“Se dovessi camminare in una valle oscura…”/A proposito di "Valley of shadows"
Paura e sete di conoscenza sono stati psicologici spesso complementari. Non a caso rappresentano due dei pilastri della fabula, del racconto esemplare: peculiarità ancor più esaltata qualora il fulcro della vicenda sia un animale sapiens di pochi anni. Si pensi, per dire, all’irresistibile curiosità (oltreché al più prosaico appetito) che spinge Hänsel e Gretel nella dolce dimora della strega. O a Pollicino e alla sua baldanzosa astuzia, strumento questo in grado di farsi beffe dell’Orco ancor prima di sconfiggerlo. Nello stesso istante, timore e desiderio di sapere identificano spinte che agiscono tanto nell’orizzontalità dei più diversi contesti storici e culturali, quanto nella profondità dei singoli caratteri individuali. Questo per sottolineare quanto sia in generale pregnante la loro influenza e nel particolare verosimile la loro collocazione in un ambiente eccentrico o remoto. Non stupisce, allora, riconoscere le conseguenze dell’impatto della loro forza entro gl’incerti confini d’un minuscolo abitato dell’aspro Nord dell’emisfero boreale riassumibili nello sguardo assorto e nei gesti misurati di Aslak, ragazzino silenzioso e introspettivo quanto attento ai dettagli e per nulla incline a lasciar svanire nel torpore ominoso d’un mondo all’apparenza immobile specifici segni inquietanti che invece quello produce a testimonianza della propria sotterranea e primigenia irrequietezza.
In un quotidiano fatto di giorni brevi e perlopiù freddi in cui le ombre s’allungano impietose e ritagliano anche nel conforto dei luoghi conosciuti interminabili istanti d’angosciosa sospensione sempre aperti, per un verso, all’irruzione d’un’orrore indicibile anche perché appena consumatosi (la tragica perdita del fratello, per Aslak) o, di contro, addirittura già detto e ripetuto, ossia entrato a far parte del patrimonio condiviso di narrazioni leggendarie e, chissà, di episodi sepolti dalla polvere della Storia (la macabra eliminazione di alcuni capi di bestiame intervenuta a spezzare la sonnolenta imperturbabilità del villaggio viene subito attribuita da Lasse, amico del cuore di Aslak, alle fasi di luna piena, cioè agl’istanti prediletti dalla ferocia d’un ipotetico licantropo); per l’altro, come dolcemente predisposti al prevalere d’una innocua e inscalfibile monotonia, ecco che proprio le spinte contrastanti ma non meno potenti della rassegnazione ansiosa e della rivolta quieta ma decisa (Aslak parla pochissimo. E’, di fondo, mite e servizievole, eppure non arretra mai di fronte a una rivelazione impressionante; all’incognita d’una verità magari insostenibile ma a portata di mano; alla possibilità d’armeggiare con la chiave che da accesso all’irrazionale), marcano lo scarto che divide il protagonista, la sua purezza di sguardo che lo protende verso ciò che “aspetta alle soglie del buio” - come ammoniva Eschilo - dal resto d’una comunità colta perlopiù nel suo frammentario e irrisolto (complice ?) anonimato (gli adulti nell’opera di Gulbrandsen vengono via via ridotti alle proporzioni del punto di vista di Aslak, quindi sovente se ne odono solo brani di dialogo o se ne avverte la presenza mentre entrano o escono da settori di spazio già delimitati da pareti o da altri ostacoli naturali).
Data una premessa simile, acquista maggiore coerenza (e guadagna in approssimazione) l’ipotesi per cui la figura di Aslak si stagli infine più che altro come inconsueta raffigurazione paradigmatica dell’eroe al momento della prima delle sue molteplici iniziazioni. Il viaggio solitario alle radici del Male penetrando lo scrigno che ne protegge l’enigma (un'incombente foresta degna dell’intuizione febbrile di Frederich o di Böcklin); l’attraversamento d’un corso d’acqua disteso sul fondo d’una piccola imbarcazione (reminiscenza di vari miti norreni e non inerenti l’attraversamento del confine tra la vita e la morte); il sibillino faccia a faccia, in un’oscurità brumosa, con un’insinuante e inquisitiva personificazione del Negativo, risolto con impassibile ambiguità (interrogato da una voce profonda proveniente dal buio con un perentorio “Hai paura di me ?”, Aslak non risponde ma curva impercettibilmente l’angolo delle labbra in un’impenetrabile eppure allusiva espressione); il ritorno alla vita nella medesima barchetta ma risalendo la corrente, inerzia alimentata da una nuova consapevolezza, paiono scandire, in altre parole, i momenti interiori d’un tempo-al-di-là-del-tempo in cui armonizzare la cadenza dei passi all’ampiezza d’un itinerario volto ad arginare il dolore con lo sforzo di comprensione al fine di misurarsi degnamente con ciò che sta oltre la Ragione e impedire alla Morte di rimanere solo un'estranea muta.
TFK
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