica che meritate. E la cosa ovviamente vale anche per la Francia e per gli altri paesi.

La composizione delle sue immagini è essenziale, direi quasi scarna, eppure in Jeannette l’ambiente bucolico è ritratto con un equilibrio da cinema classico. Volevo chiederle quali erano dal punto di vista estetico i riferimenti del suo film.
Si, in Jeannette c’è qualcosa di estremamente accademico, di classico che è rappresentato dalla presenza della natura, poi ci sono suggerimenti poetici abbastanza elaborati che sono un modo per trasfigurare il paesaggio naturale. Si tratta di confrontare il reale classico e la tragicità poetica: il tragicomico è uno dei modi di essere moderni. Il comico serve a deridere il reale perché l’esistenza è ridicola, poi c’è sempre la speranza che le cose cambino, che è comunque un concetto classico. Io non sono disperato. Bisogna essere lucidi ma pieni di speranza.

Per fare un cinema così libero a cosa si deve rinunciare? (Sempre se si deve rinunciare a qualcosa).

Non frequento la gente di cinema francese e siccome non li frequento non giro con loro. Non mi innamoro delle attrici francesi, quindi quel mondo non mi protegge e non facilita il mio lavoro. Spero di averle risposto (ride).
Carlo Cerofolini
(pubblicata su Taxidrivers.it)

martedì 24 aprile 2018

JEANNETTE, L'ENFANCE DE JEANNE D'ARC

Jeannette, l’enfance de Jeanne d’Arc
di, Bruno Dumont
con, Lise Leplat Prudhomme, Jeanne Voisin, Lucile Gauthier, Victoria Lefebvre, Aline Charles, Elise Charles
Francia, 2017
durata, 105’


Things they do look awful c-cold
Talkin’ ‘bout my generation
I hope I die before I get old
Talkin’ ‘bout my generation
- The Who -


E’ possibile contrastare i cupi presagi evocati dalla quotidianità con un atteggiamento che sia allo stesso tempo improntato alla leggerezza e intriso di una sorta di disponibilità originaria, di apertura passionale, ossia di una prossimità schietta, non mediata, con il corpo naturale del mondo e quello sociale degli uomini ? Forse sì. Almeno a giudicare dalla traiettoria disegnata dall’ultimo Cinema di un autore come Dumont - da sempre latore di una riflessione tenace quanto tormentata circa le parimenti scivolose ambiguità che individuano il rapporto tra la componente materiale dell’esistenza e gl’indizi che per contro ne adombrano un’ipotesi di trascendenza - che, almeno da “P’tit Quinquin” in poi, ha riservato segmenti sempre più ampi del proprio tragitto alla cura di un’impertinente irrequietezza, scanzonata e paradossale, ilare e disarmata, l’intento apparente, comunque coraggioso e antagonista, di distillare un antidoto alla crassa mestizia dei tempi.

Prova ne è anche questo recente “Jeannette, l’enfance de Jeanne d’Arc”, centrato, tenendo presente Le mystère de la charitè de Jeanne d’Arc (1910) di Peguy, sui trascorsi immediatamente antecedenti la prodigiosa ascesa nelle urgenze della Storia da parte di quella che sarebbe diventata la più celebre delle pulzelle. A partire dall’estate del 1425 (nell’imminenza, cioè, del tragico assedio di Orlèans, una decina d’anni dopo la disfatta di Azincourt e concedendosi la libertà di sfasare di qualche anno l’anagrafe del personaggio storico con quella della protagonista chiamata in prima battuta a interpretarlo), Dumont coglie la piccola Jeanne - ancora detta Jeannette, prima che l’arcangelo Michele in persona ne esiga la precoce entrata nell’età adulta sopprimendo il colloquiale vezzeggiativo - una strepitosa Leplat Prudhomme (basta guatarne lo sguardo tanto stupito quanto vigile per sincerarsene), tra dune di sabbia intervallate dalla macchia e da rigagnoli sullo sfondo d’un cielo chiaro e per lo più limpido che annuncia in lontananza il mare, interrogarsi, sola o assieme alla coetanea Hauviette/Gauthier a 8 anni, Lefebvre a 13, circa i tristi destini della Francia e, più in generale, dei cristiani di buona volontà: Finché non ci sarà qualcuno in grado di uccidere la guerra, saremo come bambini che si divertono nei prati a fare dighe e ponti con la terra e il fango della Mosa. Ma la Mosa finisce sempre per passargli sopra, prima o poi (Jeannette). Per uccidere la guerra, bisogna farla. Per ucciderla serve un condottiero. Possiamo essere noi a fare la guerra ? (Hauviette). 

Conducendo al pascolo il suo sparuto gruppo di pecore Jeannette chiarisce mano mano a sé stessa l’origine dell’insofferenza patita di fronte alla desolata rassegnazione degli ultimi (Soffro di un dolore sconosciuto, oltre ciò che si può immaginare… E’ l’inferno stesso che trabocca sulla Terra. Che succede, Dio mio ? Che succede ?), inquietudine che la risolverà qualche anno dopo, in piena adolescenza (restituita dalle fattezze di Jeanne Voisin), a proporsi come paladina in armi contro l’invasore britannico.

Fedele alle proprie coordinate territoriali (l’amato Nord della Francia), di messinscena (scabri set naturali in cui la figura umana tenta ogni volta di riannodare i fili d’un dialogo compromesso, se non irrimediabilmente distrutto con il paesaggio, controparte vivente) e narrative (la progressione drammaturgica organizzata più che altro per incisi, parentesi, digressioni più o meno tra loro correlate), il regista di Bailleul si concede qui la torsione capricciosa di un ulteriore ampliamento della gamma espressiva delle immagini introducendo, a integrazione del recitativo tradizionale, inserti cantati/salmodiati - e spesso corredati da abbozzi di danza - che suonano come rimaneggiamenti di inni sacri medievali (E non c’è niente/E non c’è niente/Ciò che regna sulla faccia della Terra/non è altro che la perdizione) alla luce di distorsioni rock, lepidezze metal, ingenuità circensi. Il risultato è un singolare ibrido tra sacro e profano, che del primo conserva il candore primigenio di un entusiasmo spirituale ancora non sottoposto al tornio della formalità istituzionale e del rigore ritualistico (avversione già manifesta, per altro, nella liturgia messa in ridicolo proprio nel succitato “P’tit Quinquin”), in grado di considerare il divino - chiamato in causa da un animale selvatico prescelto e ispirato - confidente privilegiato dei parti di un immaginario in formazione, quest’ultimo animato dal trasporto e dalla devozione ma scevro dell’imbarazzo reverenziale o dottrinale. 

Dell’altro rivendica invece la componente ludica e imprevedibile, l’esaltazione interiore tutt’uno con la gioia del corpo, nella placida ma certa riaffermazione della fanciullezza come interludio privilegiato ma tale proprio perché ugualmente e potenzialmente amorevole e brutale, curioso eppure già in sentore di disincanto: in ogni caso - e quello in questione ne è valida testimonianza - ben lungi dalla trita retorica caramellosa che sovente ne ammorba la rappresentazione. Jeannette/Jean, così, nella versione/visione di Dumont, in virtù di un qual vitalismo presago, nei panni dimessi di una Menade accorta che fa dell’istinto e dell’irriverenza baluardi per la conservazione d’una intangibile purezza di fondo, sfugge senza sforzo e di fatto alle ovvie trappole della manipolazione e della mistificazione ideologica collocandosi, rara avis, tra coloro il cui sacrificio personale non sottende rivendicazioni quanto lo slancio spontaneo di un proposito dignitoso.
TFK

lunedì 23 aprile 2018

GHOST STORIES


Ghost stories 
di Andy Nyman
con Andy Nyman, Paul Whitehouse, Alex Lawther
Gran Bretagna, 2017
genere, drammatico 
durata, 98’



Il professor Philip Goodman in televisione è un investigatore del soprannaturale che ritiene possa essere sempre smascherato come una truffa tutto ciò che appare inspiegabile. Ha un mito di gioventù, un uomo che svolgeva la stessa attività, ma è scomparso da anni. Quando questi si mette in contatto con Philip, il professore vede il suo entusiasmo deluso nel trovare l'uomo non solo in disgrazia, ma pure convinto di aver sbagliato tutto. Affida a Philip tre casi per lui inspiegabili, sperando che sappia risolverli e gli dica di non aver gettato la sua vita. Il primo riguarda un guardiano notturno che ritiene di essersi imbattuto in un fantasma, il secondo un giovane che sostiene di aver incontrato una creatura demoniaca, il terzo è un uomo di successo la cui casa è infestata da poltergeist.

Costituito da più episodi racchiusi in un racconto cornice, “Ghost Stories” supera la propria struttura usando i singoli capitoli come parte di un puzzle destinato a ricomporsi in modo irresistibile.

Nasce dalla mente di Andy Nyman e Jeremy Dyson, il primo dei quali ne è anche protagonista: entrambi fanno parte della geniale troupe comica “The League of Gentlemen”, che ha avuto anche uno show su BBC dove non mancavano omaggi alla tradizione horror e gotica inglese. Prima di essere un film, “Ghost Stories” è stato una pièce teatrale che ha debuttato a Liverpool nel 2010, per poi arrivare a Londra, Toronto, Mosca, Sydney e altrove. Già ideata come una sorta di lettera d'amore per gli horror della Ealing incrociati al gusto più popolare della Hammer, trova ora sul grande schermo la sua forma più naturale. D'altra parte questa trasmigrazione porta con sé un rischio: se a teatro gli stereotipi del cinema funzionano come un omaggio, al cinema rischiano di tornare a essere stereotipi. 

Girata nello Yorkshire, non manca di citare, in questa nuova versione, anche altre opere, estranee alla tradizione inglese, come “La casa” di Sam Raimi, con la soggettiva quasi ad altezza terreno di una presenza demoniaca in corsa in mezzo a un bosco nella notte. Il protagonista Andy Nyman ha familiarità con l'horror anche splatter: era stato, infatti, tra gli interpreti di “Dead Set” di Charlie Brooker, che gli dedicava una fine particolarmente cruenta.


Ognuno dei tre episodi ruota intorno a un diverso interprete, il primo è il meno famoso fuori dai confini inglesi, il gallese Paul Whitehouse molto amato in patria per una sketch comedy. Il secondo è Alex Lawther, lanciato da serie Tv come “Howard's End” e soprattutto “The End of the F***ing World”, mentre il terzo è il più celebre Martin Freeman, che ha recentemente partecipato al travolgente successo di “Black Panther”. Ognuno di loro detta il tono del proprio racconto, il primo con un accento marcato e la decadenza dell'età e dell'alcolismo; il secondo con la frenesia paranoica che già aveva sfoggiato nell'episodio di “Black Mirror” intitolato “Shut Up and Dance”, qui coniugata al terrore per il soprannaturale. È Freeman però a essere il più sinistro, perché la sua apparenza da uomo qualunque e molto ordinato rende il soprannaturale che lo circonda ancora più sorprendente e inquietante.

Nyman riserva per sé il pezzo forte del film, il finale in cui si riannodano i fili di un arazzo solo apparentemente sconclusionato, ed è qui che la regia ricorre a soluzioni semplici eppure originali che perforano letteralmente la percezione di realtà del cinema. “Ghost Stories” riesce, così, a essere più di un film a episodi o di un semplice pastiche, regalando, con gli ultimi colpi di scena, il piacere di un'opera compiuta, non senza una bella dose di autoironia.
Riccardo Supino

domenica 22 aprile 2018

LA FOTO DELLA SETTIMANA

La nostalgia della luce di Patrizio Guzmàn (Cile, Stati Uniti, Spagna , Francia, Germania, 2010)

sabato 21 aprile 2018

L'AMANT DOUBLE

L’Amant Double
di François Ozon,
con Marine Vacth, Jérémie Renier, Jacqueline Bisset
Francia, 2017
genere drammatico, thriller
durata 110’


François Ozon è un regista poliedrico che ama cambiare registro stilistico le cui tappe, nella sua ormai lunga filmografia, vanno dalle commedie (Ricky, Potiche) ai film in costume (Angel, Frantz), dai drammi (Sotto la sabbia, Il rifugio, CinquePerDue - Frammenti di vita amorosa) fino al thriller (Amanti Criminali, Swimming Pool, 8 donne e un mistero). Accomunano queste opere la ricerca del gusto per il pastiche, le svolte psicologiche improvvise, una messa in quadro classica, la cura dell’immagine pulita ma mai patinata, utilizzando la saturazione e la desaturazione dei colori secondo l’impronta emotiva della specifica pellicola.

L’Amant Double, ultimo suo lavoro in ordine di tempo, è un thriller claustrofobico, un duetto tra la Chloé (Marine Vatch, già vista in Giovane e bella) una ragazza problematica che si innamora del suo psichiatra il dottor Paul, per poi scoprire che ha un fratello gemello omozigote Louis (interpretati da Jérémie Renier, attore feticcio dei fratelli Dardenne) dalla personalità perversa.

Opera di chiara influenza hitckockiana nell’impostazione della messa in scena, L’Amant Double può essere una felice sintesi de Le due sorelle di Brian De Palma e Inseparabili di David Cronenberg con cui ha molti punti in comune, non solo per il tema affrontato – i gemelli come divisione della personalità, la metamorfosi psichica che tracima nell’assimilazione della carne – ma anche per alcune sequenze: come la scena in cui Chloé fa l’amore con i due fratelli e il suo corpo si sdoppia, in una rappresentazione onirica in cui la mente influenza l’esteriorità dei corpi; oppure, quando la ragazza si trova di fronte una se stessa ammalata e silente nella casa di Madame Schenker (Jacqueline Bisset), vecchia fiamma dei due fratelli . Alla fine, si può anche citare un’altra pellicola con cui ha elementi di contatto come La metà oscura di George Romero, dove il “fratello” gemello è stato cannibalizzato all’interno dell’altro.


Senza andare oltre, lo spettatore comprende la complessità tematica dell’opera di Ozon che riesce, con scarti della macchina da presa, a inquadrare la protagonista in molti primi piani con controcampi su specchi e finestre, moltiplicatori della sua immagine. Chloé si raddoppia nel volto di Paul/Louis, in un gioco labirintico del montaggio che confonde, mischia i punti di vista.  La soggettività scopica della ragazza si scompone, attuando un transfert della sua situazione nei confronti del proprio analista.

L’incipit è un primo piano di Chloé su sfondo neutro mentre mane anonime le tagliano i lunghi capelli liberando uno sguardo spento e fisso sullo spettatore che diventa anch’egli “doppio” del personaggio, rendendo partecipe il pubblico della mutazione allucinogena della protagonista, immergendolo immediatamente nell’atmosfera misteriosa di L’Amant Double.


Il regista francese effettua un esercizio di stile postmoderno, costruendo un vero e proprio mélange citazionistico, ribaltando continuamente ruoli e punti di vista, in un accumulo di inquadrature all’interno di spazi dalle scenografie algide e fredde. In un’atmosfera ospedaliera, dove la macchina da presa diventa un bisturi nella mano di Ozon, vero e proprio mad doctor onnisciente, che taglia in profondità la visione: l’immagine è delimitata da precisi raccordi tra sguardi e corpi che si scindono e si riproducono come frame-cellule impazzite. Così come L’Amant Double, corpo-film estraneo, abortito, assimilato, moltiplicato, ritorna a essere unico dopo la sua totale visione. E il titolo non rappresenta solo la messa in scena di un amore malato, ma l’”amante doppio” metaforicamente è anche il cinema stesso, in un rapporto gemellare tra regista e lo spettatore attraverso il corpo filmico.

L’Amant Double risulta così una pellicola disturbante, un’opera che tratta in modo originale temi e stilemi (ri)conosciuti, rendendo complice la visione dell’autore e di chi la osserva. E alla fine, come la protagonista, ci si sente svuotati e compiuti nello stesso momento, specchiati nell’ultima inquadratura. Come vedere se stessi nella profondità dello sguardo della macchina da presa.

Antonio Pettierre

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venerdì 20 aprile 2018

IL PIACERE DI DIRIGERE GLI ATTORI: INTERVISTA A VALERIO ATTANASIO, REGISTA DE IL TUTTOFARE


Sceneggiatore di Smetto quando voglio, Valerio Attanasio esordisce alla regia con una commedia all’insegna del ritmo e della qualità degli attori, guidati da un Sergio Castellitto in versione mattatore. In occasione dell’uscita de Il tuttofare abbiamo incontrato il regista chiedendogli del suo film e facendo il punto sullo stato attuale della commedia italiana.



Tu sei prima di tutto uno sceneggiatore, per cui mi interessa sapere in che rapporto ti poni come scrittore rispetto alla realtà.

Se devo essere sincero ciò che scrivo ne è la conseguenza, nel senso che le idee che mi vengono in mente hanno di certo un aggancio con ciò che mi circonda, ma le ragioni per cui si manifestano non sono il frutto di un calcolo preordinato. Per Il tuttofare ho conosciuto persone che vivevano nella condizione del tuttofare, e cioè di Antonio Bonocore –  il praticante in legge interpretato da Guglielmo Poggi -, e senza volerlo mi è venuto in mente la trama del film. Non sarei in grado di costruire una storia in maniera preordinata.

Il tuttofare è innanzitutto un film di meccanismi. E mi riferisco all’unisono con cui il tempo della narrazione si interseca con la modalità di recitazione degli attori. Sembra quasi che sia quest’ultima a tenere alto il ritmo, addirittura a crearlo. Come hai affrontato questo aspetto?

In realtà è stato il fascino di lavorare con gli attori a spingermi verso la regia. Sono loro ad avere la magia di dare vita a ciò che scrivi e che reciti a te stesso – perché io mentre procedo con la sceneggiatura faccio tutte le intonazioni dei personaggi (ride) -. Quando te li ritrovi davanti mentre danno interpretano le tue parole, e, come Sergio Castellitto, sono in grado di aggiungervi sfumature che neppure immaginavi allora la fascinazione si moltiplica. Dopodiché ho cercato di trasmettere agli attori lo stesso tipo di ritmo con cui immaginavo dovessero essere recitate le battute. Una volta inteso ciò che volevo hanno proseguito in automatico. E devo dire che sul set mi sono davvero divertito e sentire le mie parole pronunciate da Castellitto e da Elena Sofia Ricci, è stato davvero gratificante.

Quando hai scritto il film pensavi già a Castellitto?

No, pensavo a quelli che sono gli attori a cui Sergio si è ispirato, a Manfredi, per certi versi Gassman, a De Sica per la sua raffinatezza. È come se avessi avuto in mente le facce del cinema che amo e quando ho incontrato Castellitto anche lui, dopo la lettura del testo, aveva in mente gli stessi nomi.

Te lo chiedo perché è così bravo a entrare nel ruolo dell’avvocato Toti Bellastella da sembrare che tu abbia creato il personaggio apposta per lui, calibrato sulle sue specifiche d’attore.

L’idea era di prendere un grande attore che fosse tale a 360°, abituato a recitare ruoli drammatici oltreché comici. Con lo stesso criterio ho scelto la Ricci che  non è una comica come potrebbe esserlo la Cortellesi.  In realtà ho sempre pensato che Sergio abbia un talento speciale per fare ridere ma che non fosse mai stato davvero valorizzato. L’ultimo ruolo bello che ha avuto in una commedia era in Caterina va in città di Virzì.

Rispetto alle commedie prodotte in Italia avere un attore come Castellitto fa la differenza. Inoltre mi pare che sia la prima volta che venga utilizzato a certi livelli di comicità.

Ne sono contento perché questo era uno dei miei obiettivi. Il tuttofare è anche un modo per dire che gli attori italiani sono bravissimi. Si dice spesso che non c’è ne siano ma la questione è che i grandi interpreti hanno bisogno di un palcoscenico del loro livello. Se a Castellitto non hanno mai proposto un film come il mio –  al di là del suo valore – c’è qualcosa che non va. È chiaro che il più delle volte le scelte cadono sui cabarettisti,  nella convinzione che siano gli unici a ben figurare nel genere in questione. Al contrario, un’artista di spessore è innanzitutto poliedrico, capace come Sergio di confrontarsi con qualsiasi personaggio.

Non a caso nel film lo spettacolo e il divertimento non derivano dagli aneddoti e dalle battute ad effetto ma, trattandosi (anche) di un buddy movie, dalle dinamiche che si instaurano tra i personaggi e dalle maschere create per loro dagli attori. Se poi si volesse entrare nel dettaglio Il tuttofare è capace di raccontare anche attraverso il  modo di indossare i vestiti da parte dei protagonisti.

L’idea era quella che gli abiti riuscissero a sottolineare lo scarto tra il privato e il pubblico dell’avvocato Bellastella. Così, se da una parte i completi di sartoria e l’eloquio forbito utilizzati nel corso delle udienze   servivano per esaltarne la padronanza di sé e l’atteggiamento guascone di chi se sente inattaccabile, dall’altra, l’abbigliamento occasionale e dimesso con il quale lo vediamo nel privato, e per esempio, in occasione della sua scarcerazione mi serviva per rivelarne la dimensione mediocre e truffaldina. E, a proposito del , si tratta di un altro genere che amo. Il gioco della coppia comica mi sembrava legare benissimo con la storia, perché se è vero che a un certo punto l’allievo si ricrede rispetto al proprio mentore, in altri  momenti i due raggiungono un alto livello di complicità.

Alle commedia contemporanea si rimprovera la mancanza di cattiveria e l’incapacità di saper affrontare in profondità i mutamenti della nostra epoca. A questo proposito che idea ti sei fatto?

Rispetto al passato non esiste più la volontà di denunciare certe azioni perché la mia generazione ha metabolizzato l’indignazione verso la disfunzionalità dello Stato. Lo scollamento tra ieri e oggi lo metto in scena anche nel film, quando, al padre che si appella alle regole sindacali, Antonio replica “Papà non se ne può più dei sindacati”. Da come lo dice, si capisce che questo non è il presupposto per scendere in piazza e protestare ma solo l’affermazione di un dato di fatto. Quando parlo con i miei pari età percepisco che si discute di certe ingiustizie non in maniera critica ma solo per fare il punto sulla situazione. Mentre i miei coetanei si sono abituati al tempo in cui vivono, i loro genitori no, ed è da qui che nascono le incomprensioni.


Quindi tale mancanza di carattere altro non sarebbe che il riflesso dell’umore che si respira per le strade e nelle case dei nostri concittadini?

Chi ha vent’anni oggi non critica il nostro tempo perché non ha paragoni con ciò che succedeva nel passato. In questo senso Il tuttofare ha un’impostazione contemporanea; al contrario delle precedenti generazioni il film non si fa promotore di alcuna rivendicazione ed è questa la ragione per la quale Antonio non prende in considerazione le proteste e gli appelli alla legge rivendicati dal padre; rispetto agli ideali e alla lotta si accontenta di essere cosciente di come funziona lo status quo. Da qui il contrasto generazionale, e quindi i fraintendimenti sugli obiettivi che la commedia dovrebbe perseguire.

Forse anche a livello critico esiste questo malinteso, quando si continua a fare paragoni con le opere dei vari Risi e Monicelli. 

Se hai notato, nel film non ci si prende mai sul serio rispetto al tema del precariato giovanile. La scoperta da parte di Antonio che gli altri assistenti sono pagati di più di lui solo perché sono raccomandati non è utilizzato dal film per denunciare la corruzione della società. In questo senso rispecchio ciò che vedo intorno a me, e cioè un sacco di ragazzi che nonostante non ricevano compensi per il lavoro prestato non si lamentano, dando per scontato che per arrivare si debba accettare anche queste cose. Per gli adulti è una cosa intollerabile, per loro un passaggio necessario. Questo è causa di incomprensione. Ai tempi di film come Il sorpasso o La grande guerra in Italia era in corso un processo di crescita al quale bisognava affiancare tutele crescenti anche a livello sindacale, oggi non è più cosi.

C’è poi da dire che i registi di allora avevano fatto la guerra e, in generale, provenivano da un’esperienza esistenziale radicalmente opposta a quella vostra. Senza dimenticare le differenze esistenti sotto il profilo della formazione culturale.

Sono d’accordo nel dire che la società è cambiata, ci mancherebbe, ma preferisco soffermarmi sul fatto che la commedia all’italiana era legata ad altre forme di narrazione. Come sceneggiatore,  più che ai registi mi sono rivolto a figure come Age e Scarpelli e Vincenzoni. Quando scrivevano i loro capolavori si riferivano alla tradizione dei grandi classici della letteratura, caratterizzati da un universalità destinata a sopravvivere alle mode. Citavano spesso la letteratura russa, dalla quale prendevano la struttura sulla quale veniva innestato il contesto in cui vivevano. Questo fa sì che i titoli della commedia italiana degli anni 60 siano diversi da certi film di Scola; i primi sono molto più politicizzati perché nascevano in un epoca di forte ideologizzazione.

Tu invece cosa leggi per fare il tuo cinema?

Sono demodé in tutto, anche nella lettura, quindi ammetto di non avere interessi verso i libri contemporanei. Leggo gli scrittori russi –  soprattutto Cechov su cui ritorno sempre ma anche Gogol – , i francesi, la narrativa italiana dell’ottocento. Apprezzo molto il romanzo picaresco, e quindi Il Don Chisciotte e Lazzarillo De Tormes che ho citato pure nelle note di regia perché era un libro che mi ha colpito tanto e a cui si sono molto ispirati Age e Scarpelli. In essi c’è satira sociale ma non ci si piange addosso. De Tormes, tanto per dire, prende in giro in clero in un modo che ancora oggi risulta davvero moderno.

Il fatto di metterla in burla è una caratteristica del film. La rappresentazione dell’avvocato Bellastella è giocata proprio su questo.

È un atteggiamento che ho nella vita. Quando le persone si prendono troppo sul serio reagisco così. Però quando scrivo mi affeziono a tutti i personaggi, bravi o cattivi che siano, quindi anche di un tipo come l’avvocato Bellastella.

Abbiamo parlato dei riferimenti ai grandi autori della commedia italiana, ma ne Il tuttofare ci sono omaggi al grande cinema americano, a iniziare dalla prima sequenza dove ti servi dello stesso espediente messo a punto da Wilder ne Viale del tramonto; per non dire della citazione tratta da Intrigo internazionale.

Ce n’è molto, soprattutto di quello realizzato negli Stati Uniti da maestri europei. Ad esempio L’appartamento ha delle attinenze con il mio film nel rapporto tra il capo e la sua amante. Non l’ha notato nessuno e mi sono dimenticato di scriverlo nelle note di regia, ma il film di Wilder mi ha molto ispirato. Tra l’altro, io sono onnivoro di questi film e in particolare di quelli più vecchi. Se uno guarda un film muto degli anni ’20 vi troverà scelte estetiche più sperimentali di quelle presenti nelle opere contemporanee. I film di Hitchcock del periodo inglese sono tra questi. Nel mio film ho pure tentato di replicare una scena da Vogliamo vivere di Lubitsh, e mi riferisco alla scena del tribunale dove vediamo per la prima volta qual è il risultato dell’operazione a cui si è sottoposto il figlio del camorrista. Purtroppo non ci sono riuscito.

Come era successo con Smetto quando voglio di cui eri sceneggiatore, anche Il tuttofare è una commedia (quasi) tutta al maschile. Parlo anche in termini di occupazione dello spazio nel quale la controparte femminile, ove presente, è meno vistosa e talvolta in disparte. Da cosa dipende questa scelta?

Deve essere una cosa inconscia. Quando penso a una storia la prima cosa che mi viene in mente è un ragazzo che fa una cosa. Rispetto a Smetto quando voglio dove non ci sono personaggi femminili qui non è cosi, anzi , devo dire che mi sono molto divertito nello scrivere il ruolo di Elena Sofia Ricci che nella storia è la moglie di Bellastella.

Da spettatore avrei preferito che la coppia Castellitto/Ricci avesse avuto più spazio.

Non dirlo a me. Durante il montaggio mi sono mangiato le mani perché ho pensato che quella coppia diabolica meritava maggiore visibilità. Però non tutti i mali vengono per nuocere poiché ho capito di poter scrivere anche personaggi femminili. Nei duetti tra di loro, alla fine è lei a prendere il sopravvento e a suscitare le risate del pubblico.

La Ricci è davvero brava e in certi momenti riesce a essere la versione nostrana di Crudelia De Mon. La sua performance mi fa pensare che sia persino sottovalutata dal cinema italiano.

Lei è bravissima, però il fatto di ghettizzarsi per mesi nel ruolo della suora della serie televisiva Che Dio ci aiuti fa si che i registi finiscano per non pensare più a lei. Quando ci siamo visti per la prima volta mi ha chiesto come mai l’avessi chiamata visto che gli altri registi da tempo non lo facevano più.

Tra i meriti del tuo film ci sono quello di rivalutare un attrice come la Ricci, di scoprire una promessa come Guglielmo Poggi e di impiegare in maniera pressoché inedita Castellitto.

Ho constatato che più gli attori sono bravi, più il regista è facilitato nel suo compito; gli si dice una cosa e loro riescono a farla in un attimo. In più se c’è qualche  correzione da fare non c’è bisogno di stargli dietro. Quindi riferendomi alla tua domanda, condividere il set con questi nomi mi ha permesso di vivere con tranquillità ed entusiasmo il mio esordio.

Allen procede più o meno nella stessa maniera, scegliendo attori così bravi e in parte da non aver bisogno d’altro che di lasciarli recitare.

Premesso che Allen è un genio, sono d’accordo con lui. A Sergio ho detto pochissime cose. All’inizio cercavo di spiegargli il personaggio e finiva che fosse lui a parlarmene, questo per dire fino a che punto lo aveva compreso. Poi, magari, gli facevo notare che una certa cosa era troppo caricata e lui, al secondo ciak, la faceva in maniera così perfetta da non esserci bisogno di ulteriori riprese. D’altronde con Castellitto la scommessa era quella di impiegarlo in un ruolo nel quale il pubblico non è abituato a vederlo. Inoltre, nonostante sia anche un regista, sul set non ha mai fatto un passo al di là del proprio recinto d’attore. Ho apprezzato molto la sua misura.
Carlo Cerofolini
(pubblicata su taxidrivers.it)