domenica 1 marzo 2020

5 ' E' IL NUMERO PERFETTO: CONVERSAZIONE CON IGORT

In concorso al 21/mo Sudestival, 5 è il numero perfetto diretto da Igort è un film che rende molti omaggi. Il primo per ordine di evidenza è alla città di Napoli che fa da sfondo alla storia e che si presta con il suo immaginario materiale e filosofico




5 è il numero perfetto è un film che rende molti omaggi. Il primo per ordine di evidenza è alla città di Napoli che fa da sfondo alla storia e che si presta con il suo immaginario materiale e filosofico.

Sì, mi interessava raccontare una storia che avesse un equilibrio a cavallo tra ironia e tragedia e Napoli mi è parsa la città ideale. Amo la sua musica, il suo teatro. E da un punto di vista esistenziale la città ha elaborato una capacità, nei secoli, di avere a che fare con il dolore, con le difficoltà, che mi ha sempre molto impressionato.

All’epoca, quando ho cominciato a scrivere, vivevo a Tokyo e potevo godere del lusso di vedere l’Italia da lontano. Scrivere e disegnare quella storia mi ha fatto capire tante cose. Portarla sullo schermo poi, con tutti attori napoletani, è stata una danza complicata ma molto felice.



In particolare, mi sembra che alla stratificazione storica e culturale tipica della città tu ne faccia corrispondere un’altra di tipo cinematografico costituita dalle diversità dei generi, delle forme narrative (fumetto, letteratura, teatro), di immagini che in certi passaggi assumono una plasticità tipica del cartone animato. La città e il dispositivo sono contenitori multiculturali. 

La città è una sovrapposizione di culture antiche, questo mi ha sempre affascinato. È chiaramente una città sapiente. Per me la cultura è questo, meticciato innanzitutto. Io accosto, in tutto ciò che faccio, cose di cui avverto rotte possibili, i miei racconti sono mappe dell’immaginario. E se per alcuni certi elementi non sono compatibili non me ne curo, procedo seguendo la mia mappa. Sono un irregolare.

Però è bene chiarire che la mia è una cucina interiore, capisco la cinefilia, ma non faccio opere per il gusto della citazione, non mi interessa la lista di chi amo o di chi non amo, mi interessa il racconto, la temperatura emotiva dei personaggi, la scelta difficile avanti ai drammi della vita. Amo il teatro che parte da un assioma del tutto artificiale, il palcoscenico, per creare mondi e illusione di vita.

In questo senso, sono molti i riferimenti cinematografici. Se esistenti, mi interessava sapere di quelli relativi al cinema di Hong Kong, anticipato dal poster di 5 dita di violenza e presente nella rappresentazione coreografica degli scontri a fuoco, e poi al Polar francese: penso a Melville, per il peso della componente esistenziale; all’Espressionismo tedesco, per la valenza della luce e delle ombre.

Certo, amo il cinema di Hong Kong e Melville, come tante altre cose. Come detto, le cose che hanno nutrito la mia visione sono centinaia. 5 dita di violenza è stato il primo film di kung fu ad arrivare in Italia, nel racconto rappresenta un momento di spaesamento.

Peppino Lo Cicero è un guappo in pensione, un uomo di altri tempi;  il suo cinema, la violenza che lui ha visto sullo schermo, è quella di un’altra generazione, i suoi film sono quelli con James Cagney ed Edward G. Robinson. Si nasconde in un cinema e vede un film di kung fu, con estetiche, dinamiche, e scontri che non capisce, non gli appartengono. Volevo raccontare lo stordimento, lo spaesamento.


Alla pari di quello interpretato ne La grande bellezza, mi pare che anche 5 è il numero perfetto offra a Toni Servillo l’opportunità di esplorare un personaggio sospeso tra la vita e la morte. Peppino Lo Cicero è una specie di “non morto” che attraversa la città a piedi, come faceva Jep Gambardella. A ricordarcelo c’è il suo muoversi rapace nell’oscurità della notte e la fisicità della sua figura e, in particolare, il suo naso aquilino che rimanda al Nosferatu di Murnau.

Ho scritto questa storia nel 1994, è una storia che è cresciuta dentro di me per otto anni prima di pubblicarla in volume. Peppino è un uomo che vive il crepuscolo della sua vita felice, sino a quando un grande dolore, la perdita del figlio, gli fa capire che forse non aveva compreso niente. È un film che parla di una seconda inattesa chance, di una rinascita.

Dall’altra parte, mano a mano che Peppino torna in azione per vendicare la morte del figlio, è come se il personaggio tornasse progressivamente in vita.

Esattamente.

Anche il paesaggio cambia, diventando luminoso e assolato. La dialettica tra luce e buio più che al  bene e male mi pare corrisponda ai diversi stati d’animo del personaggio.

Ogni interpretazione è lecita, posso dire che a me interessava raccontare l’uscita da una dimensione esistenziale prefissata, con l’ausilio di una spinta maggiore, superiore potremmo dire, che è quella, la grande certezza di Rita.

Peppino è altro, è un uomo diverso da quello che lui stesso crede. In questo senso, anche lavorando con Valeria Golino ci si diceva che il suo personaggio è il protagonista segreto del film. L’unico personaggio che tiene il punto e che non vacilla mai.

Circondata dalla criminalità (suo padre era un guappo, l’uomo che ama è un guappo, suo fratello entra ed esce da Poggio Reale, e lei no, lei fa la maestrina), tiene il punto, non si fa coinvolgere. Sino a quando, come Orfeo ed Euridice, ma a parti rovesciate, per andare a prendere negli inferi il suo amore si sporcherà le mani. Ma anche allora, anche se spara, Rita rimarrà convinta che esiste un’altra vita possibile, lontano dagli ammazzamenti da quella città che i protagonisti vivono come una Kasbah criminale.



D’altronde che la Napoli di 5 è il numero perfetto sia un luogo dell’anima ce lo dice la sequenza iniziale, in cui la discesa delle scale del protagonista assomiglia a una sorta di immersione negli inferi, come pure quella della processione, con la nebbia e il rallenti che la rendono a metà strada tra sogno e realtà.

Napoli è anche questo, un paesaggio dell’anima. La realtà è barocca, diceva Orson Welles, e a me interessa molto il rapporto segreto tra visibile e non visibile, in questo senso il film è un viaggio su diversi livelli, credo.

Tu fissi un preciso periodo temporale, che è appunto gli inizi degli anni Settanta, dunque fai anche un’operazione di costume ricostruendo un’epoca passata. Successivamente, però, ne tradisci le prerogative, filmandola con estetiche e stilemi molto contemporanei. Volevo ti soffermassi sui principi con cui hai affrontato tale questione. 

Se io parlo di un’epoca posso anche usare musiche contemporanee, come ha fatto Soderbergh con The Knick, in cui alle scene di inizio Novecento si contrappongono le musiche elettronico minimali di Cliff Martinez. È il cinema, la sua grande libertà interpretativa. Ma nel mio caso ho usato una ricostruzione precisa, siamo nel 1972, è Peppino che si veste come se fossimo alla fine degli anni ’40. E suo figlio anche lui in maniera anacronistica. Il mondo per il resto è anni Settanta. Peppino e Nino sono due pesci fuor d’acqua, lui educa suo figlio secondo precetti antichi, di un’epoca che sta sfiorendo, già si sentono le prime arie di un vento che diventerà uragano, quello della NCO, la Nuova Camorra Organizzata, che di lì a pochi anni investirà la criminalità napoletana, portandola a stravolgere codici d’onore e vecchia guardia. Nino in tutto questo si muove come un bravo soldatino, vive e esegue gli ordini come avrebbe fatto suo padre. Una dimensione esistenziale che sarebbe stata spazzata via in poco tempo.



Delle tue esperienze precedenti ti porti dietro, tra le altre cose, l’importanza delle linee, dei volumi e, in generale, il rapporto tra spazio e figure. Penso al modo stilizzato con cui ritrai i personaggi destinati in alcuni casi a diventare puro segno. Penso alla casa di Peppino, isolata e inquadrata dall’alto, con le cubature simili a un bunker che rimandano alla condizione esistenziale del personaggio, all’inizio del film, in esilio dalla vita attiva e ripiegato su se stesso. Penso ancora alla configurazione dei vicoli e dei portici di cui esalti le geometrie.

Sì, chiaro, io amo le architetture e per me la città era un protagonista del racconto al pari dei personaggi. Per questo l’ho svuotata, l’ho resa piovosa, e labirintica. La città deve somigliare alle solitudini del protagonista.

Nelle sequenze in campo lungo o in quelle dall’alto alteri la geografia del paesaggio, conferendogli una sorta di romanticismo retro, l’ultima traccia di un mondo che sta scomparendo.

Sì.

Peppino a un certo punto afferma che la vita è terribile e che, soprattutto, ha un grande senso dell’umorismo. Mi sembra che questa frase riassuma un po’ i toni del tuo film, che sono drammatici ma anche farseschi e caricaturali.

Grazie, era quel che ho cercato di raccontare, come dicevo a inizio intervista.

Anche il rapporto tra i titoli dei capitoli in cui è diviso il film e i loro contenuti rimandano a questa mescolanza di toni. Penso per esempio al primo episodio, intitolato Lacreme Napuletane, che gioca sul significato dell’atto criminale compiuto ai danni del figlio di Peppino e sull’eccellenza del caffè napoletano.

Lacreme napulitane è il titolo di una canzone del 1925, da cui fu tratta una celebre sceneggiata, e in seguito un film interpretato da Mario Merola. È pura cultura napoletana. E mi interessava proprio per questo. Nel film c’è la ritualità partenopea, il rito del caffè, che è raccontato come un vero rito, come pure le sparatorie rese rituali, una cerimonia di morte in pratica.



Volevo chiederti se l’uso di certi rallenti dipendeva dal fatto di replicare la possibilità che ha il fumetto di cristallizzare per sempre un’azione, di fermare l’attimo. Di fatto questa è la sensazione che mi ha dato.

Ripeto, ogni interpretazione è libera, quando penso a un linguaggio il mio centro non è il fumetto, che è un medium che pratico, come la scrittura o la musica. Quel che cerco di potenziare sono le dinamiche intrinseche del linguaggio stesso. Il rallenti cosa è? In un film il rallenti rende oniriche e mitiche le cose che mostra, in questo mi interessava. Sullo stravolgimento dei piani del racconto.

La sequenza relativa alla sparatoria nel rifugio di Don Guarino mi sembra indicativa del tuo mettere insieme diversi immaginari culturali. L’uso contemporaneo delle due pistole al posto di quella singola, come pure il modo di tenerle in pugno da parte di Peppino e Totò, certe soggettive da videogame, l’uso del rallenti, la musica in stile Il Padrino, il personaggio della Golino vestita in nero che ricorda la Nikita di Luc Besson e, infine, l’uccisione degli avversari realizzata con una soggettiva da videogame: mi piacerebbe saperne di più sulla concezione di questa scena.

Penso al cinema. Hitchcock, per esempio, usava delle ottime soggettive, ben prima dei videogame sparatutto ai quali ti riferisci.

L’uso delle due pistole è legato a The Shadow, un personaggio della letteratura pulp che usava le Colt M 1911 che usa Peppino. La musica che definisci “stile Padrino” è musica italiana, composta per l’occasione nella tradizione della grande musica italiana da film (di cui Nino Rota è un principe, ovviamente, come pure Morricone, Piero Umiliani, Piero Piccioni, Armando Trovaioli e tantissimi altri).

Mi interessava che un film italiano parlasse al pubblico internazionale riallacciandosi a quella tradizione, se possibile per rinnovarli. Sono un grande ammiratore di quella cultura e di quella visione. E credo che il cinema moderno sia nato in Italia (Fellini, Leone, Antonioni, tanto per fare tre nomi), sia poi rimbalzata in Oriente (a un pranzo con John Woo abbiamo parlato per due ore e mezzo solo di Sergio Leone) e poi, da lì,  passata in America.

Molti vedendo il cosiddetto triello (tre killer che si puntano reciprocamente la pistola l’uno contro l’altro) dicono “Tarantino!”, in realtà è Ringo Lam, che a sua volta ha rubato a Leone. La cultura, la visione, viaggia, diventa meticcia, appunto.


Anche la scelta degli attori è espressione di questa eterogeneità. Servillo, Buccirosso e Golino mettono insieme cinema e teatro, autorialità e mainstream. Ritorna la stratificazione – in questo caso culturale –  di cui si parlava all’inizio. Mi interessava sapere come hai lavorato con Servillo e qual è stato il suo contribuito nella creazione del personaggio, anche in virtù dell’esistenza del precedente figurativo rappresentato dalla graphic novel.

Toni ha sempre amato il romanzo grafico, ha atteso 12 anni prima di interpretare il ruolo del protagonista, tra me e lui si è creata una complicità che sul set, mentre lavoravamo, è cresciuta. Toni è un sommo professionista, ha una tecnica pazzesca, ma soprattutto è un uomo che sa recitare con il cuore e che ha un grande senso dell’ironia.

Questo era essenziale per rendere le sfumature sempre a cavallo tra ironia e tragedia che la storia gli serviva. E lui ci si dedicava ogni giorno con tutto l’amore possibile. Toni non è un attore che va con il pilota automatico, se mi si passa l’espressione. Cerca sempre, scava.

Certe mimiche per esempio, che rimandano a quelle del fumetto, le ha sfoderate lui, sul set, io pensavo a tutto, tranne che a questo, proprio perché per me quando si fa cinema si fa cinema, mi interessava proprio la cifra della reinvenzione. Eppure funzionavano.

E allora abbiamo seguito questa costruzione. Valeria è un’artista che lavora sulla fragilità, sull’impalpabilità, sui silenzi, sulle espressioni, certi sguardi che dicono tutto, senza bisogno di parole. Ma ha una grande tenuta anche nelle scene d’azione, sembra nata per sparare. E Carlo ha dimostrato di avere una tempra di attore drammatico di primo piano. È stato incredibile.
Carlo Cerofolini
(pubblicata su taxidrivers.it)

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