giovedì 11 maggio 2017

PROMETHEUS

Prometheus
dI Ridley Scott
con, Naomi Rapace, Michael Fassbender, Charlize Theron, Guy Pierce,  Idris Elba
USA 2012
genere, fantascienza
durata, 125'


Retrodata 1979 la nascita - è il caso di dirlo - di Alien, creatura immaginata dalla coppia O’Bannon/Shusett e disegnata da Giger, e al 1997 la sua ultima apparizione/clonazione. In mezzo, lo sviluppo seriale di un’idea che, di per sé, se da un lato alimenta plausibili perplessità circa scopi che, oggi come oggi, difficilmente esulano da valutazioni di carattere finanziario - è di ciò che ha assunto i contorni di una saga che stiamo parlando, qualcosa che nei decenni è entrato a far parte dell’immaginario collettivo grazie alla prepotenza d’un fascino modernissimo che si presta, tanto a stratificazioni semantiche e a imprevedibili interrogativi, quanto, per la quasi unanime resa a un materialismo estremo, a uno sfruttamento intensivo - dall'altro, in particolare negli amanti del fantastico, vellica un desiderio sempre aleggiante di-vedere-ancora, di esplorare recessi forse intatti di universi comunque arcani.

Una verosimile ipotesi circa il tentativo di Scott di sottrarsi alle secche della ripetizione sollecitando ancora la materia originaria (il regista non ha mai nascosto di non avere particolare predilezione per seguiti, repliche, rivisitazioni, anche se, è ovvio, con gli anni le affermazioni, in specie le più in apparenza radicali, si sfumano, al punto d’aver dichiarato di recente, non si sa quanto per assecondare la più britannica delle vis paradossali o per autentica convinzione, che, volendo, le avventure dell’argenteo protagonista potrebbero aprirsi a successivi sviluppi) conduce, ed è lo specifico del caso, sul sentiero insidioso della cosiddetta fantascienza riflessivo-contemplativa, compendiata appunto in “Promethus” in un prologo d’una ventina di minuti circa in cui s’argomenta intorno alle sorti dell'uomo a partire dalle sue ipotetiche origini extraterrestri. Sia chiaro: niente da dire sull'eventualità di raccontare mondi possibili puntando sulla malìa del pensiero speculativo anziché sul pragmatismo d’una solida messa in scena (il Prometeo del titolo è sia la nave spaziale spedita a rovistare gli spazi profondi, sia l'omonimo personaggio che nella variante platonica del mito forgia la stirpe umana). Ciò che si rischia (e in cui Scott incorre) è di stazionare perplessi a metà del guado, tra suggestioni cosmogoniche abbozzate che suonano alla fine accessorie e inconcludenti ed esigenze spettacolari che sacrificano parte del proprio potenziale plastico ed epico sull’altare d’una austera titubanza. Esattamente il rovescio dello spirito guida che improntava l’Alien primigenio, fedele dall’inizio alla fine al suo esplicito taglio avventuroso e trasversalmente apocalittico per la sapiente manipolazione e combinazione di elementi tipici, ossia di genere - dal thriller al western, per dire - ridotti all’osso della loro costituiva efficacia vuoi nella rappresentazione della diffidenza crescente tra i membri di una ristretta società di uomini che, al netto delle rivendicazioni dei singoli (la celebre gratifica invocata a più riprese dalla componenteoperaia dell’equipaggio) si può ritenere solidale per il banale motivo di avere una missione da compiere; vuoi nel sovvertimento di quegli equilibri una volta che all’interno della comunità s’installa un ospite inatteso e altro: vuoi, infine, nell'apoteosi del detto ospite al culmine del suo materiale e simbolico ruolo di causa della distruzione del fattore umano, artefice inesorabile di una caccia riflesso nitido della di lui da sempre temuta/agognata rimozione dalla Storia. 


Di tutto ciò in "Prometheus" non c'è traccia o accenno. Di più (o di meno): non v’è presagio ma il rincorrersi disordinato e poco coinvolgente di temi eterogenei spesso giustapposti o presentati come complementari senza il dovuto costrutto, semplicemente orecchiati dagli altri episodi del ciclo, se non di diretta quanto piatta derivazione dal capostipite. Ecco allora, stavolta in ordine sparso, i nebulosi afflati millenaristico-palingenetici della super-corporazione che finanzia il viaggio; gli sparuti accenni alla venalità di un paio di componenti della nuova ciurma; gli scambi di battute anodini (e deleteri per il ritmo) a comprovare l'esistenza di una qual dinamica di gruppo, a cui s’aggiungono i rovelli spiritual-filosofici del patriarca-magnate in cerca di risposte definitive, le esageratamente levigate elusività del sintetico David/Fassbender, sorta di figliogalattico in cerca di un impossibile padre (forse, chissà, parente lontano di un altro David, quello diA.I Artificial Intelligence), amante dei vecchi film, azzimato e quasi sprezzante, e, buon'ultima, l'entità non-umana propriamente detta, sedicente arma definitiva ritortasi contro i suoi creatori, razza superiore ribattezzata degli Ingegneri destinata a fornire il primo corpo-incubatrice alla genia di Alien.


Se insieme a ciò si riflette sulla sostanza prettamente orrorifica del film, nel senso della determinazione della stessa a partire non tanto e non solo dalla creatura come mero alieno ma dalla sua oscura e sublime inaccessibilità, da un lato, (ricordiamo che Ash, l’androide con competenze scientifiche del primo film interpretato da I.Holm, era arrivato a definirla purezza) e dall'altro dall'inaccettabile, oscena, possibilità che la sua epifania da un corpo umano non fosse estranea ad un’inconcepibile quanto conturbante/disturbante compatibilità biologica con esso, ci si accorge di come l’abbrivio di Scott si dispiegasse su cardini precisi, al tempo tradizionali e innovativi che, al contrario, "Prometheus" si limita a ricalcare con una sorta di diligente indolenza: notazioni, premonizioni, muti timori sulle frontiere del corpo come estremo strumento di linguaggio, l'ipotesi di una sua trasformazione (miglioramento ?) in chiave bio-meccanica, per dire e di fatto, a distanza di più o meno un quarantennio sono ancora quasi tutte lì, a testimoniare una modernità cinematografica del prototipo che il tempo e le mirabilia tecnologiche non hanno scalfito se è vero, come è vero, che esse rappresentano una sostanziosa fetta del dibattito scientifico e teorico contemporaneo. Longevità che non s’accorda, invece, all’illusoria attualità di “Prometheus”, che più allarga i confini della sua indagine, più assolutizza le proprie istanze di conoscenza, più carica le inquadrature di luci e di oggetti, più tralascia la terribile ambivalenza della carne, più smarrisce nerbo e credibilità. E cercando di sorvolare inoltre sul fatto per cui anche tenendo a margine queste considerazioni - a dire il sottotesto principale del film vecchio, organizzato secondo un fitto intrico di rimandi e suggestioni, di sgomenti e dubbi lasciati scientemente senza soluzione, liberi cioè di lavorare sull'inconscio di chi guarda, sulle sue ansie magari proprio riguardo i destini umani - e notando di sfuggita che l’insieme di partenza funzionava ed era godibile pure al più spiccio piano di lettura del "chi sopravvive, vince", il punto è che là doveAlien (la creatura e quindi il film) marciava sicuro e - non tanto per la nostra incolumità fisica ma innanzitutto per le nostre certezze - "Prometheus" - e non è ironia spicciola - rimane incatenato e concettualmente ondivago nell’impasse delle sue alterne elucubrazioni circa le origini del mondo e della specie; spesso gira a vuoto, affastellando scene di raccordo, contrattuali scampoli d'azione e congetturali chiarimenti non richiesti o tardivi, mentre il suo predecessore seguiva con rigore una lineare progressione drammaturgica, lasciava che il terrore serpeggiasse sottotraccia fino ad esplodere senza ritrosie e, soprattutto, non spiegava nulla limitandosi a suggerire e, suggerendo, diffondeva inquietudine e angosciosa attesa.


Nè giova all’ultimo arrivato la riverniciatura digitale tarata sui tempi, come la sempre puntuale sagacia di Scott (educato alle arti al Royal College) nella costruzione dell'immagine, nonché nell'impostazione impeccabile delle architetture e delle scenografie. In particolare, resta poco pertinente, ad esempio, l'eccessiva artificialità della scelta cromatica, concentrata sulle tinte vistose che portano tutto in primo piano in un rincorrersi di superfici al tempo nette e laccate, riducono al minimo le zone d'ombra che di Alien erano uno degli assi nella manica accentuando, con l'ambiguità di ogni punto su cui si poggiava l'occhio, il suo potenziale sinistro, la sua sostanzialeinaffidabilità. Così come lascia perplessi lo smaccato anacronismo di un apparato tecnico-scientifico troppo sofisticato rispetto agli avvenimenti posteriori che si pretende d’introdurre. In scia, simile risultato lo ottiene anche il cast, più o meno alla moda, più o meno superfluo, quanto l'altro era formato da facce relativamente fresche o comunque non ancora logorate dalla notorietà.

Trovata così la propria collocazione all'interno di un ideale asse tematico, Alien (e in maniera diversa l’angoscia futura descritta in Blade runner), appare ora, con occhio retrospettivo, come una delle più attente ricognizioni entro i non molti spazi problematici di un Cinema eminentemente elegante e restio alle complessità psicologiche come quello di Scott, in riferimento al quale "Prometheus" si configura, di converso, al pari d'una affaticata estremizzazione, lei sì nata giàvecchia o fuori tempo massimo, nonostante (o addirittura proprio in parte per) la sua smagliante, insistita cura formale. Uno splendore programmatico ma pressoché inerte che ingabbia la mai risolta tentazione/ripulsa manieristica dell’autore inglese in un’opprimente camicia di forza, prima accademica - un po' sussiegosa, un po' didascalica - poi slegata e frastornante, infine prona a quella che adesso appare la condanna a un ulteriore capitolo.
TFK

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