domenica 29 marzo 2020

BOJACK HORSEMAN

BoJack Horseman
Viaggio al termine della disperazione: BoJack come ultima nota di un interminabile blues

di Rafael Bob-Waksberg
USA 2014/2020
stagione I/VI; ep. 77
durata, 25’/ep.
genere, animazione



"Non guardavano oltre la superficie [...]
ma in realtà era tutto superficie"



Tra le numerose inside del contemporaneo, come se già non ce ne fossero abbastanza, hanno trovato posto, e anche in prima fila, quelle discariche digitali altrimenti note come piattaforme streaming. In questi non-luoghi della morte, tra metaforici gabbiani schiattati di tifo e alluci mozzati di barboni, è ancora possibile, cercando bene e col naso tappato, rinvenire delle sorprese inaspettate, pietre così piccole ma così preziose da far pensare "come diavolo hanno fatto a finire lì ?". Tra queste è riuscita a emergere, apparentemente senza neanche troppo affanno, la serie animata che ha come protagonista il cavallo più psicopatico - depresso, narcisista, e sovraccarico di traumi infantili - del West.

Ambientata in una Hollywoo - nel corso della serie si scoprirà che a divellere la celebre D finale sia stato proprio BoJack - quasi totalmente popolata di personaggi zoomorfi, il protagonista è un attore in realtà pseudo depresso e alcolizzato arrivato al successo qualche decennio prima grazie a una sitcom chiamata "Horsin' Around" - per intendersi, una di quelle insopportabili celebrazioni del cretinismo americano tout court, fatta di applausi a comando e cascate di finti buoni sentimenti, in cui il nostro accoglie in casa sua tre orfanelli diventandone di fatto il padre adottivo - e ai tempi della narrazione completamente fossilizzato nel passato, tant'è che il suo unico tentativo di tornare alla ribalta scrivendo un'autobiografia appare goffo, insensato e difatti procrastinato all'illimite nonostante l'arrivo di Diane, ghostwriter incaricata di redarre le suddette memorie, personaggio che arriva quasi come mentore/salvatore del protagonista salvo poi lasciarsi andare anch'essa, seppur a suo modo, nel vortice della decadenza - per dire, vederla ingrassare infelice a Chicago dopo aver abbandonato LA non era propriamente una previsione considerabile nemmeno nella più funerea delle aspettative -. Insomma, il mito del grottesco mondo glamour americano che si disgrega su sé stesso non è altro che una scenografia di sfondo a storie di personaggi - anche quelli più estremamente comici e apparentemente sorretti dalla retorica idiota del think positive come Todd e Mr Peanutbutter - che altro non fanno se non mettere in scena, in maniera continuata e soprattutto necessaria, i propri drammi. 


Da non sottovalutare, poi, una certa tendenza a inserire sull'ipotetica linea retta della narrazione alcune puntate - si pensi a "Fish out of water”, stag. III, ep 4 - nelle quali BoJack non può parlare, bere, fumare [ovvero i tre modi in cui è abituato a comunicare davvero qualcosa] e, quando tenta di farlo tramite una lettera, l'inchiostro si dissolve irrimediabilmente nell'oceano prediligendo la via del nichilismo - dal sapore allucinatorio, enigmatico, fuori controllo, eppure talmente dense da creare una strana e inquietante empatia con l'inconscio di chi guarda.

Se è vero che di narcisisti patologici autodistruttivi ne è pieno il cosmo, BoJack è uno di quelli che ha la prospettiva privilegiata - il tetto, le stelle, il silenzio, Diane... - di scoprire/intravedere/ipotizzare che forse c'è davvero qualcosa sotto la superficie, che la consapevolezza della fine non è tutto ciò di cui abbiamo bisogno per sopravvivere e che il mondo, forse, non è soltanto un luogo dove morire.
Antonio Romagnoli


nota 1: la citazione iniziale è tratta da "Il Re pallido" di David Foster Wallace.
nota 2: l'autore dell'articolo si è ritrovato, in una situazione comica se non fosse assolutamente drammatica, a essersi reso conto di non aver scritto una riga del suddetto articolo per circa tre giorni dalla commissione dello stesso, situazione inquietantemente simile a quella del primo episodio della serie.


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