Mazinga Z Infinity
di Junji Shimizu
genere, animazione
Giappone 2017
durata, 95’
genere, animazione
Giappone 2017
durata, 95’
I lasciti del tempo vanno sempre maneggiati con attenzione. Essendo costituiti da elementi deperibili, si prestano di fatto a interpretazioni contraddittorie, se non a veri e propri equivoci. Inoltre, nel caso in cui al quadro, già di suo poco esaltante, s’aggiunge la fatalità della perdita d’una condizione privilegiata - in genere coincidente con la giovinezza di colui il quale con taluni di questi lasciti ha avuto la ventura d’imbattersi - ecco che il disinganno velato di delusione si fa strada anche nei meccanismi di difesa (perché, tutto sommato, tali sono i tentativi di conservare intatti o, addirittura, vedere migliorati, certi frutti dell’ingegno adottati dal proprio immaginario) più accomodanti.
Simile suggestione accompagna il trovarsi al cospetto d’un’opera come “Mazinga Z Infinity” di Shimizu, basata sulla figura dell’eroe umano-meccanico (mecha) partorito dall’estro di Go Nagai nei primi anni ’70. Lo sforzo di tenere insieme in un unicum coerente e vitale un’intuizione coronata dal successo ma appartenente al passato con l’esigenza d’attualizzarla senza snaturarne l’essenza (duplicità ribadita anche in senso strettamente tecnico e stilistico lavorando su un’idea d’animazione che tiene presente, ossia fa convivere, l’innovazione digitale con l’artigianalità pura del disegno) è, per l’appunto, rivelatore d’una ambiguità di fondo - quasi archetipica, potremmo dire - tra genuina ispirazione e necessità contingenti, che il film dal canto suo non risolve ma amplifica in una sorta di guado perenne dal quale mano mano tenta di cavarsi fuori ricorrendo però a (noti) mezzi interlocutori che rispondono vuoi al passo altalenante d’una trama complicata e circolare; vuoi ai rovelli interiori del protagonista oscillanti tra l’approdo a un ruolo d’osservatore quasi distaccato delle sorti d’un’umanità ritratta sul crinale d’un imminente e definitiva pacificazione ottenuta grazie all’utilizzo saggio d’una favolosa energia, quella fotonica, e l’altro (funzionale al lato spettacolare del film e ai meccanismi d’immedesimazione), una volta che l’ordine viene insidiato da una terribile minaccia, d’intrepido combattente: vuoi, infine, alla riesumazione d’uno storico avversario (il Dottor Inferno), opposto in tante precedenti occasioni al campione del Bene.
Parallelamente a questo incerto tentativo d’effettuare uno scarto nella riproposizione, s’innesta, altrettanto dispersivamente, il cuneo simbolico d’una doppia natività (quella che allieta Tetsuya e Jun e introduce quella a venire di Koji e Sayaka) e il fenomeno futuro ma tangibile d’una dimensione d’inedita parentela tra genere umano e - diciamo così - quasi tale (Lisa, carattere femminile dalle spiccate implicazioni metaforiche nelle sue sembianze di creatura sintetica ma organica “per oltre il 90%”, affine per capacità cognitive e intraprendenza alla Lucy bessoniana, come pure latrice d’una sfera affettiva, ovvero d’un nucleo di desiderio, umana-troppo-umana), favorita da sovrapposizioni quantistiche inerenti il multiverso (a dire, la comprensenza d’universi paralleli più o meno sfasati d’un certo gradiente temporale), che se per una ragione allude a una possibile moltiplicazione di suggestioni riguardo il destino dei vari attori in scena, per l’altra, spesso e volentieri, s’offre sotto forma di sibilline spiegazioni (per inciso, non facilitate dalla compressione a cui viene sottoposto il più articolato e polisemico intercalare giapponese) che ne diluiscono sia il fascino sia l’effettiva portata.
In un quadro siffatto, ulteriormente ispessito da un sottotesto centrato sulla sottolineatura edificante secondo cui il genere umano da il meglio di sé quando mette da parte i contrasti e s’unisce in uno slancio collettivo, le accelerazioni e i cambi di ritmo dettati dagli scontri tra il malvagio Inferno (e i suoi sodali Ashura e Blocken) e la nutrita compagine dei buoni o, a maggior ragione, la presenza puramente comica di Boss e della sua improbabile squadra di disturbatori ancora pronta a opporsi all’invasione dei mostri con le armi della fantasia e dell’improvvisazione più che con i proverbiali pugni atomici e lame rotanti (intermezzo, questo, di contagioso svago sempre ai limiti d’una ludica e consapevole inverosimiglianza a sua volta parente prossima dell’astrazione più duratura, quella che contiene anticorpi auto-parodistici, i soli in grado di stemperare la sentenzionsità un po’ vacua di quelli chiamati a-salvare-il-mondo circoscrivendone, al contempo, responsabilità e appannaggi), quasi faticano a imporsi o si manifestano - ed è un paradosso - come propaggini dovute (alla rimembranza nostalgica, alle priorità produttive e commerciali) d’una battaglia (narrativa, estetica, morale) che si sta svolgendo altrove, magari proprio nel cuore di quella frizione, oggi nel pieno del suo vigore, all’interno dell’immaginario contemporaneo scisso tra la spinta a costruire inediti (e non di rado inquietanti) scenari futuri e l’irresistibile malìa esercitata da un passato idealizzato (prossimo, recente) mai stato così presente.
TFK
0 commenti:
Posta un commento