Prendete la New York di Woody Allen, classica, ordinata, composta, poi filmatela solo dopo averla messo a soqquadro, quando ancora il suo tessuto urbano è in preda all’improvvisa baraonda. La Grande Mela dei fratelli Safdie è proprio così, una versione Acid punk di quella rappresentata nei film del cineasta newyorkese. Come quest’ultimo i due autori la tagliano in lungo e in largo ma a differenza del predecessore lo fanno attraverso percorsi sporchi e rischiosi e in maniera ossessiva, restando sempre in movimento, sulla strada in mezzo alla gente, quasi a voler affermare un senso di appartenenza testimoniato dal fatto che i protagonisti di Good Time, Uncut Gems come pure Heaven Knows What non sono migliori ma uguali a coloro da cui si sottraggono. Se New York e la sua gente ne alimentano da sempre l’ispirazione allora quello dei fratelli Safdie è un cinema della restituzione e dell’essere comunità, nonostante tutto. In questo senso il mezzo sorriso sulla faccia di Adam Sandler in quello che è l’ultimo fotogramma della sua mostruosa interpretazione non è la legittimazione di un lutto ma il capovolgimento di un concetto: la tragedia dura l’attimo di uno sparo perché a restare è l’assoluto di Howard Ratner, felice di essere per sempre li, nell’unica città dove si può stare.
Carlo Cerofolini
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